di Eugénie Bastié
L’ecologia sta ormai al cuore del dibattito pubblico. Emmanuel Macron ha promesso di farne il tornante del proprio quinquennale. La giovane Greta Thunberg entusiasma una parte dell’opinione pubblica nei paesi occidentali. Altre voci predicono la prossima implosione del nostro “sistema”. Bisogna chimere che, in nome della gravità della situazione, la transizione ecologica venga metta in atto per via autoritaria? Per il professore di chimica al Collège de France Marc Fontecave, si sta sviluppando un discorso irrazionale contro lo Stato, gli scienziati e le imprese. Si tratta meno di imporre nuove costrizioni che di rinunciare a false libertà, osserva da parte sua Lucile Schmid, cofondatrice del think tank “La Fabrique écologique”.
Marc Fontecave: «Rigettiamo le ingiunzioni morali prive di proposte concrete»
Eugénie Bastié: Che cosa pensa del successo mediatico di Greta Thunberg?
Marc Fontecave: Questo feuilleton mediatico dell’estate riflette lo stato dell’opinione pubblica nei riguardi dell’ecologia. Media, politici e cittadini rimandano quasi esclusivamente un discorso allarmistico. Esso si fonda su quattro principî. Prima tendenza: il catastrofismo, con l’idea di un’implosione imminente. Nicolas Hulot, Greta Thunberg o ancora lo scrittore Fred Vargas diffondono questo tipo di opinioni apocalittiche, che non si fondano su fatti scientifici. Seconda tendenza: il complottismo, con la ricerca di capri espiatori (i responsabili sono sempre gli altri) e l’idea che poteri pubblici e imprese non facciano nulla per salvare il clima, e ciò deliberatamente. Si ricordi il caso mediatico chiamato “l’affaire du siècle”: dei militanti hanno attaccato lo Stato sulla giustizia per la sua supposta inerzia. E gli esperti sono sistematicamente accusati di essere “venduti” alle lobbies. Terza tendenza: lo “yakafokon”, vale a dire le ingiunzioni morali alla rivoluzioni in concomitanza di totale assenza di proposte concrete e di soluzioni precise. Quarta tendenza: l’inazione, con l’affermazione che non sta accadendo niente, laddove invece dappertutto vengono espressi sforzi, indubbiamente insufficienti, per rendere le attività antropiche più rispettose dell’ambiente. Greta Thunberg ci allerta, certo, ma chi non è allertato, al giorno d’oggi, a parte qualche pazzo furioso? La questione oggi è quella del “come”.
E. B.: Lei giudica che il discorso degli “implosionisti” sia controproduttivo?
M. F.: Gli “implosionisti” fanno credere che esistano soluzioni semplici e che il futuro sia nelle nostre mani. Ma la Francia produce soltanto l’1% della CO2 mondiale: potrebbe scomparire dal planisfero senza che questo cambi il corso di ciò che riguarda l’ambiente. Se la transizione ecologica del nostro paese ha da farsi, non sarà questa a salvare il nostro pianeta. Io credo che, tenendo conto dei suoi mezzi e della sua popolazione, la Cina sarà probabilmente il paese in cui si farà la rivoluzione energetica ed ecologica. Sarà lì che si cambierà veramente la partita.
Gli “implosionisti” dicono che non si sta facendo niente, ma è falso. Sforzi considerevoli vengono condotti nelle industrie per abbassare la produzione di CO2 e di rifiuti, nonché per fare economia di energia.
La chimica – campo nel quale lavoro – diventa sempre più “verde”, attraverso nuovi processi di sintesi più economici quanto all’energia e ai rifiuti, e sempre più bioalimentati. Giovani ricercatori lavorano giorno e notte nei laboratori per trovare soluzioni di stoccaggio energetico. Possiamo dire che il tutto non è sufficientemente rapido, che manchiamo di mezzi e di investimenti, ma non che una banda di buoni a nulla non fa nulla perché vuole a tutti i costi inquinare l’ambiente!
