Una settimana fa il Guardian ha pubblicato una notizia che in Italia è stata ripresa solo dall’Uffpost e Linkiesta, testate piuttosto progressist-arcobaleno: lo strip club Spearmint Rhino (parte di una catena presente in UK, US e Australia) di Sheffield ha vinto una battaglia legale durata anni e resta aperto.
A febbraio scorso un gruppo femminista anti porno e anti strip club, al grido “not buying it”, aveva deciso di assoldare investigatori privati per filmare all’interno del locale le attività illecite delle ballerine per far chiudere il locale: è riuscita a presentare 74 violazioni filmate, consistenti sostanzialmente in contatti (meglio sarebbe dire palpeggiamenti) tra ballerine e clienti, vietati per avere la licenza da strip club. Secondo il gruppo femminista, i filmati proverebbero molestie e abusi, sempre molto diffusi dove si pratica lo strip.
Le ballerine del club, però, hanno nettamente rifiutato l’etichetta di vittime involontarie ed hanno replicato denunciando gli investigatori di revenge porn, per averle filmate senza il loro consenso.
Leggiamo su linkiesta:
Charlotte Mead, capo dell’associazione Sheffield Women’s Equality e sostenitrice di Not Buying it, non si dà per vinta, dice che continueranno la campagna dato che gli strip club son luoghi che «contribuiscono a una cultura in cui gli uomini si sentono in diritto sui corpi delle donne» e che danneggiano la parità di genere. Meera Kulkarni del Sheffield Rape and Sexual Abuse Centre afferma quanto le donne che lavorano negli strip club abbiano spesso un passato di abuso e violenza sessuale. Affermazioni non gradite alle ballerine, come Heather Watson, che dichiara al The Guardian che, pur ammettendo che ci sia molto lavoro ancora da fare per rendere “l’industria più sicura e giusta”, «non siamo oggetti sessuali come siamo state descritte». Aggiungendo: «Siamo complesse e sfaccettate come chiunque altro e in realtà i clienti ci trattano come persone, più delle presunte femministe», rifiutando così a piè pari il ruolo di vittime. Rosa Vince, ricercatrice di filosofia specializzata in oggettivazione sessuale e residente a Sheffield, si è dichiarata contraria alla campagna: «Come femministe dobbiamo preoccuparci del consenso al contatto sessuale, e questo implica credere alle donne quando affermano che il consenso è presente, così come quando dicono che è assente». Ha sostenuto che, in caso di problemi di sfruttamento o di cattive condizioni di lavoro, la soluzione non era quella di far di tutto per chiudere il locale ma di aiutare le lavoratrici ad acquisire maggiori tutele.
C’è da domandarsi di quali maggiori tutele si parli: assistenza sanitaria? Corsi di autodifesa? O piuttosto la ricerca di un impiego più rispettoso della dignità delle donne?
Ad Atlantic City esiste un gruppo di donne evangeliche che gira per strip club di sera regalando pancake rosa alle ballerine “per farle sentire amate da Dio”, senza osare fare prediche né emettere giudizi. Una di queste ballerine testimoniò loro di essere una madre single e di preferire un lavoro così, due sere a settimana, lasciando i figli dai genitori, piuttosto che fare la commessa in un supermercato tutto il giorno e non vedere mai i suoi bambini. La dignità personale non è un valore assoluto e passa generosamente in secondo piano quando si tratta di portare a casa i soldi per far campare la famiglia. E questo è il vero tragico motore degli strip club e di tutti i lavori, come la prostituzione o la pornografia, che prosperano sulla pelle delle donne, che non vorrebbero essere schiave né della povertà moralista, né della volgarità maschilista.
Alla pubblicazione della sentenza di Sheffield, le ballerine hanno esultato in strada, tra cartelli colorati e vestiti sgargianti, ma davvero i loro sono visi di donne qualunque, alcune persino senza trucco, nemmeno appariscenti: spogliarelliste per necessità, appese al loro posto di lavoro con tenacia, come gli operai dell’ILVA mentre la fabbrica sputa veleni che uccidono i loro compaesani.
La necessità primaria, sopra ogni altro valore morale, sociale, psicologico è mantenere il posto di lavoro e le poche precarie tutele sociali ad esso associate. Gli ideali contro lo stipendio non possono vincere.
E davvero è aspra la povertà in questo mondo tecnologico, dove si punta ad eliminare persino il contante, cosicché nessuno abbia nemmeno uno spiccio da dare con leggerezza; dove senza un conto corrente, un cellulare e una e-mail non puoi accedere a nessun servizio, reclamare nessun diritto; dove la solitudine accerchia e se hai dei bambini da difendere non puoi contare su nessuno; dove il bisogno è uno stigma di stupidità, perché te la sei cercata; dove il sistema sanitario propone l’aborto come soluzione alla povertà; dove lasciar vivere un debole è considerato egoismo, perché sottrae risorse a chi è produttivo; dove conta solo quanto guadagni.
E allora combattere per salvare l’anima delle donne senza offrire un’alternativa concreta diventa un’azione ideologicamente astratta. Le donne si sono già vendute, si sono messe sul mercato da sole, quando hanno finito il cibo nella dispensa e hanno scoperto che con la dignità non si mangia. Sopra ogni cosa, concausa di questa situazione è la solitudine, figlia a volte di una distorta idea di emancipazione, a volte di sfortunate relazioni, a volte dura eredità di situazioni familiari disastrate già all’origine. Un femminismo che, nella sua cieca lotta contro il patriarcato opprimente, invoca la solitudine amazzone come soluzione a tutti i problemi e poi oscilla isterico tra una libertà sessuale senza limiti e un moralismo censore misantropo, non risolve nessuno dei guai delle donne, ma, se mai, ne crea dei nuovi.
Perduta chissà dove l’alleanza tra l’uomo e la donna, nei meandri di un rifiuto aprioristico di ogni forma di tradizione, la nuova Eva, nella sua lotta quotidiana per ridare significato alle cose di sempre, come la relazione con l’uomo, si trova costretta a chiamare libertà quel che è solo antica, povera, classica necessità.
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