La 2ª parte della nostra inchiesta prosegue con la ricostruzione del viaggio di Tafida dal grave aneurisma fino alla rottura definitiva dei genitori con il trust del Royal London Hospital. Dall’operazione miracolosa che l’ha salvata, la minaccia della morte per asfissia indotta non è mai cessata, mentre la bambina proseguiva la sua battaglia allontanandosi sempre più da uno stato d’incoscienza.
Pubblichiamo quindi la nostra ricostruzione dettagliata della storia di Tafida da febbraio ad agosto.
1. L’ARRESTO E IL RICOVERO D’URGENZA (CON DEVIAZIONE). La parte più ardua della giovane vita di Tafida comincia la mattina presto del 9 febbraio, verso le 05:15 (GT) quando, destatasi, lamenta forti dolori alla testa e rapidamente (nel giro di 5 minuti) perde conoscenza. I familiari si rendono conto che la bambina non respira e il fratello maggiore tenta di applicare la rianimazione cardiopolmonare in attesa dell’arrivo dei paramedici. Questi certificano l’arresto cardiaco e la intubano, portandola dapprima al distretto ospedaliero universitario di Newham, dove ad una rapida indagine rilevano una notevole emorragia cerebrale dovuta ad un grave episodio vascolare nell’area del cervelletto. L’ospedale è retto dalla fondazione Barts Health, che raduna cinque poli ospedalieri dell’area londinese. Vista la grave situazione che richiede un tempestivo intervento chirurgico, dal Newham richiedono l’urgenza al Great Ormond Street Hospital (esterno al trust), l’ospedale pediatrico principe di Londra e del Regno Unito, che dà il via libera. Durante il tragitto tuttavia l’autoambulanza viene dirottata al King’s College Hospital (altra eccellenza ospedaliera della capitale, anch’esso esterno al Barts) senza informare la famiglia, che viene a conoscenza del cambio di destinazione solo una volta arrivata al GOSH. La ragione di questo cambio d’itinerario non è nota, né a noi né alla famiglia (è possibile che fosse dovuta soltanto ad una più ampia disponibilità operatoria del KCH nel momento, che i neurochirurghi pediatrici di turno al GOSH fossero tutti già impegnati in altri interventi, etc.). Quando i genitori arrivano all’ospedale del King’s College sono passate 5 ore dal ricovero a Newham; la bambina è già in preparazione per entrare in sala, cosicché Mohammed Raqeeb e la moglie Shelina vengono ricevuti dal neurochirurgo pediatrico che li mette al corrente delle prime valutazioni.
Un bando emesso dall’Alta Corte di Londra vieta la diffusione dei nomi dei medici coinvolti in qualsiasi fase della vicenda. Pur essendo a conoscenza di quali sono i clinici coinvolti al King’s College e al Royal London Hospital ed essendo questi già di dominio pubblico da prima dell’emissione del bando, nella nostra ricostruzione rispettiamo il segreto istruttorio (purtroppo altri anche in Italia non lo stanno facendo, per giunta senza l’autorizzazione della famiglia e mettendo potenzialmente a rischio anche l’iter giudiziario di Tafida). Lo stesso riserbo manteniamo anche sul numero e i nomi degli specialisti del Gaslini, a tutela sia dei medici che degli interessi della famiglia Raqeeb.
Il medico descrive una rottura dei vasi cerebrali identificando la causa probabile in una malformazione artero-venosa (MAV, eng. AMV, arteriovenous malformation) desunta dalle indagini iniziali di Newham e dalle rapide conferme svolte in loco. Vista la situazione acuta di Tafida, l’intervento d’urgenza non ha potuto attendere un angiogramma, né beneficiare di un’arteriografia intraoperatoria. I genitori si sono trovati a dare il consenso di fronte alle probabilità di successo inferiori all’1%, contro la certezza della morte di Tafida in caso di mancata operazione.
