La firma del Documento sulla “Fratellanza umana per la Pace mondiale e la convivenza comune”, che Papa Francesco e Ahmed al-Tayyeb hanno apposto insieme, è un fatto storico la cui portata epocale sarà testata e verificata nei decenni a venire: certamente chi maneggia le categorie storico-politico-dottrinali sottese al testo non può che restare a bocca aperta davanti all’equilibrio audace di quanto contiene.
È infatti un documento politico ma con inevitabili implicazioni dottrinarie, tra cui spicca – rispetto alla dogmatica islamica – l’affermazione per la quale tutti gli uomini sono fratelli fra loro1Ma non si dice che essi siano figli di Dio, né compare nel testo la parola “padre”., e – rispetto alla fede cattolica – l’implicita ammissione che anche l’Islam rientri in una qualche disposizione della Provvidenza2Ma non si parla di rivelazione, né di ispirazione, né di fede teologale.: ciò che il contraente cattolico “porta a casa” con questo documento è (sulla carta, certo) la condanna scritta, solenne, nero su bianco, di ogni forma di violenza e di coercizione in nome di Dio. In tal senso, il testo firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio scorso è il trionfo diplomatico più luminoso che la (stoltamente) vituperata e incompresa lezione di Ratisbona di Benedetto XVI potesse sperare.
Naturalmente nessun passaggio di quel testo può prescindere, nella sua ricezione cattolica, da raccomandazioni come quella che Giovanni Paolo II scrisse nell’Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa:
Come per tutto l’impegno della « nuova evangelizzazione », anche in ordine all’annuncio del Vangelo della speranza è necessario che si abbia a instaurare un profondo e intelligente dialogo interreligioso, in particolare con l’Ebraismo e con l’Islam. « Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione »(99). Nell’esercitarsi in questo dialogo non si tratta di lasciarsi catturare da una « mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra” »(100)3Ecclesia in Europa 55..
Altre considerazioni più generali ho già esposto due giorni fa. Ora vorrei invece proporre la traduzione di un’intervista doppia che compare stamattina in Francia sulle pagine di Le Figaro: il capo-servizio politico dialoga con due pensatori – uno credente e uno non credente – entrambi dediti a considerare l’attuale destino culturale e geopolitico dell’Europa, soprattutto in considerazione del crescente tasso di islamizzazione della società europea e di quello – per aspetti diversi uguale e contrario – di secolarizzazione.
A Giovanni Paolo II stava a cuore il dato misterico della presenza islamica nella storia: difatti nella sua Esortazione Apostolica si riprendeva il passaggio della Dichiarazione finale del Sinodo del 1991 per cui il dialogo coi musulmani «deve essere condotto con prudenza, con chiarezza di idee circa le sue possibilità e i suoi limiti, e con fiducia nel progetto di salvezza di Dio nei confronti di tutti i suoi figli»4Ecclesia in Europa 57.. Subito dopo però aggiungeva di pugno suo:
È necessario, tra l’altro, avere coscienza del notevole divario tra la cultura europea, che ha profonde radici cristiane, e il pensiero musulmano(104).
Viceversa, lo stesso Papa polacco aveva già ricordato in quello stesso testo che le radici dell’Europa – ancorché trovino nell’apporto giudaico-cristiano un contributo di primo rilievo per la formazione della cultura continentale – non possono ridursi esclusivamente a un contributo, quasi che gli altri potessero essere trascurati:
Sono molteplici le radici ideali che hanno contribuito con la loro linfa al riconoscimento del valore della persona e della sua inalienabile dignità, del carattere sacro della vita umana e del ruolo centrale della famiglia, dell’importanza dell’istruzione e della libertà di pensiero, di parola, di religione, come pure alla tutela legale degli individui e dei gruppi, alla promozione della solidarietà e del bene comune, al riconoscimento della dignità del lavoro. Tali radici hanno favorito la sottomissione del potere politico alla legge e al rispetto dei diritti della persona e dei popoli. Occorre qui ricordare lo spirito della Grecia antica e della romanità, gli apporti dei popoli celtici, germanici, slavi, ugro-finnici, della cultura ebraica e del mondo islamico. Tuttavia si deve riconoscere che queste ispirazioni hanno storicamente trovato nella tradizione giudeo-cristiana una forza capace di armonizzarle, di consolidarle e di promuoverle. Si tratta di un fatto che non può essere ignorato; al contrario, nel processo della costruzione della « casa comune europea », occorre riconoscere che questo edificio si deve poggiare anche su valori che trovano nella tradizione cristiana la loro piena epifania. Il prenderne atto torna a vantaggio di tutti5Ecclesia in Europa 19..
