Quanti cattolici conoscete, che siano anche degli ambientalisti1Per gentile concessione di Lucia.? Ma ambientalisti seri, dico: di quelli che realmente si interessano (e magari parlano) di ecologia.
Non so voi, ma io personalmente ne conosco tre. Per contro, navigare tra le bacheche social dei cattolici rivela spesso una acrimonia nei confronti dell’ambientalismo che ha del sorprendente, con una Greta Thunberg che, a tratti, sembra essere invisa alla cristianità quanto e più di Emma Bonino.
È una cosa che non mi spiego. E, a questo punto, sarà bene precisare che io non mi definirei una ambientalista particolarmente sfegatata o hardcore. Ma, se ognuno di noi può legittimamente decidere a che punto piazzare i temi ambientali all’interno della sua personale scala di priorità, resta il fatto che di fronte a certe battute tra lo scettico e l’irrisorio, sembra di assistere non non tanto a una varietà di diverse sensibilità sul tema, ma proprio a una bizzarra dissociazione di massa rispetto a quanto predica la Chiesa a suon di encicliche e di “giornate per la custodia del creato”.
Ma allora, perché tutto questo tepore da parte dei credenti?
Perché l’ecologia è diventata appannaggio di fricchettoni new-age e attivisti radicali, mentre le brave famigliole borghesi guardano con una certa irrisione agli incarti plastic free?
Una risposta che m’è parsa interessantissima l’ha fornita Norman Wirzba, docente di Teologia Cristiana presso la Duke Divinity School e autore di numerose opere dedicate al tema dell’ecologia. Nel suo The Paradise of God – Renewing Religion in an Ecological Age, Wirzba si pone il mio stesso interrogativo e tenta anche di darsi una risposta. Secondo la sua tesi, il distacco che molti cristiani del 2000 provano nei confronti dell’ecologia non dipende dal fatto di essere cristiani; dipende dal fatto di essere uomini del 2000. E cioè, uomini che vivono immersi in una cultura che “ha completamente eroso le basi pratiche e teoretiche che sono necessarie all’uomo per fargli percepire il mondo come creazione”.
Wirzba ritiene che questa erosione abbia avuto luogo, sotto molteplici livelli, nel corso degli ultimi secoli di Storia (grossomodo, dalla fine del Medioevo). Sia chiaro: l’autore non critica gli ultimi secoli di Storia. Scorrendo questo articolo, vedrete salire sul banco degli imputati elementi come “il metodo scientifico” e “il progresso tecnologico”, cose che sarebbe folle definire negative. E infatti, Wirzba non le definisce negative in sé, ma sostiene che questi cambiamenti socio-culturali abbiano modificato profondissimamente la nostra percezione del mondo. Puro e semplice.
Ovviamente,
il mondo fisico non è diverso rispetto a come era all’inizio dei tempi. […] A essere stata pesantemente alterata è la cornice, e cioè i termini con cui noi percepiamo il mondo e vi ci approcciamo. Filosoficamente, la nostra percezione dell’uomo come quella di un essere facente parte del creato […] è mutata profondamente nel corso dell’età moderna, allontanandosi, in modo deciso, dalla visione dell’uomo così come emergeva dalle Sacre Scritture.
Quando, come, e soprattutto perché?
Wirzba elenca quelli che secondo lui sono stati i cinque momenti-chiave di questa rivoluzione.
(E suggerisco di leggerli uno per volta, perché ‘sto articolo è più lungo della Quaresima)
1) Il rigetto dell’interpretazione allegorica delle Scritture
Adesso penserete che Wirzba si droghi, ma invece ha le sue ragioni.
L’allegoria – ben lungi dall’essere solo una figura retorica utile a spiegare con parole semplici concetti troppo complessi – aveva originariamente uno scopo ben preciso, che era quello di
ricordare al lettore che il significato di un passo biblico non è limitato al testo scritto: il testo scritto si rispecchia nelle realtà del mondo che ci circonda, le quali sono esse stesse segni o simboli di un mondo superiore che noi non vediamo.
