di Atanasie di Bogdania (Rusnac)
Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Gv 12,24-26
Carissimi, queste sono le parole con le quali il Signore preannuncia la fine ed il fine del Suo Ministero sulla terra, il senso della Sua incarnazione e missione. Egli, come il chicco di grano, va incontro alla morte ma per la vita. Produrre frutto è il destino del chicco di grano, ma perché ciò avvenga deve passare dall’oblio e dalla morte.
Fondamenti scritturistici e patristici
Questo mistero e questo modus vivendi non è solo del Cristo ma appartiene a tutti coloro che nei secoli, e sino alla fine dei secoli, vogliano seguire il divino Maestro. Il Signore Gesú conferisce a queste parole un potere tale che, “chiunque” si incammina sulla via del Maestro riceve il dono di dare la vita:
In verità, in verità vi dico: chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà.
Gv 12,24-26
Alla luce di questa verità la comunità cristiana, assieme agli apostoli del Signore, ha legato la sua testimonianza alla capacità ed il coraggio di vivere per Cristo ed al modo di Cristo; cioè: professare la fede nel regno di Dio fino alla morte. San Paolo testimoniava ai Galati:
Sono stato crocifisso con Cristo e non sono piú io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me.
Gal 2,20
Questo desiderio di “morire” per Cristo e per il Regno di Dio ci è testimoniato, in periodo postapostolico, in modo mirabile, da sant’Ignazio di Antiochia, il Teoforo, che scrivendo ai cristiani di Roma, verso cui è condotto per essere giudicato a causa di Cristo, dice:
Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesú Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio.
Sant’Ignazio Teoforo, Lettera ai Romani IV, 1-2
I discepoli del Signore, perciò, guardano al Regno di Dio, alla sua realizzazione, con la convinzione che solo dall’offerta di sé stessi può realizzarsi quel regno che Gesú, il Cristo e Figlio Unigenito del Padre, è venuto ad annunciare ed inaugurare proprio con il suo abbassamento, annichilimento:
Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritiene un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Fil 2,6-8
Il martirio monastico
Tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, molti uomini e donne, attratti dal desiderio di annichilirsi per il Regno di Dio, si sentono attratti da una vita di solitudine e contemplazione. Di solitudine, non nel senso di fuga dall’altro, ma come bisogno di scomparire agli occhi del mondo, cosí come il seme interrato scompare alla luce esterna, alla vista altrui, per morire, attraverso la contemplazione di Dio, e portare frutto per il Regno. Come può avvenire questo?
Gesú diceva:
Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura.
Mc 4,26-29
Esempi mirabili li troviamo in Egitto, Antonio abbate e Ciro, medico di Alessandria, che al momento opportuno, lasciato il luogo della solitudine e della contemplazione, scende tra i suoi fratelli cristiani con il suo amico e fratello Giovanni, per sostenerli sotto la persecuzione di Diocleziano, e testimonia la sua fede in Cristo con il sangue (martirio), 31 gennaio 303. Tra le tante figure di monaci e martiri ho scelto di citare Antonio e Ciro perché, credo che queste due figure abbiano segnato e condizionato al meglio il senso dell’essere monaci. In essi si coniuga l’identità del monaco (e della monaca) di un uomo che decide, perché attratto – chiamato da Dio –, a morire al mondo per portare frutti per il Regno. Il monaco è per sua vocazione, dunque, un seme che muore per portare frutto. Che sia chiamato o no alla testimonianza con il sangue egli è un martire che dona tutto se stesso, come Cristo, in Cristo e per Cristo a vantaggio non semplicemente dei fratelli ma del Regno di Dio. Questa forma di vita spirituale affermatasi sempre piú nel tempo, nel corso dei secoli è divenuta punto di riferimento per tutta la Chiesa che, non dobbiamo dimenticare, è chiamata a realizzare non un regno umano ma il Regno di Dio. Infatti, Cristo non è venuto a predicare un umanesimo (nuovo?) ma il Regno di Dio. La Chiesa tutta, dunque, non si organizza per costruire un mondo di solidarietà, di amore ad ogni costo, essa è organizzata per servire alla costruzione del Regno di Dio, in cui c’è senz’altro la solidarietà con i piú deboli, con gli ultimi, in cui la legge che regola i rapporti tra le persone è l’amore comandato da Cristo.
Il monachesimo ha testimoniato lungo tutta la storia che il fine ultimo è l’essere con Dio, perché questo è il Regno di Dio che di cui parla Gesú. La comunione con la Trinità. Per queste ragioni la Chiesa ha sempre intercettato nella vita monastica una sorta di “figura” di ciò che saremo ed ha guardato al monastero in questa prospettiva escatologica. Ed anche il monaco ha continuato nella storia della spiritualità della Chiesa ad auto comprendersi come seme, di speranza escatologica, per la Chiesa, nella Chiesa in vista del premio eterno.
Boca, Papacioc e Cleopa: tre luci nella Chiesa in Romania
Sono questi i presupposti che hanno permesso al monachesimo, e alla Chiesa, di reggere, di sopportare le avversità che Satana ha preparato nella sua storia. In questa scia di testimoni del Regno si colloca il monachesimo dell’Est Europa del secolo XX ed in particolare in Romania.
