di padre Dario Bossi
È un oggetto di artigianato comune, prodotto in Amazzonia da artisti locali, condiviso e utilizzato come simbolo della vita e della fecondità: una statua di legno che raffigura una donna indigena gravida. Si trovava nella Chiesa Transpontina, in Roma, assieme a vari altri elementi amazzonici come una canoa, frutti della foresta, reti da pesca, immagini e foto di altri popoli tradizionali, nello spazio di preghiera permanente che accompagnava passo a passo il Sinodo dell’Amazzonia, offrendo un’occasione di incontro tra i popoli indigeni, e tra di essi e la gente in Roma.
All’improvviso, è scoppiata una polemica, che gridava al paganesimo e alla venerazione di immagini idolatriche. Un video di un’azione “punitiva” e “riparatrice”, del furto della statua dalla chiesa e del suo lancio nel Tevere, ha fatto il giro del mondo, commentato in diverse lingue.
I critici del Sinodo dell’Amazzonia sanno bene che il problema non sta in quest’immagine.
Ma la strategia efficace della comunicazione oggi, quando si vuole smontare, confondere o indebolire processi, è puntare su elementi simbolici che facciano appello ai sentimenti primari della gente: la paura, l’autodifesa, il vincolo viscerale con le proprie certezze…
È una tecnica molto usata anche in processi politici recenti, come in Brasile (il caso del “kit gay” – fake news con cui in campagna elettorale l’attuale presidente ha diffamato il suo avversario) o nel Brexit (la minaccia dei turchi, secondo la denuncia di Carole Cadwalladr sui tanti commenti manipolati che circolavano su Facebook all’epoca del referendum britannico).
La statuina indigena non è un fatto isolato, magari un po’ folkloristico: è una nuova tappa di un piano ben architettato, collegato ad altre strategie di critica al Sinodo e a Papa Francesco, un progetto con investimenti consistenti di denaro, conoscenze e uso manipolato dei social media.
Papa Francesco lo ha compreso. Durante i lavori delle tre settimane di assemblea sinodale ha parlato, brevemente, solo tre volte. Una di esse è stata per chiedere perdono, come vescovo di Roma, alle persone che sono state offese da questo gesto. Non lo ha lasciato passare in silenzio, non ha aggredito i detrattori del Sinodo, ma ha fatto capire che è in atto un attacco e un’offesa al diritto e alla dignità di molte persone e culture.
Inoltre, ha sottolineato che non c’è nulla di idolatrico nell’arricchire la preghiera con simboli e gesti che provengono dalle culture indigene.
Questa vicenda ci permette di approfondire e tentare di smascherare un metodo di comunicazione che continuerà ad aggredire, spesso in modo superficiale e quasi sempre fondamentalista, molti altri processi di conversione e cambiamento nella Chiesa, e varie proposte politiche costruttive.
Ci fa riflettere anche sul rapporto tra il Vangelo, la religione e le culture. Il Vangelo è nato nel cuore di una cultura specifica, della Palestina. Si è adattato ed ha acquisito forme e espressioni della cultura greca, prima, e romana, poi. Attorno a questo Vangelo si è consolidata una forma religiosa con le caratteristiche culturali latine ed occidentali.
Ha acquisito e integrato elementi, simboli, gesti e tradizioni di altre culture, considerate «pagane», come l’uso dei templi dedicati ai santi e decorati con i rami degli alberi, l’incenso, le lampade e le candele, le offerte ex voto per la guarigione di una malattia, l’acqua benedetta, le feste e le stagioni liturgiche, l’uso dei calendari, le processioni, la benedizione dei campi, i paramenti sacerdotali, la tonsura, l’anello usato nel matrimonio, il dirigersi ad est, le immagini, il canto ecclesiastico ed il Kyrie Eleison. Il cardinal Newman, recentemente canonizzato, spiega che tutti questi elementi sono di origine “pagana” e sono stati positivamente integrati nella nostra religione.
Ora, però, in un mondo che sempre più ci apre alla pluralità degli incontri interculturali, difendiamo una religione “pura” che non si lascia “contaminare” da elementi di altre culture, li demonizza ed esorcizza.
Dietro questa difesa, in un tempo di precarietà e di incertezza sul futuro, si nasconde la paura di perdere altre sicurezze. Ci arrocchiamo nelle nostre convinzioni, senza renderci conto del serio pericolo dell’asfissia spirituale e del razzismo delle nostre posizioni.
Uomini “bianchi” ed europei, dichiarandosi fedeli alla legge della religione cattolica, hanno invaso una chiesa e uno spazio di preghiera in cui si stavano intrecciando diverse culture in rispettoso ascolto di Dio e del Sinodo, ed hanno strappato un’immagine femminile, simbolo della vita, con lineamenti indigeni, con l’intenzione di “purificare” la fede.
Ma dietro questa paura e questa violenza, come dicevamo all’inizio, ci sono progetti più consistenti, che ne fanno uso e la manipolano, in diverse occasioni e in varie parti del mondo, per attaccare processi, percorsi religiosi e politici che tentano promuovere l’integrazione delle differenze, la riduzione dell’esclusione, la giustizia e l’impegno contro ogni disparità di diritti e contro l’accumulazione di denaro e di potere.