L’interpretazione allegorica rifletteva una mentalità secondo cui il testo sacro, il mondo creato e infine Dio formavano un unico “tutto”, attraverso cui poteva circolare un messaggio.
In un certo senso, dice Wirzba, la Chiesa medievale basava il suo insegnamento non solo sul libro sacro, ma anche sul cosiddetto “libro della natura”, nel quale ogni singolo elemento del creato era (e doveva essere letto come) espressione della volontà di Dio.
Per dirla con le parole di Ireneo: “dove vi è Dio, non vi è nulla che sia privo di scopo o di significato”.
O, se preferite, diciamola con le parole del proverbio: “non si muove foglia che Dio non voglia”.
Per l’uomo antico e medievale, insomma, la natura non era un semplice insieme di elementi inseriti in un ecosistema, ma era innanzi tutto e sopra tutto creazione, voluta e mossa da Dio per un suo insondabile scopo.
Con l’avvento della scienza moderna, la cultura si discosta brutalmente da questo approccio.
Accantonati i presunti significati divini dei fatti di natura, la scienza inizia a indagarli con metodo razionale. Secondo Galileo, il linguaggio nella natura “è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche”. Il creato non è più uno strumento da studiare per avvicinarsi a Dio – è un insieme di cose, con un loro meccanismo di funzionamento che può essere pienamente compreso e indagato da una mente razionale. L’esistenza di Dio non viene negata; viene però negato che sia indispensabile pensare a Dio per comprendere – che ne so – la fotosintesi clorofilliana.
Lo sviluppo del pensiero scientifico ha avuto come effetto quello di disallineare il libro della natura e il libro delle scritture.
Come sottolinea [lo storico] Peter Harrison, senza la separazione tra testo sacro e mondo creato resa possibile dal rigetto dell’interpretazione allegorica, lo sviluppo della scienza moderna sarebbe probabilmente stato molto più lento. Ed è abbastanza curioso notare come il rifiuto della lettura allegorica non sia sorto a causa di un attacco secolare agli insegnamenti della Chiesa, ma abbia preso piede a causa degli sforzi dei riformatori protestanti per ristabilire l’autorità della sola Scriptura.
In questa visione del mondo, Dio diventa sempre più una entità infinitamente altra, totalmente misteriosa, inconoscibile e impredicibile, il cui dominio è quello del soprannaturale. Dio esiste (se esiste) al di là del tempo e dello spazio. Ha ben poco a che vedere con l’acquazzone che sta imperversando mentre scrivo, e comunque di sicuro non sta cercando di comunicarmi nulla attraverso il fulmine abbattutosi sul parafulmine del mio vicino.
Se prima l’uomo percepiva se stesso come parte inscindibile di un più ampio progetto di creazione, la rivoluzione scientifica fa sì che l’uomo inizi a percepirsi per la prima volta come un individuo indipendente e autonomo, che, con l’ausilio della scienza e della tecnologia, può governare tutto il resto del creato.
2) L’urbanizzazione delle masse e la scomparsa della vita agraria
Nel corso degli ultimi due secoli, la maggior parte della popolazione mondiale ha abbandonato le campagne per trasferirsi all’interno di un centro urbano. Secondo Wirzba (…e direi che non ci va un genio per giungere alle stesse conclusioni) questo profondo cambiamento nel nostro stile di vita ha fatto sì che l’uomo perdesse gradualmente la percezione di se stesso come essere inserito nella natura, da essa strettamente dipendente.
Sperimentare quotidianamente sulla propria pelle quanto la nostra stessa vita sia alla costante mercé del tempo atmosferico, delle carestie, delle malattie e delle invasioni di animali nocivi vuol dire coltivare un realismo (talvolta tragico) che ci mette a contatto col concetto che davvero non è l’uomo ad essere il centro del mondo.
Per quanto i contadini di un tempo potessero essere diligenti nel preparare il terreno, piantare le sementi ed estirpare le erbe infestanti, era molto chiaro che non erano loro a determinare la crescita del seme. Si comprendeva bene che il potere sulla vita era completamente al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dell’uomo
(e infatti bastava una gelata o una estate insolitamente calda a decretare la morte di un intero raccolto).