Il documento di Abu Dhabi sembra andare (virtualmente) nella direzione di un’inedita appropriazione del portato comune da parte di una cultura per certi versi refrattaria alla contaminazione come è quella islamica: il Grande Imam ha sottoscritto in pratica le affermazioni di Manuele II Paleologo citate da Ratzinger a Ratisbona – la violenza e l’irrazionalità sono contrarie alla natura di Dio. Certo, non c’immaginiamo i “lupi solitari” che si riferiscono idealmente all’Isis nel pianificare e perpetrare le loro stragi folgorati dalla lettura di questo documento, ma intanto a tutte le donne e agli uomini desiderosi di vivere in pace è stato offerto uno strumento non indifferente per riuscirci.
La questione europea, tuttavia, permane posta e bruciante: Pierre Manent e Olivier Roy ci aiutano ad addentrarci nelle pieghe di considerazioni a cui forse i manicheismi funzionali a certa politichetta ci avevano disabituati.
di Eugénie Bastié6Pubblicato su Le Figaro online il 6 febbraio 2019 alle 18:24, nonché nell’edizione cartacea di oggi.
Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica la “marca cristiana” delle nazioni europee. Egli pensa che i cattolici possano essere il ponte tra i musulmani e la République. Una riflessione che l’autore aveva brillantemente esposto in Situation de la France (Desclée de Brouwer, 2015).
Da parte sua, nel suo nuovo saggio – L’Europe est-elle chrétienne ? (Seuil) – il ricercatore Olivier Roy, direttore degli studi all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), esamina la delicata questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. Il professore all’Istituto Europeo di Firenze avverte dei pericoli che comporta, a suo avviso, una visione identitaria del cristianesimo.
Eugénie Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa?
Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della Chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario.
Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 1960-1970 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito.
Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.
Due grandi sfide hanno mal conciato la matrice cristiana. I totalitarismi hanno voluto distruggere fino alla radice ogni riferimento alla coscienza personale. Oggi l’esacerbazione dei diritti soggettivi la priva di impiego, mentre priva la polis delle ragioni e dei motivi comuni. La proposta cristiana è davanti a noi, per ciascuno di noi come per le comunità politiche nelle quali cerchiamo il bene comune.
Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 1960. Perché?
O.R.: Fino agli anni 1950, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 1960 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con Humanæ vitæ, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato di “pagana”.
P.M.: È vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. È qualcosa di inedito. Va pure detto che la Chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica. Se i casuisti che Pascal prende di mira trovavano sempre il modo di assolvere i costumi vigenti, la Chiesa nel suo insieme faceva quel che poteva nel duello, ovvero riguardo ai costumi coniugali dell’aristocrazia e perfino dello stesso Gran Re.
O.R.: Certamente la Chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatole domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la Chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “principî non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione. È la posizione di mons. Aupetit, che in un’intervista a Le Monde dichiarava: «Abbiamo vissuto nel passato di altre insicurezze culturali».
Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la Chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione?
P.M.: Col concilio, la Chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’Occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. È questo in particolare il caso dello Stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione.
O.R.: Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.
Sembra difficile – o perlomeno soggettivo – stabilire una differenza tra cristianesimo identitario e “vera fede”… dove sta il punto che divide i due concetti?
O.R.: Per me, il cristianesimo identitario è quello che non prende che i segni… e non i valori. Faccio l’esempio del ministro-presidente della Baviera, che ha deciso di installare dei crocifissi negli edifici pubblici invocando dei simboli culturali. Cosa a cui l’arcivescovo di Monaco ha risposto: «Non si capisce che cosa sia la croce se non la si vede che come simbolo culturale».
Ma la critica non va alla Chiesa, la quale è perfettamente cosciente dei pericoli. Essa riguarda i cristiani che vogliono fare un’alleanza con gli identitari per far avanzare i loro punti di vista su alcuni argomenti. Come ad esempio gli evangelici americani si schierano politicamente con Trump, che non è affatto cristiano, semplicemente perché per loro l’obiettivo è il controllo della Corte suprema, dunque della legge. In Italia al contrario, le comunità cristiane hanno preso posizione contro il governo populista su di un punto: la libertà di esercitare la carità. Non dicono che hanno un programma, non reclamano leggi ma chiedono la libertà di esercitare la carità.
