Siniša M. è un lottatore. Gli appassionati di calcio lo conoscono bene. Davanti a lui, però, questa volta non c’è in palio la coppa di una finale inattesa o uno scudetto ambito: la partita che deve giocare è differente e ha una posta altissima, la più alta di tutte. Si chiama vita e non ha bisogno di banalità o di retorica che sottolineino la sua importanza. Siniša M. è un uomo come noi. Ha tutte le risorse, ma anche le fragilità dell’essere umano. Ha bisogno delle nostre preghiere e del nostro rispetto. Dei nostri sproni e dei nostri silenzi.
In pochi giorni, però, è già accaduto. Appena il tempo di sapere della sua malattia e, al primo ritorno in campo, alla sua vita di sempre, Siniša – nelle nostre parole, scritte o espresse a voce – ha smesso di essere quello che è sempre stato. Come già Nadia T., prima di lui, è stato descritto come un eroe greco, una divinità. Il canto epico di alcuni giornalisti e le sirene, social e live, hanno dato compimento alla metamorfosi. Siniša è il vittorioso, un modello di guerriero trionfante da proporre all’imitazione collettiva. La verità, però, è un’altra: sta combattendo uno scontro durissimo, dall’esito incerto, lo stesso che tanti, come lui, affrontano quotidianamente, dentro e fuori gli ospedali, senza epopee e lirismi. Vincendo talvolta, ma non sempre.
«E ora come faccio a dirgli che Nadia T. è morta?». Il mio amico non riusciva a capire: che c’entrava Nadia T. con il suo conoscente, che gli poneva quella domanda sofferta, e, ancor di più, con il familiare di lui che sta lottando contro il suo “brutto male”? C’entra, eccome. C’entra perché la bella parabola di speranza di Nadia T. è diventata a poco a poco – complici i media e le nostre chiacchiere – qualcosa di totalmente differente dalla realtà. Nadia non era più una donna in affannosa lotta per rimanere viva, con una determinazione e un entusiasmo non comuni. Non era più una persona che – come Siniša – si era esposta senza timore, aveva chiamato per nome il suo cancro e ci aveva aperto la porta del suo percorso più importante. Noi l’abbiamo trasformata in una semidea che, a furia di sorrisi dopo ogni chemio, alla fine – ne eravamo certi – ce l’avrebbe fatta. Lei stessa, però, forte di una consapevolezza superiore, ci aveva avvertiti: «Posso anche non vincere, ma devo combattere». Ci aveva messo in guardia, Nadia, che la battaglia poteva finire in un altro modo. Noi, però, abbiamo fatto finta di niente. L’abbiamo resa un modello di successo da proporre a familiari e amici ammalati: a poco a poco, impercettibilmente, trasfigurandola in una guerriera spavalda che rideva in faccia alla morte. E, invece – come ci siamo trovati a pensare, qualche settimana fa, improvvisamente turbati – la morte ha avuto l’ultimo sorriso. Panico, paura, impotenza.
Il finale della storia, però, è differente. Forse potrebbe piacerci anche di più se imparassimo come stare davvero accanto a chi combatte. Nadia – che, con la sua penna di dolore, ha vergato per noi pagine di speranza autentica – adesso, probabilmente, sorride davvero. Forse già di un sorriso che non avrà mai fine. Lei, che ha visto nel suo cancro un dono, ci ha insegnato soprattutto che possiamo imparare da qualsiasi evento. Che possiamo scoprirci persino veri nel sorridere di fronte all’avanzare implacabile di una malattia feroce. Ci dispiace che sia morta: è stata, però, ed è ancora più viva di molti di noi. Tante persone della nostra contemporaneità, già beate o in fama di santità, hanno scoperto – forse ancor più di Nadia (ma lascio perdere le hit parade della Vita eterna, ché non è affare mio) – il segreto della felicità nel dolore. Mentre noi vogliamo riscrivere quotidianamente la sceneggiatura delle nostre vite, loro hanno compreso che ci si può affidare a Dio, proprio quando tutto sembra perduto, e che con Lui è tutto guadagnato. Il Regista non sbaglia mai un film.
Forse Siniša, che ha appena iniziato a combattere – e noi preghiamo perché riesca a superare l’“avversario” – ci insegnerà un’altra lezione rispetto a Nadia: è possibile ringraziare, da sopravvissuti, ogni giorno della propria vita per quel dono ricevuto. Lo speriamo per lui e con lui.
In questo momento, però, lasciamolo lottare in pace. Non trasformiamo lui o altri volti noti in eroi, né, peggio, in divinità. Non tramutiamo la loro forza interiore – che esiste – nei superpoteri dei paladini di fumetti e film. Chiudiamo a doppia mandata il complimento chiassoso, l’elogio retorico – con cui ci dilettiamo più noi che loro –, il racconto enfatico riguardo ai loro progressi. Teniamo a mente che sono fatti di carne, come noi. Accompagniamoli con un incoraggiamento sincero e realistico. Ne hanno bisogno perché, saggiando i loro limiti, diano valore ai loro giorni. Ne hanno bisogno i tanti ammalati che necessitano di una speranza reale, non di un happy end artificioso e pronto a dissolversi. Ne abbiamo bisogno noi tutti, credenti e non credenti, perché l’Amore – a volte – sceglie la strada del dolore per parlarci di quanto ci ama e dobbiamo essere pronti a udire i suoi sussurri portatori di senso.
Rispettare coloro che soffrono, pregare per loro, questo è il vero tifo.
Grazie