Per contro, la vita urbana, e cioè all’interno di un mondo artificiale che è stato interamente creato dall’uomo, ingenera l’illusione di essere noi stessi gli artefici del nostro destino.
La vita in città, essendo plasmata per riflettere i nostri successi e le nostre aspirazioni, tende a rendere sempre più difficile il percepire la nostra esistenza come grazia. […]
Per citare il sociologo Anthony Giddens, la modernità ha trasformato le relazioni spazio / tempo. La vita moderna è caratterizzata da quella che lui definisce una dis-embeddedness, e cioè un graduale distacco dalla comunità e dal territorio, cui fa seguito la sostituzione di questi legami con un sistema di valori più astratti e impersonali, quali la scienza, la tecnologia e il libero mercato.
3) Lo sviluppo tecnologico sempre più imponente
Spesso si tende a sottovalutare il potere profondissimo che le nuove tecnologie hanno nello scolpire e modificare una società.
Pensiamo ad esempio al telescopio, dice Wirzba. La sua invenzione ha reso possibili osservazioni e misurazioni che hanno condotto alla scoperta che la terra non è il centro dell’universo. Al di là delle conseguenze dirompenti che questa consapevolezza ha avuto sul piano scientifico, non meno dirompenti sono state le sue conseguenze sul piano psicologico e ontologico. L’umanità è stata costretta a riflettere pesantemente sul suo ruolo all’interno dell’universo.
Non è stata solo una questione di vedere il mondo in termini scientificamente più corretti. È proprio cambiato il modo di vedere il mondo.
Embeh: se tutto ‘sto macello l’ha fatto una singola invenzione, pensiamo a quanto sia dirompente sulle nostre menti lo sviluppo tecnologico sempre più marcato.
Facendo un discorso globale, si può dire che dietro alla ricerca di nuove tecnologie ci sia sempre il desiderio umano di controllare la natura. Ogni invenzione sottende, sotto sotto, una certa insofferenza verso la natura così com’è, animata dalla convinzione che la natura così com’è sia inospitale e inadatta al prosperare del genere umano. Per dirla con le parole di Francis Bacon, lo scopo della tecnologia è “avvincere la natura al servizio dell’uomo e farne la sua schiava”.
Ma allora, possiamo forse dire che la tecnologia mette l’uomo nelle condizioni di abbandonare il ruolo avuto da Adamo come custode del creato, dandogli la possibilità di sostituirsi a Dio? Se vogliamo essere provocatori, la ricerca tecnologica non presuppone forse “la convinzione che le imperfezioni presenti nella creazione divina possano essere corrette dall’umanità?”.
Sembra una critica al progresso tecnologico, ma ovviamente non lo è: sarebbe folle. Eppure, è pur vero che ogni singola invenzione che facilita la nostra vita rendendo meno dure le asperità del mondo (ogni singolo condizionatore che accendiamo quando fuori ci sono 35 gradi; ogni singolo treno AV che ci porta dall’altra parte di una montagna mentre noi stiamo comodamente seduti sulla poltroncina)… ecco: è pur vero, che ogni singola innovazione contribuisce a farci perdere sempre più la consapevolezza di noi come esseri infinitamente piccoli, infinitamente alla mercé dell’universo.
Ormai dobbiamo fare uno sforzo razionale per continuare a percepirci tali, perché tutto il mondo che ci circonda sembrerebbe davvero dire il contrario.
4) La nascita di una cultura globale astratta
Una volta, esistevano tante piccole società locali che tenevano in grande considerazione la loro cultura, intesa come legame fisico col territorio di appartenenza e come legame storico con le tradizioni del luogo.
Ecco: questa culturale, fatta di storia e di concretezza, è ormai morta, lasciando spazio a una cultura globale che toglie l’uomo dal contesto socio-culturale in cui è cresciuto, per innalzarlo a contemplare una scala di valori astratti che ci si dice debbano essere universali. Ad esempio? La felicità, il successo economico, l’affermazione personale…
Questa astrazione è indubbiamente facilitata dal fatto che, molto spesso, l’uomo moderno si allontana anche fisicamente dalla sua terra natia, in una situazione di eterno nomadismo alla ricerca del contratto migliore. Non parliamo poi delle distanze che l’uomo moderno tende a frapporre tra se stesso e il passato: lo vuole il progresso!, il passato è arretrato!