Se nel corso dei secoli i monasteri sono diventati punti di riferimento capaci di risvegliare la coscienza del cristiano, pertanto è chiaro che, nel periodo del totalitarismo comunista, questa forza attrattiva dei monasteri, rappresentava per il regime un pericolo, un ostacolo alla sua propaganda. Di conseguenza, negli oltre quarant’anni di regime comunista, i tentativi di distruggere il “mondo monastico” sono stati innumerevoli. Oltre alle espropriazioni dei beni, che nella maggior parte dei monasteri ne permettevano la sopravvivenza, dopo aver registrato una strenua resistenza in termini di pacifica sopportazione alle angherie e ristrettezze materiali a cui erano indotti, la “sicurezza” prendeva di mira i singoli monaci, specie quelli che per condotta di vita rappresentavano un punto di consolazione per una popolazione vessata dalla prepotenza di chi ne voleva distruggere l’identità e la spiritualità, intraprendendo vere e proprie campagne persecutorie.
Tra questi ricordiamo il monaco Arsenie Boca perseguitato dal regime comunista e costretto a vivere da laico. Ecco uno stralcio della sua vita. Zian Boca (il suo nome prima dei voti) nacque nel settembre del 1910 in un villaggio del distretto di Hunedoara. Studiò teologia a Sibiu, belle arti e medicina a Bucarest. Padre Arsenie Boca prese parte in Transilvania, in qualità di padre spirituale, al movimento di rinascita del monachesimo ortodosso intorno al monastero di Sambatade Sus. Fu qui che si creò antipatie nelle organizzazioni comuniste locali che vedevano nelle sue omelie un pericolo per la dottrina atea comunista. Sempre a Sambatade Sus, padre Arsenie si fece conoscere per la capacità di vedere in profondità nel cuore umano e di rispondere alle domande cosi dolenti e intime che le persone stesse stentavano a porre. Fu qui che ebbero luogo i primi miracoli di padre Arsenie. I miracoli continuarono anche quando fu arrestato, si dice che riuscí a convertire anche alcuni dei suoi carnefici. Pare inoltre che avesse il dono dell’ubiquità: in meno di tre ore riuscí ad andare al funerale di sua madre a Hunedoara a 630 km, e ritornare. Dopo la sua scarcerazione, visse come laico e pittore di chiese nei pressi di Bucarest.
Anche nella capitale continuò a essere seguito dalla popolazione per ottenerne consigli e intercessioni. Morí, come aveva previsto, poco prima di Ceausescu, il 28 novembre 1989, e fu sepolto nel cimitero del monastero Prislop. La sua tomba divenne, di lí a poco, luogo di pellegrinaggio. Pare che prima di morire disse “chiamatemi, da là dove andrò potrò aiutarvi molto di piú!”. Di fatto, benché costretto a vivere da laico, non cesso mai di essere monaco e alla sua morte le sue esequie come il suo abbigliamento e la sepoltura furono rigorosamente quelli di un monaco. Martire, testimone della fede, tumulato come il seme nella terra, ancora oggi fioriscono conversioni da lui. È il chicco che cade nella terra e muore e produce molto frutto.
Altro personaggio di spicco del mondo monastico della Romania al tempo comunista è Padre Arsenie Papacioc (1914-2011), che ha scontato 14 anni di carcere. Costretto alla prigionia dal terrore che i comunisti avevano della sua fede, riuscí a vivere il carcere come la cella del suo monastero. Nella contemplazione di Dio, e specie del Dio crocifisso, riuscí a divenire fonte di speranza per tanti che, per motivi diversi, si trovavano nella persecuzione e nella sofferenza. Egli affermava che la sofferenza vissuta nelle carceri comuniste era stata una grande prova per un cristiano. «Il comunismo – diceva spesso padre Papacioc – ha riempito il cielo di santi».
Non esisteva un altro metodo di studio, di preparazione, un’altra possibilità di arrivare alla profondità dello spirito e al legame con Dio se non la sofferenza che ci accomunava, ci faceva vivere e capire il calvario divino. È stato un tempo di grazia e benedizione. La sofferenza ci ha uniti, tra di noi e con Dio, sulla stessa croce.
Il monaco, icona di ciò che saremo, in un mondo di oscurità trasuda di luce e, per molti, quella luce della fede di padre Arsenie Papacioc, come del seme caduto nell’oscurità della terra, germoglia di nuovi frutti di vita.
Figura di grande spiritualità è il monaco padre Ilie Cleopa (1912-1989). Anch’egli perseguitato a causa della sua attraente santità e spiritualità, assieme al padre Papacioc e ad altri monaci, fu arrestato con l’accusa di sovversione. Per anni relegato ai confini (una sorta di esilio interno) insieme ad altri monaci, era costretto a mendicare per sopravvivere. Il comunismo aveva proibito ai monaci che godevano di fama spirituale di dimorare nei monasteri fino all’età di cinquantacinque anni, per i monaci, e cinquanta per le monache. Nonostante tutto, un atteggiamento positivo anima lo spirito del padre Cleopa. Sua è l’espressione “il Paradiso vi mangerà”, rivolta ai persecutori, quasi un auspicio per la conversione, per la salvezza. E, chiunque si avvicinava al padre per chiedere “spiegazioni” sul male esercitato dai comunisti sulla Chiesa, padre Cleopa rispondeva con l’invito alla personale conversione.
