di p. Bernard Ugeux1Pubblicato su lavie.fr il 3 marzo alle 19:54.
Si parla molto del clericalismo come di una delle principali spiegazioni dell’omertà in ambiente clericale a proposito dei diversi abusi sui ragazzini e sulle religiose da parte di membri del clero. Ne ho parlato in altri post. Oggi vorrei testimoniare che secondo me uno dei modi migliori di evitare l’arroganza e la frapposizione di distanze clericali è vivere relazioni di partenariato e di amicizia con coppie cristiane impegnate. Personalmente, non sono mai stato tentato di clericalismo, perché fin dalla mia infanzia a casa i miei genitori, cattolici impegnati, avevano per il clero un grande rispetto che veniva contraccambiato da numerosi sacerdoti che li trattavano come fratelli in umanità, coi quali si poteva discutere di tutto.
Tuttavia, mano a mano che procedeva la mia formazione, sono stato introdotto a un ethos clericale legato alla mia funzione e che, in Africa, era incoraggiato dalla riverenza espressa al clero dal popolo cristiano. Esisteva la tentazione di accomodarmici. All’età di 38 anni sono venuto a Parigi per preparare i miei dottorati in teologia e in antropologia delle religioni. E sarebbero potute diventare anche queste occasioni supplementari per scalare i gradini della gerarchia ecclesiastica. La grazia che mi è stata fatta al mio arrivo nella capitale, dopo otto anni di ministero in Africa, fu di essere stato invitato fin dalle prime settimane a vivere un fine settimana Vivre et Aimer. Questo movimento internazionale, questa comunità, si occupa di Pastorale famigliare e organizza dei weekend di formazione al dialogo per coppie di fidanzati o persone impegnate in una relazione stabile. Esso differiva però da altri movimento per il fatto che quei weekend erano e sono ancora aperti ai preti e a religiosi di entrambi i sessi, in considerazione del fatto che anch’essi hanno bisogno di scoprire meglio e identificare più a fondo la loro vita affettiva, e di imparare a parlarne in un dialogo profondo. Un’altra originalità di questo movimento è che il prete non vi partecipa come cappellano, ma come partecipante insieme con le coppie.
Rapidamente, mi hanno chiesto di partecipare a un gruppo che lavorava a weekend di dialogo, poi a partecipare a un gruppo di animazione regionale per la zona di Parigi. È stato in quel momento che sono stato invitato ad abbracciare il metodo e lo spirito del weekend e a collaborare con delle coppie come non avevo mai vissuto prima. Anzitutto, questo lavoro su di sé in dialogo e sul medesimo piano delle coppie con cui collaboravo mi ha permesso di identificare meglio, gestire e comunicare i miei sentimenti. Ho vissuto un’apertura e una comunicazione tra coppie e prete, fatta di responsabilità e di intimità, che mi ha rivelato la bellezza di quel che forse è la complementarità fra ordine sacro e matrimonio. In seguito, ho pure realizzato fino a che punto avevo rinunciato al matrimonio in un’immagine assai idealizzata, e ho preso coscienza della lunga e talvolta dolorosa costruzione che rappresenta il cammino di una coppia nella fedeltà e nella prossimità. Tale realismo pastorale ha successivamente molto influenzato la mia maniera di insegnare e predicare. Quel che per me è l’antidoto al clericalismo è che non c’era un’oncia di superiorità tra consacrato e laico. Inoltre, durante le nostre condivisioni personali, con cui cominciavano le riunioni di lavoro, il prete faceva il punto sulla sua vita di relazione pastorale o comunitaria come tutti gli altri, a medesimo titolo delle coppie, chiaramente rispettando quanto ineriva alla confidenzialità nel suo ministero (per il foro interno). Così sono stato interpellato sulla mia responsabilità nella relazione proprio come io interpellavo le coppie sulla loro. E camminando così con loro ho scoperto la bellezza e la sfida rappresentata dalla vita matrimoniale. Ho capito anche fino a che punto l’amicizia di un prete può sostenere e arricchire una coppia, nella misura in cui quegli se ne sta al suo posto (!); ho capito pure che insostituibili arricchimento e supporto vengano a un prete dal sapere di poter contare su alcune coppie amiche con le quali collabora e che possono prodigargli consiglio e sostegno.
L’ospitalità in casa e le condivisioni con i bambini sono una grande gioia e un’occasione di distensione. Al prete tocca vegliare che queste amicizie non si interpongano con la sua vita di comunità, se è un religioso. Quel che conta è che l’obiettivo di queste relazioni non sia di stare bene insieme, ma di collaborare in un servizio ecclesiale destinato a promuovere il dialogo nelle coppie e nelle comunità. Non si tratta di essere “autoreferenziali”, come dice Papa Francesco, ma di lavorare insieme a un obiettivo comune.
Ho constatato il medesimo percorso negli altri preti impegnati in questo movimento. Sono convinto che dei confratelli impegnati oggi nelle nuove comunità miste ne ricavino il medesimo beneficio. Trentacinque anni dopo, non posso che consigliare ai preti che non avessero scoperto questa meravigliosa complementarità di uscire dal loro isolamento e di liberarsi da eventuali tentazioni di clericalismo.
Tornato in Africa da quasi 10 anni, collaboro con una “Clinica per la mediazione famigliare”, fondata tre anni fa da certe religiose e animata da dei laici in collaborazioni con quelle e con dei sacerdoti. Attingo alla mia esperienza con Vivre et Aimer per formarli così che pratichino e insegnino il dialogo coniugale, e questa è certamente una delle dimensioni della coppia meno sviluppata nelle famiglie africane che conosco. Questa Clinica fa un notevole lavoro di accoglienza delle coppie in crisi (sono in una zona di iperviolenza armata) e di sensibilizzazione delle famiglie nelle parrocchie. È un peccato che per via di scarsi fondi rischi la chiusura. Ma conserviamo la speranza… «Non c’è immagine più bella di Dio che una coppia che si ama», diceva recentemente Papa Francesco – e questa è sempre stata una convinzione del nostro movimento.
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