Come se non bastasse, sempre più spesso la realtà che ci circonda e con cui ci interfacciamo è composta non da persone in carne e ossa e da oggetti fisici da toccare con mano, ma da stringhe di bytes che viaggiano da un capo all’altro del pianeta mettendo in connessione individui che interagiscono attraverso uno schermo.
Si potrebbero citare tanti esempi di come questo stato di cose abbia modificato la nostra società, ma limitiamoci all’esempio lampante dei mutamenti insorti nel mondo del lavoro.
Se facciamo il paragone con la vita economica di una società tradizionale, che ruotava attorno alla cascina e in cui tutti i lavoratori svolgevano una serie di compiti interdipendenti tra di loro […] l’iper-specializzazione [e l’astrazione] delle nostre carriere ha completamente rotto l’interconnessione tra noi e il resto del mondo, che pure vigeva un tempo.
Qui però sorge effettivamente un problema: e cioè che una economia (e, più in generale, una cultura) che è ormai completamente astratta, scollegata dalla natura e dalla fisicità di un oggetto o luogo, rischia inevitabilmente di promuovere tra i suoi membri una crescente una deresponsabilizzazione.
Ad esempio, se domani mattina, dall’altra parte del mondo, una industria inquina una falda acquifera rilasciando nell’ambiente residui chimici nocivi, chi è che dovrebbe considerarsi moralmente responsabile del danno ambientale che sta avendo luogo?
Certamente non la S.p.A. in sé, che è composta da un insieme di azionisti che non hanno mai neanche visto il residuo chimico, né men che meno dovranno convivere con i suoi effetti.
Ma non sono responsabili nemmeno i dipendenti della società che lavorano nello specifico stabilimento che ha rilasciato le sostanze tossiche: dopotutto, sono solo dei dipendenti.
E così, le popolazioni locali che si trovano alle prese con una falda acquifera inquinata sono adesso in grave difficoltà: non hanno alcun tipo di contatto con la compagnia che ha causato l’inquinamento, e la compagnia non avverte alcun tipo di legame verso di loro.
Viviamo in un mondo così bizzarro, in cui vige una cultura così astratta e disincarnata, che, per assurdo,
le persone possono anche avere la consapevolezza astratta del fatto che l’ambiente è in pericolo e le risorse energetiche si stanno esaurendo (o che gli anziani stanno morendo abbandonati in una casa di riposo e le nuove generazioni stanno crescendo sempre più ciniche e affettivamente sregolate) ma possono anche, al tempo stesso, decidere di non preoccuparsene.
In fin dei conti, come possiamo realmente provare preoccupazione per ciò che non comprendiamo o che è completamente avulso da quanto sperimentiamo nella nostra vita quotidiana?
5) La crescente irrilevanza di Dio nella nostra quotidianità
Ma “probabilmente, il più grande ostacolo che ci impedisce di tornare a percepire il mondo come creazione è la crescente irrilevanza che Dio ha nelle nostre vite”.
Ci mancherebbe!, di credenti ce ne sono ancora tanti. È pieno il mondo di brava gente che prega, recita il rosario, snocciola litanie, impara a memoria passi biblici, scrive articoli ispirazionali su blog cristiani e così via. Ma, a detta di Wirzba, “nella maggior parte dei casi sono parole forzate, ornamentali e vuote, perché nella nostra vita quotidiana resta ben poco a sostenere quanto noi diciamo”.
E state attenti: Wirzba non ci sta dando degli ipocriti; sta tratteggiando quello che secondo lui è un puro dato di fatto. Noi possiamo senz’altro proclamare con orgoglio e sincerità che Dio è un elemento centrale nelle nostre vite, e, al tempo stesso
non renderci che questa affermazione è falsa.
Ciò è possibile perché sono quasi completamente scomparse dalle nostre vite quelle condizioni che permettevano all’uomo di percepire davvero, con profondità e in modo schiacciante, di essere costantemente alla presenza di Dio.