Una cosa che accomuna questi tre monaci è l’aver avuto e suggerito, a quanti ricorrevano a loro per denunciare le violenze del regime, sempre un atteggiamento di misericordia e di fiducia nei tempi del Signore. La prigionia, le percosse e le umiliazioni hanno alimentato e fatto maturare quella scelta primordiale di servire Dio nella completa abnegazione di sé stessi. Non è insito nel rito della tonsura l’essere ricoperti completamente da un manto a significare la morte, la sepoltura con Cristo, il seme che muore per dare la vita? I monaci della Romania social-comunista avevano la certezza che in quel modo essi realizzavano e confessavano la propria vocazione al martirio (la vocazione del seme).
Scrive fra’ Alberto in un articolo :
La prima volta che ebbi l’occasione di visitare la Romania fu l’anno 1986. Per una ventina di giorni ebbi l’opportunità di visitare molti monasteri della Moldavia e delle regioni attorno a Bucarest assieme a due compagni di viaggio eccezionali, p. Tomáš Špidlík (allora semplice gesuita e non ancora cardinale) e p. Elia Citterio, e guidato da p. Ioanichie Balan, monaco ortodosso, autore di vari testi sul monachesimo rumeno in cui aveva raccolto, sotto forma di incontri e colloqui, l’esperienza dei padri spirituali a quel tempo ancora viventi, testimonianza preziosa di una tradizione capace di trasmettere i valori della vita spirituale. Conservo ancora vivo il ricordo degli incontri avuti con i grandi “duchovnichi” nei monasteri di Sihastria, di Bistrița, di Secu, di Brincoveanu. I colloqui con p. Cleopa Ilie, con p. Teofil, con p. Paisie Olaru, con p. Sofian rimangono impressi nella mia memoria come tesori da cui attingere luce nel cammino secondo lo Spirito. E in qualche modo l’esperienza di questa breve ma intensa permanenza è stata per me ancora piú significativa se si tiene conto del fatto che in quegli anni la Romania era un paese segnato dalla dura dittatura comunista di Ceausescu e nello stesso tempo un paese dove si poteva sperimentare, nonostante le grandi difficoltà per i credenti, una viva tradizione spirituale, mai interrotta e ancora capace di comunicare tutta la sua forza e i suoi valori al popolo.
Incontrare una chiesa sorella, in Comunità Monastica SS. Trinità, Santa Trinità I 2014
Questa esperienza di dolore non solo ha reso agli occhi dell’ortodossia, e del mondo intero, testimonianza del vero vivere in Cristo ma ci offre allo stesso tempo un eloquente insegnamento del valore del vivere e morire per Cristo. Con san Paolo, questi testimoni prescelti, hanno potuto dire nella persecuzione:
Per me il vivere è Cristo e il morire guadagno. Ma se il vivere nella carne porta frutto all’opera mia, non saprei che cosa preferire. Sono stretto da due lati: da una parte ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio; ma, dall’altra, il mio rimanere nel corpo è piú necessario per voi. Ho questa ferma fiducia: che rimarrò e starò con tutti voi per il vostro progresso e per la vostra gioia nella fede, affinché, a motivo del mio ritorno in mezzo a voi, abbondi il vostro vanto in Cristo Gesú.
Fil 1,21-26
Il monachesimo romeno ha in questi giganti la sua ricchezza e, come loro, lí dove la Chiesa e la provvidenza li chiama, essi portano questo patrimonio di abnegazione e d’amore ad immagine di Cristo. A Bivongi la presenza di una comunità monastica della Chiesa Ortodossa Romena ha lo stesso fine dei monaci che nel XX secolo non lasciarono spegnere la speranza nell’avvento del Regno di Dio. Da poco piú di un decennio la nostra presenza in Calabria non vuole avere come scopo ripopolare di monaci ortodossi e bizantini questa terra che un tempo fu culla di spiritualità ortodossa ma essere come il seme che nel nascondimento, scegliendo la morte, si offre per donare la vita. Il nostro monastero come ogni monastero vuole essere un punto di riferimento per tutti coloro che vogliono ritrovare la loro armonia con il Signore. Icone di ciò che saremo nel regno di Dio, nel silenzio e nella semplicità, martirio quotidiano scandito dai rintocchi delle ore e del lavoro, possano offrire ristoro spirituale a quanti sono stanchi dalle fatiche di una fede vissuta in un mondo non meno ostile del tempo dei martiri. Con le parole del Signore chiudo questa breve riflessione augurando a tutti un buon lavoro.
Diceva ancora: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il piú piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene piú grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra».
Mc 4,30-32
Di’ cosa ne pensi