Chi mi conosce sa che spesso apprezzo le vignette di Marco D’Ambrosio, noto al grande pubblico col nome d’arte di Makkox; è altresì noto (ma neppure è scontato) che sono un fermo avversario di molte delle politiche portate avanti negli anni da Matteo Salvini1Da quelle sulla gestione dei flussi migratorî a quelle sulla “legalizzazione della prostituzione” (se va bene legalizzare la prostituzione non si spiega perché non si debbano legalizzare le droghe…) a quelle su pubblica sicurezza e legittima difesa, ma senza dimenticare le affiliazioni organiche coi cartelli nazionali delle armi, i cui interessi oltrepassano i confini italiani e incendiano focolai di guerra in quegli stessi Paesi donde vengono a noi ondate di disperati.. Qualcuno quindi potrà forse stupirsi del fatto che alcune tra le vignette di Makkox che meno mi hanno fatto ridere erano quelle che più spudoratamente facevano dell’antisalvinismo militante, ad personam (come se mancassero gli argomenti!).
Il risvolto tragico della satira
Una tavola stanca o meno brillante può capitare a tutti, però, e non intacca la classe dell’artista. Quella di ieri, invece, era una vignetta straordinariamente intensa, così atipica che la si potrebbe veder esulare dal contenuto prettamente satirico: l’incendio sullo sfondo, la figura eroica in primo piano (quantunque stemperata da un grembiule votato a dare comicità alla scena) dicono piuttosto di un tema tragico.
L’elenco delle azioni evocato dall’uomo tratteggia il macchiettistico chiaroscuro dell’elettore leghista medio:
- Votare Salvini;
- Comprare il suo discusso libro2Ormai la vicenda Salone del Libro di Torino s’è risolta con l’esclusione di Altaforte, la casa editrice vicina a CasaPound, ma non penso di essere il solo a ritenere questa una non-soluzione, se non una vittoria di Pirro: la società aperta non deve tollerare gli intolleranti, questo è vero e ringraziamo Popper per averne formalizzato il paradosso; ma se c’è un posto in cui tutti dovrebbero avere diritto di pensiero e di parola (con l’inevitabile contropartita di poter essere contestati), questo è proprio un salone del libro. Gli intolleranti invece non dovrebbero essere tollerati nella vita civile di tutti i giorni: CasaPound non può continuare ad occupare lo stabile tuttora spacciato per sua sede a Roma – e contemporaneamente protestare per la regolare e legittima assegnazione di case popolari a persone invise ai neofascisti –; e a poco serve che ieri sera Lilli Gruber abbia messo all’angolo Matteo Salvini su questo particolare tema. Un contesto culturale (quale si auspica che un salone del libro sia) è invece l’arena deputata alla disputa intellettuale. Verrebbe da pensare che si sia scelta la strada più facile, poiché censurare è da sempre più facile che confutare. La verità temo sia più profonda: è stata scelta l’unica strada percorribile, perché il nostro tempo debole, pregno di inservibili verità liquide, non dispone della forza coercitiva della ragione. Una volta nessun editore si sarebbe sognato di pubblicare quanto anticipatamente si fosse previsto diventare l’oggetto di pubbliche smentite: qui il problema è che Altaforte vive sul sottile filo di nostalgia che danza sul reato di apologia di fascismo senza mai caderci in modo decisivo, e dunque il tema del libro non è il suo contenuto (nessuno legge niente, non c’è problema), bensì l’orientamento dell’editrice e soprattutto la ragione (ovviamente politica) per cui Salvini l’ha scelta, che fa il paio con la decisione di Meloni di candidare un Mussolini (con tanto di caratteri futuristi nei manifesti!). Insomma, il vero problema è a monte del Salone del Libro, e intervenire censoriamente in quella sede senza affrontarlo lì dove esso è posto costituisce un gallone martiriale sulle casacche di Altaforte, CasaPound e Salvini, ovvero altrettante inutili ferite al regime democratico italiano.;
- Indossare il grembiule;
- Schifare i rom;
- Picchiare i neri;
- Sparare ai ladri;
- Avere il culto della personalità del leader.
Ciò detto, però, il leghista cessa immediatamente di essere ridicolo, anzi Makkox ne fa una maschera titanica per la frustrazione ma umanissima per l’anelito:
Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto.
Quando sarò felice?
Le fondamenta aristoteliche
E all’improvviso si spalanca il paesaggio interiore del leghista, il quale sim-paticamente appare per il piccolo e pericoloso animale nevrotico che di per sé tutti noi siamo. La civiltà occidentale è stata forgiata sull’incudine degli scritti di Platone e Aristotele, rispetto ai quali molti dei pensatori successivi paiono poco più che commentatori: in quella domanda discepolare messa da Makkox a chiusa della vignetta – chiedere a un altro uomo una guida sulla propria aspirazione più intima significa farsene discepoli – lo Stagirita vedeva il cuore dell’Etica, cioè la stella polare della riflessione su come l’uomo debba vivere.
