La domenica appena trascorsa è stata per me una giornata di grande festa: si è sposata la prima nipote della famiglia, la figlia grande (26 anni) di mio cognato. È insomma iniziato il secondo giro, è avvenuto il primo passaggio di testimone tra famiglia di origine e nuove famiglie, i figli sono diventati colleghi, in questo difficile mestiere di essere coppia.
Tralasciando la meravigliosità sbarluccicante degli sposi e tutti gli elogi che potrei qui esporre a paginate per questi giovani che mi paiono sinceramente senza difetti, devo dire che le mie coronarie sono state messe a durissima prova da una tempesta di emozioni senza precedenti (e dire che io sono un tipo solitamente distaccata e poco emotiva). Ho iniziato a piangere senza ritegno all’ingresso degli sposi in chiesa, con goccioloni che facevano pluff sul pavimento. Non sapendo dove nascondermi, mi sono girata verso il vicino di panca, il marcantonio nuotatore fidanzato di una delle sorelle della sposa, il quale mi guardava con bonario compatimento, probabilmente chiedendosi con sincero stupore cosa ci fosse da piangere. Ma io in quel viso giovane e fresco ho visto subito il riflesso della prossima marcia nuziale, perché gli anni rotolano via a velocità supersonica, anche se i ragazzi non lo sanno, ed ho pianto ancora di più.
Dalla mia sinistra mi giungeva netta e precisa, come la traiettoria di un puntatore laser, la voce squillante di mia figlia, che cantava nel coro (magnifico); di fronte a me ondeggiava la chioma riccioluta dell’altra figlia, che con il vertiginoso e inusuale tacco 10, svettava molto al di sopra dei suoi 14 anni.
Ho pianto ad ogni canto, ho pianto mentre gli sposi pronunciavano la formula del matrimonio guardandosi negli occhi, sicuri e sorridenti, ho pianto allo scambio degli anelli, alla preghiera dei fedeli (pure mentre leggevo io), ho pianto ai ringraziamenti finali. Ma soprattutto ho pianto durante il canto “Lode al nome tuo” (che il coro ha pure ripetuto alla fine, con mia aggiuntiva spremitura di ghiandole lacrimali).
Lode al nome tuo dalle terre più floride
Dove tutto sembra vivere lode al nome tuo
Lode al nome tuo dalle terre più aride
Dove tutto sembra sterile lode al nome tuo
Tornerò a lodarti sempre per ogni dono tuo
E quando scenderà la notte sempre io diròBenedetto il nome del Signor
lode al nome tuo
Benedetto il nome del Signor
Il glorioso nome di Gesù.Lode al nome tuo quando il sole splende su di me
Quando tutto è incantevole
lode al nome tuo
Lode al nome tuo quando io sto davanti a te
Con il cuore triste e fragile
lode al nome tuo
Tornerò a lodarti sempre per ogni dono tuo
E quando scenderà la notte sempre io diròBenedetto il nome del Signor
lode al nome tuo
Benedetto il nome del Signor
Il glorioso nome di Gesù
Tu doni e porti via
tu doni e porti via
ma sempre sceglierò
di benedire Te.
Questo canto, uno dei più ispirati del Rinnovamento dello Spirito, a mio parere, ha un testo che scortica l’anima: quest’anno l’ho sentito eseguire al funerale di una persona dotata di grande fede, morta di un doloroso tumore. Ed ora era qui, ad un matrimonio: infatti le sue strofe contraddittorie abbracciano ogni evento della vita, dalle terre più floride alle terre più aride, quando tutto è incantevole ma anche con il cuore triste e fragile.
Mi sono chiesta quanta consapevolezza avessero questi giovani sposi della verità di quel testo, se fossero stati attratti solo dalla bella melodia o anche dal suo significato.
Mi sono rivista solcare quella stessa navata, vent’anni fa, con il medesimo sorriso senza ombre, sereno, pieno di pace e speranza; ho vissuto un déjà vu fisico, corposo, sostanziale, lungo tutto un giorno, come se fossi finita in un’aderenza del foglio del tempo, che, arrotolato su se stesso, incolla il colore di due parti diverse e molto distanti del disegno.
Ho pianto tantissimo su me stessa, sul tempo trascorso a volte invano, sulle rughe sprecate in superficialità stupide, sulla saggezza che manca, sulla imperfezione del mio matrimonio, partito anch’esso con una simile overdose di felicità e troppo spesso arenato nella quotidianità e provato al fuoco del lutto e della malattia. Ma soprattutto ho pianto per la gioia di riconoscere una grazia corposa, fisica, materialmente presente, solida come un pezzo di pane, essere presente lì e in tanti altri luoghi e momenti della mia vita e della vita degli altri. Tutto è già presente in quel giorno, in quel sì pronunciato davanti a Dio, quando la giovinezza prorompe tra il tulle e i pizzi, quando la bocca si riempie di confetti e brindisi, quando le risate riecheggiano nelle orecchie.
In quei passi lenti e compiaciuti, sotto lo sguardo di amici e parenti, c’è già il dolore del parto, ci sono le colichette notturne, le veglie per l’otite, le ossa rotte, le malattie improvvise, ci sono i giorni al capezzale e i funerali. E c’è la gioia incontenibile di vedersi superare dai figli e dai nipoti, l’ansia per i destini su cui non si ha controllo, la pace del sentirsi sempre meno indispensabile, la paura di dare l’estremo saluto, la premura di ritrovarsi tutti nell’aldilà.
L’eternità esiste già in ogni istante del matrimonio, dal primo all’ultimo, e più passano gli anni, più si accumula, nelle pieghe della pelle invecchiata, la capacità di vedere la vita in 4D: tre dimensioni spaziali e una temporale.
Al rinfresco si potevano lasciare dei messaggi di augurio agli sposi: davanti al foglio bianco, ho pensato ad un tema di mille mila parole per descrivere la complessità e la ricchezza di quello che li attende, con qualche cenno colto e saputo su Giovanni Paolo II, un inciso sulla passione, un elogio della fede, un’invocazione allo Spirito. Alla fine non ho scritto niente.
Però mi è venuto in mente adesso quello che avrei dovuto scrivere: «Grazie, perché ogni matrimonio rinnova il nostro».
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