Se, nel passato, l’uomo tendeva a organizzare la sua vita avendo come priorità assoluta la salvezza per la propria anima, è innegabile che adesso la nostra priorità n. 1 sia quella di avere abbastanza soldi per non essere sfrattati.
Ormai da tempo, l’uomo ha smesso di plasmare la sua vita quotidiana attorno alla pratica religiosa; semmai è la pratica religiosa ad essere plasmata in modo tale che possa svolgersi negli intervalli di tempo lasciati liberi dalle altre incombenze. Per capirci: nessuno di noi entra in ritardo al lavoro perché prima deve finire di recitare le Lodi; le Lodi le recitiamo nei ritagli di tempo, e pazienza se è l’ora sbagliata. Non c’è ovviamente nulla di male, ma sta di fatto che una volta accadeva il contrario, perché una volta vivevamo immersi in una cultura cristiana e adesso non lo siamo più.
E infatti, non è un caso se coloro che cercano una vita religiosa integrale, “una vita basata sull’autorità divina più che sulla autonomia dell’uomo”, si trovano sempre più spesso a prendere posizioni fortemente contro-culturali, talvolta anche irrigidendosi in rigurgiti di rigorismo. È inevitabile, se la cultura in cui si è immersi si allontana così tanto dalla pratica religiosa.
Un tempo – come giustamente sottolinea Wirzba – Dio era quotidianamente presente nelle nostre vite, come una presenza così ingombrante da essere quasi tangibile. Immagini religiose all’angolo di ogni crocicchio, un calendario lavorativo plasmato su quello liturgico, riti pubblici che scandivano il passare del tempo e una foresta di allegorie e di simboli attraverso i quali Dio parlava all’uomo quotidianamente: tutto questo rendeva materialmente impossibile dimenticare, anche per un solo istante, che Dio esiste e governa il mondo.
Adesso, siamo noi a dover graziosamente far spazio a Dio per permettergli di entrare nella nostra quotidianità. Anche se ci si professa (e ci si sente) (e si è!) cristiani praticanti, è perfettamente possibile vivere l’intera giornata lavorativa “dimenticandosi” che Dio ci guarda. Certamente i credenti sanno che Dio esiste, e lo amano con sincera devozione, ma al tempo stesso questa consapevolezza è fortemente astratta. Gira e rigira, la vita quotidiana di un credente ruota attorno a un tran tran che è sostanzialmente identico a quello di chi in Dio non crede affatto.
Ma se l’esperienza religiosa diventa un fatto astratto e interamente teologico, con poche attinenze con la nostra quotidianità, allora si fa sempre più difficile guardare al mondo che ci circonda e considerarlo un’espressione della potenza divina.
Più che altro, oggigiorno rimangono pochi posti al mondo in cui, guardandosi attorno, non si percepisca la (lodevolissima, per carità) potenza dell’uomo, che crea autostrade in mezzo ai monti, scala le vette in uno sciocco di dita salendo su una funivia e solca i mari con gigantesche navi d’acciaio. Se una volta il salmista poteva cantare che “i cieli narrano la gloria di Dio”, oggi noi potremmo onestamente dire la stessa cosa, magari in prossimità di un aeroporto? Perché, non so a voi, ma a me un aereo che vola fa pensare innanzi tutto al lodevole ingegno dell’uomo.
***
E insomma: secondo la tesi di Norman Wirzba, sono queste le cinque ragioni per cui noi cristiani moderni fatichiamo a concepirci come i custodi del creato, a differenza dei nostri trisavoli. Per noi, la natura è essenzialmente uno strumento da aggiogare e far fruttare; ci risulta sempre più difficile percepirla come creazione, dono e grazia. Il modello socio-culturale che, per secoli, ci ha aiutati a considerarla tale è stato sistematicamente messo in crisi, e poi negato, dai trend culturali divenuti dominanti negli ultimi secoli di Storia umana.
Non che siano trend culturali negativi in sé, per carità. Sono solo trend culturali diversi. E hanno cambiato profondamente il modo con cui percepiamo noi stessi, il mondo, e il ruolo di noi stessi nel mondo. Sono proprio venuti meno i presupposti pratici e teorici attraverso cui l’uomo, per secoli, ha ottemperato al comandamento di coltivare e custodire il creato.
