Trovare un cattivo che eguagli Scar non è facile. L’antagonista de Il Re Leone si è guadagnato un posto d’onore tra gli appassionati dei prodotti cinematografici Disney. Non era certo scontato raggiungere lo stesso vertice di terrore e di sgomento impotente già toccato nel 1994, al tempo del lungometraggio animato originale: eppure il live action de Il Re Leone, opera di Jon Favreau, nelle sale cinematografiche in questi giorni, non delude.
Conosciamo bene il personaggio di Scar: oltre ad avere i tratti di perfidia comuni ad altri nemici – dalla gelida determinazione di Crudelia De Mon alla bramosia del potere di Ursula, dal cinismo di Frollo alla doppiezza di Jafar –, è uno dei pochi a portare a termine quello che molti minacciano e vanamente tentano di realizzare. Non è certo l’unico1Grazie a Martina Mura, appassionata di film d’animazione, per le informazioni che mi ha dato sui cattivi disneyani., ma è l’assassino che rimane più impresso: questo vivido esemplare di spietatezza uccide in modo tanto crudele quanto proditorio. Il suo muso, schiumante ferocia, nella scena fatale che lo vede in azione, oggi come allora, è la rappresentazione iconica dell’implacabilità del male, che sembra trionfare, rendendo vano il sacrificio del “giusto”. Il nuovo Scar non ha le sopracciglia inarcate, la criniera e il pelo scuri, l’incidere talvolta intimidatorio, più spesso cialtronesco, del primo: ha, invece, l’apparenza di un leone anziano e malconcio, ma giganteggia sullo schermo, regalando un brivido di paura ogni qualvolta fa la sua comparsa. Per enfatizzare la sua malvagità non vengono in suo soccorso – come nel film d’animazione – luci color verde-kryptonite e spaventevoli visioni di parate simil-naziste, inscenate da fameliche iene: se la cava da solo egregiamente. In questa nuova riproposizione del “Re Leone”, Scar somiglia ancor di più al diabolico nemico con cui i credenti sanno che l’umanità dovrà scontrarsi fino alla vittoria finale: pronto a prendersi quello che non gli spetta, a godere dell’infelicità altrui, ad illudere (anche le alleate iene) riguardo a millantate prosperità segnate già dalla marcescenza. Siamo sinceri: fosse soltanto per la capacità di aver ricreato sullo schermo il medesimo dispiegarsi oscuro del malepresente nell’originale, il live action, che sta furoreggiando negli incassi, meriterebbe di essere visto.
Se siamo partiti da Scar, un motivo c’è. Il nuovo prodotto Disney non aggiunge alcunché, anzi toglie qualcosa, ai protagonisti. Per noi italiani è anche un problema di doppiaggio: il Mufasa del pur bravo Luca Ward manca del tono maestoso offertogli dall’immenso Vittorio Gassman; il Simba di Marco Mengoni ha buona volontà, ma è più a suo agio quando canta che nei dialoghi. Esiste anche un problema di sceneggiatura: se il live action ricalca quasi pedissequamente il lungometraggio animato, sarebbe stato opportuno che le piccole variazioni presenti fossero più incisive per restituire maggior appeal ai due protagonisti. Anche Nala – che in alcuni momenti si confonde facilmente con le altre leonesse, non solo per l’identica fisicità – avrebbe meritato di uscire dall’anonimato in cui, in fondo, viene relegata per le due ore di visione: nemmeno la nuova canzone (di Beyoncé in originale, di Elisa nella versione italiana, anche nel ruolo di doppiatrici) riesce a compiere il prodigio di visibilità. Persino la coppia Timon e Pumbaa perde smalto rispetto a venticinque anni fa: eppure l’ironia è sempre stata una carta vincente di molti prodotti Disney. Si può andare al cinema solo per vedere Scar allora? Non si renderebbe giustizia al live action, né si spiegherebbe il ciclopico successo di questa versione, se si adducesse solo questo motivo. Inoltre non si capirebbe il commosso applauso con cui ho visto accogliere la fine di una proiezione (e chissà in quanti spettacoli è accaduto lo stesso). In realtà, la trama – riproposta, si diceva, con poche e insignificanti differenze – possiede un suo incanto perenne: il cammino di rinascita e riscatto di Simba, il suo ritrovare il posto che gli spetta (e gli compete) nel cerchio della vita, la figura autorevole e sapiente di Mufasa, il coraggio mai sopito delle leonesse, parlano ancora al cuore degli spettatori. Le canzoni, poi, continuano a rendere indimenticabile la storia: Hakuna matata, su tutte, restituisce sempre leggerezza dopo il momento luttuoso. Nella nuova versione de Il Re Leone, non abbiamo le mirabili coreografie, nate dalla fantasia dei disegnatori, che resero memorabili i brani musicali nel 1994, eppure non si avverte la loro mancanza. C’è, infatti, una protagonista: è la natura, che ruba la scena a tutti, con e senza canzoni. Ricreata al computer, certo; piegata allo svolgimento del live action, senz’altro. Tuttavia è splendida e terribile, abbagliante e inquietante, materna e matrigna come non mai. Rocce, dune, cascate, alberi, leoni, iene, giraffe, elefanti e tutto quello che compare sullo schermo si offrono come autentico spettacolo per gli occhi. Greta Thunberg sarà senz’altro lieta della sottolineatura green del discorso di Mufasa a Simba, più da amministratore di beni che da re: venticinque anni dopo l’originale, l’ecologicamente corretto si è fatto ormai pervasivo. La verità, però, è che non sarebbe stato necessario: la potenza e la bellezza della natura, seppur ricalibrata dalle nuove tecnologie, parlano da sole. Ci ricordano che, ancor prima e molto più di un leone saggio, siamo noi uomini chiamati ad un compito fondamentale: custodire la creazione, vigilando attentamente per non trasformare la bellezza e la fecondità di cui siamo circondati in un possesso spoglio e tetro, sofferente e sterile. Non c’è bisogno di essere attivisti o di prendere per oro colato tutte le ipotesi allarmanti: basta rileggere il terzo capitolo della Genesi per capire che la sete di potere e la cupidigia verso i beni non hanno mai portato alcunché di buono.
Note
↑1 | Grazie a Martina Mura, appassionata di film d’animazione, per le informazioni che mi ha dato sui cattivi disneyani. |
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