L’economia dell’alto lecchese, infatti, si fondava non tanto sull’allevamento o sull’agricoltura, resa particolarmente ostica dalla dura pietra di montagna, quanto sull’estrazione e sulla lavorazione del ferro proveniente dalle miniere della Valsassina e trattato negli altiforni fusori e nelle fucine edificate in prossimità di torrenti e corsi d’acqua, il principale dei quali era la Pioverna, che fornivano l’energia idraulica necessaria per il funzionamento dei macchinari. I fitti e rigogliosi boschi delle valli lecchesi assicuravano alle fucine materiale combustile e carbone in quantità adeguate alla lavorazione del metallo. Proprio a motivo dell’abbondanza di giacimenti ferrosi e di boschi l’industria del ferro valsassinese, in continua espansione, acquisì un valore strategico per lo Stato milanese. Dopo la pace di Lodi del 1454, che ratificò il passaggio di due importanti centri siderurgici come Brescia e Bergamo nel territorio della Repubblica di Venezia (alla quale avevano già aderito con atto di dedizione rispettivamente del 1426 e del 1428, sottraendosi alla dominazione viscontea), il Ducato potè disporre soltanto delle miniere e dell’industria del ferro del Lecchese, che si trovò così ad acquisire il primato in ambito siderurgico.
La situazione che si era venuta a determinare, in considerazione delle problematiche relazioni diplomatiche esistenti tra il Regno di Spagna e la Repubblica di San Marco e delle frequenti guerre commerciali che impedivano di fare affidamento sulla regolarità degli approvvigionamenti bergamaschi e bresciani, indusse il governo spagnolo a sostenere e tutelare in ogni modo la siderurgia lecchese allo scopo di assicurarsi una produzione metallurgica autonoma che consentisse l’affrancamento dal rapporto con i Veneziani, i quali persero così un significativo strumento di pressione sullo Stato milanese.
Dalla metà del XVI secolo, inoltre, le fucine e le fonderie della Valsassina cominciarono ad acquisire una rilevanza anche militare grazie alla produzione di armamenti destinati agli eserciti di stanza nel territorio milanese, dando agli imprenditori lecchesi un notevole potere contrattuale con il governo spagnolo, che si vide costretto ad attuare una politica fortemente protezionistica a loro favore. Le valli lecchesi vissero così un momento di significativa espansione economica determinata dallo sviluppo tecnologico dell’industria metallurgica ed armoraria.
Concorrenza e lotte di potere tra borghesia e notabilato: la genesi della faida tra Manzoni ed Arrigoni
Una simile realtà industriale non poteva non suscitare l’interesse di numerose famiglie lombarde che, in un momento di significativa mobilità sociale ed in considerazione della prospettiva di lauti guadagni, si trasferirono in Valsassina, entrando ben presto in conflitto con i principali esponenti del patriziato locale, fino a quel momento detentori di un monopolio di fatto sull’industria mineraria e metallurgica ed insofferenti verso quella nascente ma già dinamica borghesia imprenditoriale che tentava di insidiare la loro consolidata primazia. La competizione serrata tra il notabilato e le nuove famiglie per la supremazia economica derivante dal controllo delle miniere più floride e degli altiforni più grandi si fece sempre più accesa e ben presto sfociò in una vera e propria guerra che, nell’inerzia delle autorità milanesi, valicò i limiti della concorrenza commerciale, dando luogo a faide feroci e violente, in un crescendo di minacce, calunnie, processi, scontri tra bande di bravi ed omicidi. In particolare, la principale contesa, dalle conseguenze più tragiche, fu quella che oppose il casato degli Arrigoni di Introbio, che controllava il mercato siderurgico nella valle dall’inizio del XVI secolo e guardava con sprezzante alterigia e crescente irritazione “la gente nuova e i sùbiti guadagni”1Dante, Inferno, XVI,73., e l’emergente consorteria dei Manzoni guidata da Giacomo Maria, il quale, grazie ad una politica molto aggressiva, era riuscito in pochi anni ad acquistare alcune delle più ricche miniere della valle creando un rilevante polo industriale.
L’ambizione e la spregiudicatezza dei due clan familiari causarono al patriarca della famiglia Manzoni ed ai suoi rivali non pochi problemi con la giustizia.