In casi di sospetta MAV, la diagnosi viene normalmente eseguita con indagini complete composte di TC (tomografia computerizzata) e RM (risonanza magnetica) dell’encefalo – o del midollo spinale nel caso sia sospetta localizzata ivi o non vi siano indicazioni che facciano circoscrivere l’area di ricerca – e soprattutto di un’angiografia, che tramite un’iniezione intrarteriosa del mezzo di contrasto a livello inguinale consente di mappare e rilevare con efficacia il flusso ematico nell’organo. In presenza di una MAV l’immagine restituisce un gomitolo, detto nidus, che disegna la morfologia atipica dell’alimentazione (feeding) tra arterie e vene. Anziché scaricare gradualmente la pressione sanguigna nel classico reticolo vascolare (letto capillare) che dalla/e arteria/e attraverso vasi di diametro decrescente (sistema afferente) si congiunge con vasi di diametro crescente (sistema efferente) fino alla/e vena/e, il flusso viene drenato direttamente. Il reticolo di vasi (normalmente intermedi nel circolo locale arterovenoso) in una MAV si dispone quindi in un intricato volume intorno al feeding diretto, che all’imaging si mostra come un nido; la malformazione si sviluppa in epoca fetale. La portata del flusso sanguigno risultante dal drenaggio diretto può portare in qualsiasi momento ad una dilatazione, l’aneurisma intranidale e la conseguente rottura, con effetti potenzialmente devastanti per la quantità di sangue che si riversa nell’ambiente intracranico. Nel caso l’evento traumatico si verifichi, l’emorragia cerebrale in un caso su 4 determina lesioni neurologiche permanenti, il decesso in un caso su 10.
2. L’INTERVENTO MIRACOLOSO. L’operazione, cominciata alle 10:05 e durata circa 7 ore, ci è stato descritta come miracolosa sia perché eseguita in zona profonda, sia per la dimensione e l’estensione della lesione; una descrizione del tutto compatibile con quanto riferisce la famiglia sulle probabilità di riuscita a loro riportate. La conferma della causa della rottura è arrivata durante l’operazione, il neurochirurgo stesso ha descritto, potendola osservare direttamente, la sagoma a nido nella vascolarizzazione intorno all’arteria cerebellare anteriore, prima di chiudere meticolosamente tutte le afferenze e rimuovere il groviglio. L’aneurisma di Tafida sembra essere stato particolarmente violento, collocandosi nella fattispecie più critica degli eventi di questo tipo. Fondamentale per la pulizia dell’encefalo dal sanguinamento è stato anzitutto alleggerire la pressione intracranica, tale da comprimere sensibilmente diverse zone cerebrali. Particolarmente estesa era la zona di edema e massiccio l’accumulo di fluido cerebro-spinale (idrocefalo) nei ventricoli. Al termine dell’intervento è stato possibile eseguire un angiogramma tramite TAC ed avere la seconda conferma della MAV. Il neurochirurgo ha dunque fornito il suo resoconto ai genitori, comunicando il successo dell’operazione, così come la necessità di attendere le successive 48 ore per stabilire se la bambina ce l’avrebbe fatta o meno, essendo ancora in pericolo.
3. L’OSSERVAZIONE POST-OPERATORIA, IL TIMORE DI MORTE ENCEFALICA E LA REAZIONE DEI GENITORI. Tafida, applicata la ventilazione assistita e i dispositivi di idratazione e nutrizione, è stata trasferita nel reparto di Terapia Intensiva Pediatrica del KCH, l’unità Thomas Cook. Il giorno successivo (10 febbraio) la piccola ha subito quattro altri arresti e quattro volte è stata rianimata con successo. Tafida ha cominciato a mostrare segni di stabilità il giorno dopo (l’11), per le speranze dei genitori. A quel punto però, secondo quanto riferisce la famiglia, i medici hanno informato i genitori di temere che la bambina si trovasse in stato di morte encefalica e che avrebbero proceduto con i test dei riflessi troncoencefalici per accertarlo, dopo aver appurato che fosse entrata in un coma areattivo; i coniugi Raqeeb sono stati avvisati che, dal momento dell’accertamento, si sarebbe predisposta la procedura di fine-vita tramite il distacco della ventilazione assistita. La comunicazione ha scosso molto i genitori, che hanno reagito chiedendo spiegazioni del perché una decisione così improvvisa, mentre solo poche ore prima erano stati informati dell’avvio di stabilizzazione delle funzioni vitali. Non soddisfatti delle risposte e vedendo che le loro obiezioni non venivano tenute in conto, si sono avvalsi della competenza professionale della madre Shelina (solicitor, avvocato) per esigere un blocco delle procedure di accertamento. Intanto l’équipe del KCH aveva chiesto una consulenza al GOSH, dove i colleghi omologhi hanno valutato il caso la mattina del 13 luglio. La mail di rapporto, diffusa dalla famiglia a metà agosto, recita:
«Non riteniamo che siano indicate altre operazioni chirurgiche in questa fase e concordiamo col vostro parere sul fatto che questa lesione lasci pochi margini di sopravvivenza. Se lei non incontra i criteri di morte encefalica, a quel punto potrà essere utile una RMI per stabilire una prognosi che possa guidare il successivo processo decisionale».