E. B.: Lei crede che la soluzione alla crisi climatica passerà dalla tecnologia?
M. F.: La scienza, la tecnologia, sono continuamente additate per i problemi che creano. Viviamo in una società della diffidenza totale, che tocca non soltanto i politici ma anche gli scienziati. Io ho fiducia. Io credo nella capacità dell’uomo di utilizzare le conoscenze per risolvere i problemi che egli stesso ha generato. Del resto sappiamo quali sono i margini di manovra, che cosa bisognerebbe fare, anche se non abbiamo ancora gli strumenti tecnologici. Anzitutto bisogna operare nei trasporti, cambiando le nostre abitudini, evitare l’automobile individuale laddove non è indispensabile, prendere l’aereo meno frequentemente. Lo stoccaggio energetico – anche di quelle rinnovabili – è a un punto-chiave. Bisogna anche operare per il risparmio energetico nelle abitazioni, sviluppando l’isolamento. E poi è necessario lavorare sulla produzione energetica “verde”. Ma le rivoluzioni tecnologiche non si fanno per decreto. È grazie agli sforzi combinati della ricerca, dell’industria che mette sul mercato le nuove tecnologie, e del cittadino che agisce diversamente che si farà questa rivoluzione.
E. B.: La Francia ha deciso di stoppare la ricerca sulla quarta generazione di reattori nucleari. È una brutta notizia?
M. F.: Non si può dire che se non produciamo meno CO2 la catastrofe è imminente e al contempo voler fare a meno del nucleare. Oggi più del 95% della nostra produzione elettrica è decarbonata. La questione dei rifiuti nucleari è cruciale, evidentemente, ma numerosi scienziati sono al lavoro sull’argomento. Non vado pazzo per il nucleare, ma non ci sono altre soluzioni a breve termine per produrre energia elettrica decarbonata. Del resto questo è quanto dice il Giec nel suo ultimo rapporto. Dunque la decisione delle autorità francesi di fermare la ricerca sulla quarta generazione di reattori nucleari è, effettivamente, una cattiva notizia. È un brutto messaggio per la ricerca in generale. E questo solleva questioni sul riciclaggio dei materiali radioattivi e sull’avvenire dell’innovazione nella filiera nucleare.
E. B.: Bisogna dare fiducia alle sole imprese, per sviluppare la ricerca? Non sarebbe meglio affidarla allo Stato, invece che agli interessi privati?
M. F.: Dove sono i soldi per sviluppare la ricerca? Il budget della ricerca francese, lungi dall’arrivare al 3% a cui un tempo ambivamo, staziona sul 2,2% del Pil, ad anni luce da altri paesi, come la Corea (4%). I budget e i salari sono insufficienti, e questo rende la ricerca, da noi, poco attrattiva. L’Europa, fortunatamente, sostiene alcuni programmi, ma resta insufficiente.
Deploro che in Francia la ricerca accademica sia ancora troppo sconnessa dalla ricerca industriale. Le industrie hanno soldi e sanno che devono investire in nuove tecnologie. Sono le imprese che faranno la rivoluzione energetica di domani, perché sono quelle che mettono sul mercato le nuove tecnologie sviluppate nei laboratori. Lo dico onestamente: la mia ricerca al Collège de France, per esempio sullo stoccaggio delle energie rinnovabili, non esisterebbe senza il sostegno dell’impresa Total. Questo fa di me un cattivo al soldo delle lobbies? No: io cerco sinceramente, coi miei giovani ricercatori, delle soluzioni – ad esempio su nuovi materiali per trasformare l’energia elettrica in carburanti, al fine di mettere a punto dei sistemi di fotosintesi artificiale che domani forniranno, come fanno le piante o le microalghe, delle molecole carbonate ricche di energia, utili per le nostre società, a partire dal sole, dall’acqua e dal diossido di carbonio…
«Non ci serve un gran gala dell’ecologia, ma un compromesso storico»
E. B.: Il “fenomeno” Greta Thunberg ha agitato i media per tutta l’estate. Che pensa lei del successo mediatico di questa giovane militante?
Lucile Schmid: Anche senza restare irretiti dall’operazione mediatica, il successo di Greta Thunberg dice qualcosa di profondo: la necessità di dare un viso concreto alla questione delle generazioni future, mediante incarnandola. Lo “sciopero planetario dei giovani per il clima” è stato un fenomeno tanto potente quanto inedito, che ha permesso di rimettere l’urgenza climatica sulla ribalta della scena. Tale questione aver già assunto una più forte visibilità a causa degli incendi dell’anno scorso. Pertanto mi rallegro di questo movimento, anche se ne vedo i limiti. Greta Thunberg si accontenta di promulgare il verbo scientifico, pur ammettendo di non avere le soluzioni politiche. Tutto il nostro lavoro sta nello stringere alleanze tra questo giacimento di buone volontà e delle alternative politiche concrete. Ma non si può, davanti a una questione così complessa, appoggiarsi su un’unica figura.
E. B.: Un nuovo movimento, detto “collassologia”, vaticina la prossima implosione delle nostre società. Lei cosa pensa di questo catastrofismo?