Nulla di grave, per carità. È normale che i tempi cambino; ci si adatta.
Basterà individuare altre modalità pratiche e teoriche attraverso cui il cristiano possa riprendere consapevolezza di quel comandamento, il primo che Dio gli ha dato.
Note
↑1 | Per gentile concessione di Lucia. |
---|
Salve!
Secondo me la frase:
“Non che siano trend culturali negativi in sé, per carità. Sono solo trend culturali diversi. E hanno cambiato profondamente il modo con cui percepiamo noi stessi, il mondo, e il ruolo di noi stessi nel mondo.”
non è corretta perché nei “trend” culturali “diversi” ci sono anche l’annullamento del
concetto di “morte”, la fortissima riduzione del concetto di “condivisione” e sopratutto
un radicale cambiamento del concetto di “rispetto” che oggi è affidato non
più ad una scelta di coscienza basata sui rapporti umani ma ai avri regolamenti
e contratti e leggi che sembrano nati per regolare anche il “rispetto”
e tutti gli altri rapporti anche più intimi.
I nostri trend “diversi” di fatto hanno allontanato l’uomo da sé stesso
ed hanno dovuto creare tutta una serie di “regole” per impedire
che gli uomini si ammazzino l’un l’altro e questo lo chiamano “civiltà”.
Questo “trend diverso” è in realtà un trend “divisorio” ed il nome che
biblicamente è dato a chi “divide” è diavolo!
Quindi io sostituirei la frase così:
“Alcuni trend culturali potrebbero rivelarsi negativi perché
se è vero che “diverso” non vuol dire per forza “peggiore”
(anzi spesso è il contrario) questo concetto non è estendibile
nel caso dei trend culturali quando “diverso” significa
lontano dall’uomo e da Dio!
saluti
RA
Mah, onestamente, articolo farraginoso e non centrato.
Intorno a me non vedo affatto cristiani che non sono ambientalisti nel senso nobile che non rispettano il creato, semmai cristiani che non sono ambientalisti in quanto non vogliono essere succubi della tremenda e anticristiana ideologia ambientalista.
Nel mio piccolo, in quanto cristiana, amo immensamente la natura, gli animali, il verde, ma non aderisco a nessun movimento ideologico come quello dei gretini, pieno di ipocrisia e odio per l’uomo, a favore dell’aborto e del controllo delle nascite e altre quisquilie simili.
Detto un pochino a spanne, sono madre di famiglia e molto impegnata: direi che gli articoli in tema su nuova bussola quotidiana o su tempi.it spiegano molto meglio di questo diluvio di parole per aria dell’articolo quanto possa pensare un cattolico sull’ambientalismo che va per la maggiore oggi e che è l’ambientalismo che molto cattolici contrastano.
( non mi si vangano a citare correnti che nessuno conosce di ambientalismo “cristiano ” : qui non si parla di non rispettare il creato, ma di gente che sostiene che fare figli inquini )
I cristiani sensibili all’ecologia esistono e annoverano tra di loro due dei maggiori filosofi viventi: Roger Scruton (il più grande esponente del conservatorismo) e Fabrice Hadjadj (forse il più brillante pensatore cattolico di oggi). Il magistero cattolico sui temi dell’ecologia nulla ha a che fare con l’ambientalismo di matrice neopagana, panteista, malthusiana, ecc. In ultimo, le riviste succitate rappresentano solo se stesse e alcune correnti cattoliche. Ma certo non sono vincolanti per i cattolici.
Qualche utile info sulla mobilitazione “cattoecologica” (i nostri cugini transalpini sono decisamente più avanti sul tema, grazie al cielo non tutti sono a immagine e somiglianza della destra americana):
http://www.lavie.fr/actualite/ecologie/le-reveil-des-cathos-ecolos-16-06-2015-64183_8.php
http://www.lavie.fr/actualite/ecologie/le-reveil-des-cathos-ecolos-16-06-2015-64183_8.php