E la risposta era semplice, per lui: l’uomo deve vivere secondo natura, e poiché la sua natura è quella di “ζώων λόγον ἔχων” egli deve vivere “secondo ragione”. Più o meno le cose che nel 2006 Benedetto XVI avrebbe ricordato a Ratisbona (salvo che essendo il Pontefice un discepolo di Gesù Cristo per lui si può essere felici anche da schiavi, da poveri, da malati). Solo che noialtri abbiamo tutto fuorché una chiara idea sulla natura dell’uomo – anzi molti nostri contemporanei increspano sarcasticamente le labbra quando solo si menziona la “natura umana”.
Nella Politica Aristotele parla molto meno di felicità, ma il discorso etico è implicato dal fatto che sempre per natura l’uomo è un animale politico, cioè destinato alla vita comune – nella quale sistematicamente gli individui cedono quote crescenti di libertà (fatti salvi i beni inalienabili, che neppure al portatore sono disponibili) mano a mano che più grandi si fanno i beni e i servizi che intendono acquisire3Per stare in un condominio basta accettare di dividere le spese comuni, per la pace nel mondo sarà immancabilmente necessario modificare radicalmente i propri stili di vita individuali e comunitarî..
L’edificio agostiniano
La modernità avrebbe portato a una radicale critica della natura dello Stato, parallela a quella della natura dell’uomo: in una parola, sarebbe stato minato alla base l’impianto giusnaturalistico della civiltà occidentale. “Homo homini lupus” sarebbe diventato il claim della politica moderna da Thomas Hobbes in qua. In realtà, Il Leviatano di Hobbes (1651) segna una nuova fase della civiltà occidentale non perché introduca nuovi concetti, ma perché partendo da premesse giusnaturalistiche giunge a un sistema giuspositivistico: da quel punto in poi (ma Machiavelli aveva già operato e scritto…) la politica sarebbe stata apertamente governata dall’utile e non sarebbe più stata il regno del giusto (neppure in teoria). Di poco più anziano di Hobbes, Francis Bacon aveva osservato come sia «debito di giustizia che l’uomo sia per l’uomo un dio, e non un lupo»4Francis Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, 1623, VI, c. III, Exempla antith. XX., mentre cent’anni prima il pio giurista Francisco de Vitoria protestava essere «contro il diritto di natura che un uomo avversi un altro senza causa, perché “l’uomo non è certo un lupo per un altro uomo”, come vorrebbe Ovidio»5Francisco De Vitoria, Relección primera, De los Indios, III; terza edizione a cura di T. Urdanoz, Madrid, 1960, p. 709.. Ma l’umbratile e malinconico Erasmo, più vecchio di poco, aveva già sentenziato: «Homo homini aut deus, aut lupus»6Erasmus Roderodamus, Adagia, 70.. Il che è fondamentalmente conseguenza politica della tragica ambivalenza etica dell’uomo, posto su «quest’atomo opaco del male» a essere perpetuamente strattonato fra l’innata aspirazione al bene e un’ineludibile tendenza al male7Nel 1496, all’alba dell’“evo nuovo”, Giovanni Pico della Mirandola avrebbe scritto in merito cose stupende (e un po’ asfittiche, a mio giudizio, ché già l’elemento teologico della sua antropologia diventava meno sostanziale e più circostanziale di quanto fosse in precedenza)..
Ora, De Vitoria parla di Ovidio, ma quanto ci risulta certamente è che l’espressione resa universalmente nota da Hobbes risalirebbe a Plauto e alla sua Asinaria8Plautus, Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495.. Non è questione di copyright: basta per capire che in realtà non fu la modernità a costruire un edificio politico in cui gli uomini non collaborassero ma concorressero in forza del postulato “mors tua, vita mea” (altro motto tutt’altro che moderno). Quel sistema politico, però, entrò ben presto in crisi, e per lunghi decenni e secoli furono proprio le pressioni etniche dall’esterno a costituire la massima spia d’allarme del travaglio interno dell’impero.
Quando, nel 410, avvenne “l’11 settembre” della tardo-antichità (il sacco di Roma ad opera dei goti di Alarico), lo choc fu vasto e perdurante. Roma cadeva… e cosa poteva mai restare in piedi? Questo arrivavano a chiederselo perfino autori cristiani come Girolamo! Agostino però vedeva enormemente più lontano, oltre che immensamente più da vicino: l’impero romano era, sì, il più riuscito esempio di Stato che la storia umana conoscesse, eppure non poteva considerarsi perfetto né arrivato. Le ingiustizie, le violazioni del diritto naturale, gli stupri del concetto di Stato erano sempre esistiti e soltanto nella “Città di Dio” (così l’opera che a più riprese il Vescovo di Ippona avrebbe scritto in quasi vent’anni di lavoro) sarebbero venuti meno.