L. S.: Il problema di questa critica è che, anche se si fonda su fatti scientifici acclarati (l’oscillamento nell’era dell’antropocene e la responsabilità schiacciante dell’uomo nel riscaldamento climatico), essa può paralizzare la capacità di reazione del cittadino. Il discorso collassoligico, proclamando che «non abbiamo più scelta», elude la questione essenziale del dibattito democratico. Le uscite provocatorie e l’irrealismo di certi ecologisti sono, proprio come il climatoscetticismo, delle fughe nell’astrazione. Bisogna evitare sia il catastrofismo sia la negazione, per fare della questione ecologica un vero potere e organizzare un modo d’impiego ecologico per tutti che risponda alle questioni essenziali del come agire, con chi e secondo quale calendario.
E. B.: La transizione ecologica necessita politiche volontariste, e alcuni temono che essa finisca per giustificare una forma di autoritarismo. Quest’inquietudine è giustificata?
L. S.: La prospettiva ecologica obbliga a un’accelerazione molto importante dei processi, che invoca se non dell’autorità perlomeno della volontà. Tuttavia non credo che la transizione di modello potrà compiersi senza un cambiamento di sguardo, una rivoluzione culturale. Non si tratta tanto di imporre nuove costrizioni, quanto di rinunciare a false libertà. Abbiamo veramente bisogno di consumare senza limiti? Una vita riuscita si misura con l’abbondanza materiale o con la molteplicità dei viaggi? Certo la scienza, gli esperti stanno al cuore del dibattito ecologico, ma ci vuole anche un po’ di psicologia sociale per accelerare una conversione delle coscienze. Non possiamo accontentarci di allineare cifre disperanti, bisogna infondere la voglia di cambiare modello.
E. B.: Un vecchio conflitto attraversa il movimento ecologico, quello tra i tenenti della radicalità e gli adepti del pragmatismo. Lei da che parte si colloca?
L. S.: Sono piuttosto allergica ai processi permanentemente radicali che si svolgono nel milieu ecologista, in cui ci si accusa permanentemente di compromessi: «Sono più verde di te!». È narcisismo, oltre che un modo di non pensare realmente la questione del potere, dell’ingresso nel reale. Essere una minoranza attiva è importante, ma quel di cui abbiamo bisogno non è un gran gala, bensì costituire una maggioranza. Ecco la questione politica che deve guidare l’impegno oggi. Un altro problema viene dal fatto che, nel campo dell’ecologia, le ONG sono più potenti dei partiti, e che esse si definiscono come apolitiche – cosa che rende spesso complesso l’investimento politico. Ora, l’urgenza chiama a una trasformazione profonda del classico gioco degli attori. Non si tratta più tanto di campeggiare su posizioni, quanto di strutturare logiche di azione efficaci, collocando l’ecologia a fondamento dei progetti politici, delle politiche pubbliche e della nostra organizzazione economica e sociale.
Tuttavia, io credo che Nicola Hulot abbia fatto bene a rassegnare le dimissioni da ministro dell’Ecologia, dov’era posto in condizione di non poter agire, e di denunciare la «politica dei piccoli passi». Quel che ci vuole è una politica dai grandi passi! Certamente dei compromessi sono necessari – è l’essenza stessa della politica – ma dei compromessi storici e inediti.
E. B.: In Francia il verde si tinge spesso di rosso, e un’ecologia che non sia di estrema sinistra è malvista…
L. S.: Deponiamo l’opposizione binaria tra “capitalisti” e “anticapitalismo”. Bisogna guardare una ad una le proposte economiche. La questione oggi è più l’espansione dell’ecologia che la sua purezza ideologica. Bisogna stringere alleanze con la società civile, ivi compresi degli imprenditori di buona volontà, non essere settari. Bisognerebbe ispirarsi al modello dei Grüne tedeschi, che sono riusciti in questa transizione politica, anche se è il sistema federale in vigore Oltrereno che ha permesso di realizzare delle alleanze nei Länder.
E. B.: A proposito: qual è la giusta scala per l’azione ecologica?
L. S.: I movimenti ecologici sono potenti sul piano locale ed europeo, ma mancano di forza a livello nazionale e mondiale. La cultura storica dei Verdi è talvolta ostile al quadro nazionale, ma credo tuttavia che sia essenziale, perché è il più democratico. Ora, oggi in Francia questo quadro nazionale resiste all’azione ecologica. Lo vediamo col valzer permanente dei ministri e con le politiche bipolari che vengono condotte. La sfida sta tutta nel far emergere l’esigenza di coerenza senza scivolare nell’ideologia.
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