La signora Mariella si riferiva a questo post pubblicato su Aleteia, nel quale commentavo brevemente uno scampolo dell’ultima conferenza stampa di Papa Francesco, cioè quella sul volo di ritorno da Abu Dhabi, lo scorso 5 febbraio.
Scrivevo che ogni corruzione implica resistenze, più o meno forti, a un processo di riforma, benché non sia vero il contrario – cioè non è vero che ogni resistenza a una riforma (anche ove questa fosse giusta e retta) implichi una corruzione. Aggiungevo che l’uomo ecclesiastico è quello che incessantemente opera per vincerle, pazientemente sopporta i ritardi che esse comportano, fiduciosamente prega e offre quelle proprie mortificazioni per l’edificazione del corpo mistico di Cristo.
La signora Mariella senza dubbio esprime buona fede e ama il Santo Padre (nonché il Papa Emerito) – di questi tempi ciò denota già un punto di partenza nient’affatto scontato. Tuttavia l’idea che un pontefice possa da sé “riformare la Chiesa” ha del naïf: la storia mostra anzi che talvolta le riforme vere arrivano decenni e secoli dopo l’impulso dei riformatori. Il Concilio di Trento – per dirne uno – fu aperto da Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, che divenne cardinale per via del fatto che la sorella Giulia andava a letto con Alessandro VI Borgia e in conclave comprò i voti necessari all’elezione. Però fu l’ultimo a farlo: il suo primo atto di governo fu la dichiarazione di invalidità per tutte le future elezioni simoniache. E le grandi canonizzazioni del XVI secolo, le geniali intuizioni (come l’approvazione delle Costituzioni della Compagnia di Gesù), l’apertura del sospirato Concilio e molto altro ancora portano per i secoli il nome del fu “Cardinal fregnese” (ché così era noto a Roma). Chissà cosa avrà pensato, ormai dall’alto dei cieli, il povero Urbano VI, che nacque Bartolomeo Prignano e sedette sul soglio petrino dal 1378 al 1389… quello sì che era un Papa santo, che provò in tutti i modi a “riformare la Chiesa”… e ciò che più macroscopicamente causò fu il Grande Scisma d’Occidente, che sarebbe stato ricucito – e in un modo rocambolesco – nel Concilio di Costanza e con l’elezione di Martino V Colonna.
Domenica mattina, appena sveglio, trovai un lungo messaggio che nella notte mi aveva scritto un bravo prete italiano, un ecclesiastico dotto e a cui sono state attribuite varie responsabilità – sia pastorali sia accademiche. Questo è ciò che mi scriveva.
Scrive A. Prosperi in Lutero. Gli anni della fede e della libertà1Mondadori 2018, 116-119 passim.:
Sui problemi da affrontare al Concilio Lateranense V (1512-1517) i due camaldolesi veneziani Querini e Giustiniani dettero un loro contributo: accogliendo l’invito di Leone X gli spedirono un Libellus contenente un ampio e dettagliato elenco di proposte. Come molti dei loro contemporanei, condividevano le speranze nel nuovo papa come promotore dell’attesa “renovatione” e forse incarnazione del “papa angelico” promosso dalle profezie. Nelle molte pagine del loro promemoria proposero un disegno vasto e impegnativo di misure da prendere partendo dal principio dell’assoluta autorità suprema del papato nella Chiesa. Una pienezza di poteri da non confondere con il dominio politico come aveva fatto Giulio II inebriato dall’eredità della grandezza antica: in questo l’ottica dei due patrizi veneziani era diversa da quella dominante dell’entourage romano di cortigiani e di teologi. Secondo loro, sul papato imcombeva una grave responsabilità, il governo spirituale della cristianità universale. Perciò l’esercizio corretto del primato papale doveva mirare alla soluzione dei problemi interni ed esterni della Chiesa. E qui una severa disamina era dedicata ad analizzare punto per punto le realtà che richiedevano decisioni e scelte urgenti. All’interno si trattava intanto di affrontare la gravissima situazione creata dell’ignoranza del clero e dei laici. Solo una percentuale minima di preti e frati comprendeva il significato dei testi liturgici in latino che leggevano abitualmente. E così pure gravissima era, secondo il Libellus, l’ignoranza dei laici. Bisognava che si diffondesse e si generalizzasse la lettura della Bibbia tradotta nelle lingue dei popoli.
«A che cosa serve – si chiedevano i due eremiti camaldolesi – leggere ogni giorno brani dei santi Vangeli e delle Epistole apostoliche in latino e che si cantino i Salmi dal momento che tanto i preti che li leggono quanto chi li ascolta non sono in grado di intendere quanto viene letto?».
[…] Di questo documento Jedin ha dato un giudizio non privo di enfasi. Secondo lui si trattava del
«più grandioso e nello stesso tempo più radicale di tutti i programmi di riforma dell’era dei concili»: tale che senza esagerazione si può dire che il programma di riforma dei due camaldolesi ha dato da fare alla chiesa per più di un secolo. Il concilio di Trento, le riforme di Pio V, la Bibbia di Sisto V, la costituzione di Propaganda Fide sono tutti sulla linea già tracciata da loro».
Ma allora non se ne fece nulla. Di riforma si parlò molto al Concilio Lateranense V; vi si costituì addirittura una speciale deputazione, poi suddivisa in cinque sottodeputazioni che dovevano riformare le diverse strutture operanti nella curia papale: la Camera, la Cancelleria, la Rota, la Segreteria, la Penitenzieria. Ma finirono tutte insabbiate e inefficaci, sabotate come furono dall’interno grazie alla presenza nella deputazione di figure centrali di quelle strutture. «Una grande occasione era andata perduta», commentò Jedin. Con il fallimento del Concilio di riforma era diventato inevitabile che alla casa comune si appiccasse «l’incendio della rivoluzione».
La verità è che ogni riforma procede nel lungo periodo, e questo vale soprattutto per i grandi organismi plurisecolari – ma pure (se si vuole essere onesti) nella costruzione di abiti virtuosi personali. Dimenticarlo ci conduce infallibilmente al giustizialismo, che oltre a essere uguale e contrario al lassismo mostra pure un aspetto peggiore di quest’ultimo, perché nel suo frettoloso incedere2Sul modello dell’abate Arnaud Amaury, che prima della strage di Béziers ebbe a dire: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». dimentica – e quasi contraddice – la professione di fede nel Signore del tempo e della storia.
Di’ cosa ne pensi