I riflessi troncoencefalici sono stati analizzati il 14 febbraio, anticipati, secondo la testimonianza dei genitori, da un grottesco colloquio con uno specialista di terapia intensiva dell’ospedale che sosteneva di poter «assicurare» che Tafida fosse «morta» prima dell’esecuzione dei test. Sempre secondo i genitori, prima dei test è stato anche loro chiesto di essere pronti a preparare le esequie funebri per la bambina. Durante la giornata all’infermiera di reparto deputata alla valutazione della donazione degli organi è stato chiesto di predisporre le pratiche, come una seconda nota diffusa dalla famiglia documenta. Tafida durante il test dei riflessi carenali e di apnea ha però risposto alla stimolazione laringo-tracheale con movimenti di tosse e con una, pur minima, attività respiratoria: ciò ha escluso definitivamente la morte encefalica. La bimba era dunque in coma, ma la diagnosi non è stata immediatamente comunicata alla famiglia.
In questo primo quadro, che abbiamo deciso di dettagliare sensibilmente per poter dipanare i molti dubbi che dai vaghi e spesso inconsistenti resoconti giornalistici sono stati provocati in lettori con più o meno familiarità verso condizioni cliniche analoghe, si può già osservare una difficoltà ad inquadrare le cure somministrate a Tafida nei primi giorni del suo calvario e soprattutto a decifrare le motivazioni dell’ospedale. Al King’s College Hospital hanno eseguito con successo un’operazione quanto più difficile immaginabile nell’ambito di un aneurisma pediatrico, con dedizione e sforzo onerosi, onorando la propria vocazione. Non si può negare che abbiano fatto tutto quanto fosse in loro potere e forse più (vincendo una scommessa alle soglie dell’impossibile) per salvare la bambina. Eppure, a distanza di meno di 2 giorni e senza nemmeno aver cura di cominciare un percorso di approccio graduale coi genitori, sarebbero stati virtualmente pronti a provocarne la morte. Il rapporto con la famiglia è stato gestito fin da principio in modo allucinante, nascondendo la diagnosi reale, quella di coma, per prefigurare quella eventuale di morte encefalica.
La nostra ricostruzione conserva quegli elementi che combaciano dalle nostri fonti sulla documentazione clinica e dai racconti dei genitori. Ebbene, dobbiamo precisare un elemento indubitabile nell’evoluzione della condizione di Tafida: non esiste un solo documento, un solo esame, che menzioni la «morte encefalica» da qui in avanti. Fatta esclusione per comunicazioni tra il KCH e il GOSH tra l’11 e il 13 febbraio e solo alle finalità di esecuzione dei test (che in ogni caso sembrano indicare un’impropria finalità orientata), l’ipotesi di «morte encefalica» per Tafida non compare nella documentazione ufficiale. Questo elemento segna un punto di grande distanza dai timori che hanno vissuto i genitori per tutto il resto della vicenda. Per quale motivo non venivano messi al corrente della situazione clinica oggettiva, mentre venivano loro presentate congetture che non trovavano nemmeno una menzione sui referti? A quale scopo sottoporli a provocazioni di comprensibile smarrimento, se i medici stessi fin da subito descrivevano la condizione di Tafida diversamente?
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