Ora però la “Città di Dio” non è solo e completamente un evento escatologico, essa è una modalità esistenziale ed esistentiva (diremmo con linguaggio moderno): è sempre possibile farne parte, ma se non se ne fa parte non è possibile appartenere ad altra città che all’“altra” città, il cui archetipo biblico è Babele. Lì la politica si articola a partire dal comandamento della supremazia e fatalmente fallisce nella dispersione e nell’incomunicabilità: «Due amori – è la celebre sintesi del libro XIV – hanno costruito due città». Già dieci libri prima, giunto quasi a metà della prima parte dell’opus magnum agostiniano, l’autore scriveva:
Note
↑1 | Da quelle sulla gestione dei flussi migratorî a quelle sulla “legalizzazione della prostituzione” (se va bene legalizzare la prostituzione non si spiega perché non si debbano legalizzare le droghe…) a quelle su pubblica sicurezza e legittima difesa, ma senza dimenticare le affiliazioni organiche coi cartelli nazionali delle armi, i cui interessi oltrepassano i confini italiani e incendiano focolai di guerra in quegli stessi Paesi donde vengono a noi ondate di disperati. |
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↑2 | Ormai la vicenda Salone del Libro di Torino s’è risolta con l’esclusione di Altaforte, la casa editrice vicina a CasaPound, ma non penso di essere il solo a ritenere questa una non-soluzione, se non una vittoria di Pirro: la società aperta non deve tollerare gli intolleranti, questo è vero e ringraziamo Popper per averne formalizzato il paradosso; ma se c’è un posto in cui tutti dovrebbero avere diritto di pensiero e di parola (con l’inevitabile contropartita di poter essere contestati), questo è proprio un salone del libro. Gli intolleranti invece non dovrebbero essere tollerati nella vita civile di tutti i giorni: CasaPound non può continuare ad occupare lo stabile tuttora spacciato per sua sede a Roma – e contemporaneamente protestare per la regolare e legittima assegnazione di case popolari a persone invise ai neofascisti –; e a poco serve che ieri sera Lilli Gruber abbia messo all’angolo Matteo Salvini su questo particolare tema. Un contesto culturale (quale si auspica che un salone del libro sia) è invece l’arena deputata alla disputa intellettuale. Verrebbe da pensare che si sia scelta la strada più facile, poiché censurare è da sempre più facile che confutare. La verità temo sia più profonda: è stata scelta l’unica strada percorribile, perché il nostro tempo debole, pregno di inservibili verità liquide, non dispone della forza coercitiva della ragione. Una volta nessun editore si sarebbe sognato di pubblicare quanto anticipatamente si fosse previsto diventare l’oggetto di pubbliche smentite: qui il problema è che Altaforte vive sul sottile filo di nostalgia che danza sul reato di apologia di fascismo senza mai caderci in modo decisivo, e dunque il tema del libro non è il suo contenuto (nessuno legge niente, non c’è problema), bensì l’orientamento dell’editrice e soprattutto la ragione (ovviamente politica) per cui Salvini l’ha scelta, che fa il paio con la decisione di Meloni di candidare un Mussolini (con tanto di caratteri futuristi nei manifesti!). Insomma, il vero problema è a monte del Salone del Libro, e intervenire censoriamente in quella sede senza affrontarlo lì dove esso è posto costituisce un gallone martiriale sulle casacche di Altaforte, CasaPound e Salvini, ovvero altrettante inutili ferite al regime democratico italiano. |
↑3 | Per stare in un condominio basta accettare di dividere le spese comuni, per la pace nel mondo sarà immancabilmente necessario modificare radicalmente i propri stili di vita individuali e comunitarî. |
↑4 | Francis Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, 1623, VI, c. III, Exempla antith. XX. |
↑5 | Francisco De Vitoria, Relección primera, De los Indios, III; terza edizione a cura di T. Urdanoz, Madrid, 1960, p. 709. |
↑6 | Erasmus Roderodamus, Adagia, 70. |
↑7 | Nel 1496, all’alba dell’“evo nuovo”, Giovanni Pico della Mirandola avrebbe scritto in merito cose stupende (e un po’ asfittiche, a mio giudizio, ché già l’elemento teologico della sua antropologia diventava meno sostanziale e più circostanziale di quanto fosse in precedenza). |
↑8 | Plautus, Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495. |
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