P.M.: L’opposizione fra cristianesimo identitario e fede interiore non mi sembra corrispondere alle domande che si pongono i cristiani “seri”. Per loro la sfida è di riuscire a dispiegare di nuovo, malgrado l’indifferenza e spesso l’ostilità circostanti, l’integralità e l’integrità dell’esperienza cristiana. Donde lo sforzo per ricostruire una liturgia capace di esprimere esattamente il contenuto della fede. Ciò comporta necessariamente una certa riscoperta della tradizione.Quando chiedo che l’Europa faccia spazio alla marca cristiana e che cessi di delegittimare le nazioni è sempre con il medesimo scopo costruttivo: noi non possiamo avere una vita comune soddisfacente se non siamo più capaci di produrre qualcosa di comune a partire da noi stessi. Olivier Roy parla di “risocializzare il nostro sistema di norme”. Io credo che – in un linguaggio differente – questo sia ciò che cerco di dire.
La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta?
P.M.: Francamente, almeno nel nostro Paese i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.
Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica immigratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico.
O.R.: Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.
Olivier Roy, lei accusa la laicità di rigettare il fatto religioso ai margini, cosa che ne lascia il monopolio agli estremisti. La laicità sarebbe dunque controproduttiva?
O.R.: Sì, penso che la laicità del giorno d’oggi sia controproduttiva, e che non sia più quella della legge del 1905. Nella legge del 1905 essa è un principio giuridico molto chiaro. Oggi invece essa serve da pretesto all’interdizione stessa del fatto religioso. Si chiama la gendarmeria quando si scopre un tappeto da preghiera in un armadietto universitario! Quando ci si accorge che sempre più ragazzini alle medie si siedono sulle tavolette dei sanitari [che di per sé andrebbero riservati alle ragazze, N.d.T.] per non rendersi impuri in vista della preghiera, si parla di “radicalizzazione”! La laicità è diventata una politica di sradicamento del fatto religioso.
Gli identitari rispondono che questo atteggiamento dovrebbe riguardare solo l’islam. E in realtà esso si estende a tutti: guardate il caso di François-Xavier Bellamy, è chiaro che gli si rimprovera il fatto di essere cattolico! Dichiara di essere contro l’aborto ma che non ne farà un programma politico: questo non basta, bisogna che si dichiari a favore. In Australia hanno proibito il sigillo sacramentale della confessione in nome della pedofilia. I militanti della laicità non comprendono neanche più il senso del sacro: domandare a un credente di relegare la sua fede nel privato significa non sapere che cos’è la fede! Col pretesto di cacciare il radicalismo, viene in realtà perseguitato lo stesso fatto religioso.
Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905?
P.M.: Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La Chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri principî, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria.
O.R.: L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione.
La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in modalità lubavitch, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione. Io penso che la proposta del governo di passare dalle associazioni culturali alle associazioni cultuali permetterebbe di chiarire le cose. Il rettore Boubakeur vi si è opposto, perché in quanto algerino egli è il tipico rappresentante di quell’islam culturale che vuole conservare dei legami col proprio paese di origine.
Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente…
O.R.: I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipî. I musulmani adorano i presepi – per una volta che si trova una donna velata negli spazi pubblici! [risate]. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam. Si vede una parte della classe media colta che sta “cristianizzando” il proprio islam, cioè lo sta “spiritualizzando”. Ogni integrazione suppone una deculturazione che ha la propria forma patologica (il salafismo) e quella positiva.
P.M.: Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna.
Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. Il cristianesimo, nel suo stesso principio – un principio mai dimenticato anche se qualche volta è stato oscurato – fa appello a una libertà sotto la legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.
Note
↑1 | Ma non si dice che essi siano figli di Dio, né compare nel testo la parola “padre”. |
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↑2 | Ma non si parla di rivelazione, né di ispirazione, né di fede teologale. |
↑3 | Ecclesia in Europa 55. |
↑4 | Ecclesia in Europa 57. |
↑5 | Ecclesia in Europa 19. |
↑6 | Pubblicato su Le Figaro online il 6 febbraio 2019 alle 18:24, nonché nell’edizione cartacea di oggi. |
Mah….io penso che i Cristianesimo ha una storia Sacra….lo penso seriamente.
Grazie.