- Nel 1612 Giacomo Maria fu coinvolto in un processo per omicidio, venendo condannato dal podestà di Lecco ad una pesante pena pecuniaria.
- Nel 1620 fu accusato, come complice del fratello Giovanni, per l’omicidio di un debitore insolvente. Anche in questo caso Giacomo Maria ricevette una sanzione pecuniaria mentre il fratello ottenne la conversione della condanna in una multa di 300 scudi e nell’esilio per tre anni.
- Nel 1621 Giacomo Maria fu citato come testimone nel processo per l’assassinio di Giovanni Arrigoni, industriale del ferro e suo concorrente. Quest’ultimo, insieme ai fratelli notai GiovanGiacomo e Bonacorso (che aveva ricoperto la carica di sindaco generale della Valsassina), nei primi anni del XVII secolo aveva consolidato il predominio della famiglia sul mercato siderurgico della valle, non disdegnando di ricorrere alla violenza ed all’intimidazione, al punto che nel 1610, a seguito di numerose denunce, il Senato di Milano, supremo organo giudiziario dello Stato, aveva dato mandato al pretore della Valsassina di incriminare i fratelli Arrigoni, dichiarati “rei di violenza, di estorsione e di manifesta tirannide, avendo essi costretto le comunità a vendere boschi per prezzo vilissimo, senza permettere il ricorso a pubblica asta” ed annullando i relativi contratti; i tre fratelli furono arrestati e tenuti in custodia durante lo svolgimento del processo ma, grazie all’intercessione di alcuni potenti parenti (in particolare i conti Galeazzo2Il quale fu pro-vicario del Tribunale dei XII di Provvisione all’epoca del tumulto di San Martino ed autore della relazione sull’assalto al palazzo del vicario di Provvisione, Lodovico Melzi, la quale fornì al Ripamonti (e successivamente al Manzoni) la cronaca “ufficiale” dell’assalto ai forni. e Girolamo Arrigoni, principali esponenti del ramo milanese della famiglia e membri del Consiglio dei LX Decurioni di Milano, supremo organo amministrativo della città), furono assolti e rilasciati, con il solo Bonacorso privato del notariato e condannato alla vendita della carica. Il Manzoni fu subito sospettato di essere il mandante dell’omicidio di Giovanni ma, in assenza di prove, il procedimento si concluse senza condanne, acuendo ancor di più l’inimicizia tra le due famiglie rivali.
Nel corso degli anni, infatti, divenne particolarmente conflittuale il rapporto tra Giacomo Maria ed il capo degli Arrigoni di Introbio, don Emilio Arrigoni (1590/1595-1661), notaio e “tiranno della Valsasna”, il quale, in ragione del timore che la ricchezza ed il nutrito manipolo di bravi al suo servizio sapevano incutere, teneva assoggettati il territorio e le stesse autorità politiche locali al proprio volere3Sempre nel 1621 Manzoni venne condannato ad una multa di 25 scudi per non essersi presentato dinnanzi al podestà di Lecco, condanna confermata dal Senato di Milano nel 1622..
“La notte degli imbrogli” di Giacomo Maria Manzoni: complotti, processi ed untori al tempo della peste
La più grave vertenza che vide protagonista Giacomo Maria Manzoni si svolse tra il 1630 ed il 1631, durante la drammatica epidemia di peste narrata con incomparabile maestria dal suo discendente Alessandro due secoli dopo.
Note
↑1 | Dante, Inferno, XVI,73. |
---|---|
↑2 | Il quale fu pro-vicario del Tribunale dei XII di Provvisione all’epoca del tumulto di San Martino ed autore della relazione sull’assalto al palazzo del vicario di Provvisione, Lodovico Melzi, la quale fornì al Ripamonti (e successivamente al Manzoni) la cronaca “ufficiale” dell’assalto ai forni. |
↑3 | Sempre nel 1621 Manzoni venne condannato ad una multa di 25 scudi per non essersi presentato dinnanzi al podestà di Lecco, condanna confermata dal Senato di Milano nel 1622. |
Grazie molto interessante.
Salve, potrei chiederle maggiori informazioni sulle fonti di questo articolo? Cordiali saluti.