Dopo le statuette, altri dettagli simbolici verranno ingigantiti ed utilizzati a servizio di questo piano. Una risposta a questa reazione epidermica, aggressiva, viscerale, autoreferenziale e piena di rabbia può essere data con i fatti, la testimonianza concreta, l’esperienza di vita, il dialogo a tu per tu, l’incontro, la riflessione ed il dibattito rispettoso, in cui però si ponga attenzione ai prediletti di Dio e si dia autorità di parola e di proposte alle vittime di questo sistema, che esclude il diverso, il più fragile, il meno utile.
Mi pare però piuttosto semplicistico ridurre il tutto al solito “complotto” di comunicazione-delegittimazione, magari studiato a tavolino.
Come anche non porsi il problema del perché un giovane assieme ad altri, abbia meditato e deciso di gettare nel Tevere le statuette degli “idoli”, liquidando la cosa come questi fosse semplicemente araldo di forze che hanno come obbiettivo solo “una nuova tappa di un piano ben architettato, ecc. ecc.” (e si badi bene non sostengo non possa esistere).
Ridurre la presenza delle statuette della pachamama ad una questione “folkloristica”, mi pare decisamente un banalizzare la questione.
Dare lustro a tutta una serie di storiche trasformazioni dei riti e/o simboli pagani nella storia – che andrebbero meglio analizzati nei modi e nei Tempi storici appunto – per affermare che così sarà della statua e delle credenze pagane odierne, seguendo una prassi che crea ben più di qualche lecito dubbio o sconcerto, è altrettanto un modo sbrigativo per quanto apparentemente dotto, di liquidare la questione in un tempo in cui ogni tipo di idolo, anche quelli spirituali, dematerializzati e subdoli, sta ammorbando l’animo umano senza che troppo ci si preoccupi di accusarli (il peccato non il peccatore), di svelarli e talvolta neppure combatterli.
Innumerevoli sono i passaggi Scritturali, che parlano di “idoli muti” e idoli scolpiti, di come questi non portano alcun bene e quindi più che alla “purezza” del Credo Cristiano (che ad ogni modo dovrebbe essere difesa), la preoccupazione dovrebbe essere rivolta alle Popolazioni che a questi idoli ancora si rivolgono.
Da questa pastorale e cristiana preoccupazione, possono lecitamente sorgere alcune domande:
Quale il compito della Chiesa verso tutti i pagani, verso coloro che sono idolatri non per colpa e rifiuto di Dio (anche per questi comunque c’è una Parola), ma per profonda ignoranza?
Pur con tutta la misericordia possibile e dovuta, ci si può permettere di far credere loro che un qualsiasi idolo è «intercambiabile» con il Dio Unico e Vero, che possono avere Speranza e Vita non abbracciando Cristo, quando è loro degnamente e con valentia, offerto?
E rispetto il Popolo di Dio, si può correre il rischio di fare credere che il Dio di Gesù Cristo e «scambiabile», con qualsivoglia «altro dio» o peggio idolo.
Che “Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai”. (Lc 4,8) è solo comando desueto, che oggi è da “contestualizzare” con tanti se e tanti ma?
La religiosità naturale di ogni Uomo (che per ignoranza facilmente si crea o si dà agli idoli), che Dio stesso ha infuso nel cuore dell’Uomo per spingerlo alla ricerca del Sommo Bene, è leva e punto di partenza della ricerca perché si approdi a Cristo o può essere considerata un «beato status quo», in cui lasciar cullare le anime che vi si trovano?
Gli indigeni d’Amazzonia, adoratori di pachama, tornano da Roma con sani dubbi e sante illuminazioni che li possono convertire a Cristo o illusi e (ancor più) convinti del loro «credo santificato».
Perché se da una parte abbiamo un giovane che ha compiuto un gesto (condivisibile o meno) che si bolla come facente parte di una strategia occulta – o non più tanto occulta – dall’altra abbiamo un parroco, don Claudio Castellani, che nella sua parrocchia del Sacro Cuore, Diocesi di Verona, ha ideato una (grottesca) “preghiera all’idolo”.
«Pachamama di questi luoghi, bevi e mangia a volontà questa offerta, affinché sia fruttuosa questa terra. Pachamama buona madre, sii propizia! Sii propizia! Fa’ che i buoi camminino bene e che non si stanchino. Fa’ che la semente spunti bene, che non succeda nulla di male, che il gelo non la distrugga, che produca buoni alimenti. A te lo chiediamo: donaci tutto. Sii propizia! Sii propizia».
In questo caso, risolviamo il tutto con un “poveretto ha sbagliato”?
O attendiamo che anche questa “preghiera” venga inglobata e trasformata dal Credo Cristiano (come se ce ne fosse bisogno in una Parrocchia Cristiano Cattolica in diocesi di Verona)?
E’ un parroco… un pastore. Se prende lui una simile cantonata, si applica ad una preghiera idolatra, per non dire eretica, come non possiamo preoccuparci e sottostimare i contraccolpi in anime dalla Fede ancora debole o incerta?
Quindi caro Padre Bossi, pur con il rispetto dovuto alla sua esperienza e posizione, la sua mi pare una visone riduttiva e semplicistica della questione per come affrontata.
Una difesa d’ufficio, con una accusa di parte (come accuse di parte e pretestuose possiamo trovare a iosa sullo schieramento opposto), che non si pone un solo problema né una sola concreta domanda.