Ogni anno le memorie liturgiche dell’Ottava di Natale mi ricordano la striscia di sangue che marchia il bianco natalizio (non a caso bianco e rosso sono i colori liturgici dell’ottava, oltre che i colori tradizionali dei pacchi natalizi): Stefano è il protomartire, i santi Innocenti perpetuano nei secoli «il pianto grande di Rachele, che non vuole essere consolata» (cf. Ger 31,15). Thomas Becket fu vescovo martirizzato nel XII secolo mentre ufficiava in cattedrale; Felice fu vescovo in Roma e morì martire sotto Aureliano (anche se storici e agiografi ne discutono); Silvestro morì in tempi di pace con l’Impero, ma patì tanto per la fede che fu tra i primi a ricevere il titolo di “confessore”. Solo Giovanni, l’Evangelista, risulta non essere essere stato martirizzato (unico tra gli apostoli, ma un’altra tradizione lo vuole ustionato in olio bollente e accecato, prima dell’esilio a Efeso). Giusto l’altro ieri Debora Donnini richiamava su news.va una sintesi del rapporto annuale di Aiuto alla Chiesa che Soffre: nel 2018 abbiamo avuto, rispetto al 2017, un’impennata di tremila cristiani assassinati in odium fidei.
Va da sé che il sommerso rappresenta una variabile inestimabile. Del resto anche l’intero dato numerico complessivo – che comunque è giusto e doveroso compilare – non è se non un aspetto della questione. Proprio in questi giorni sono stati scoperti a Sirte in una fossa comune i resti di decine di cristiani etiopi massacrati dai satelliti dell’Isis nell’aprile 2015.
Ieri parlavo con Lucia dell’Ufficio delle Letture del giorno prima, quello di santo Stefano:
– È una pagina scritturistica agghiacciante. Dio si rivela: Stefano contempla i cieli aperti e Gesù alla destra del Padre. Invece di suggerire cosa dire, di opportuno, per salvargli la vita, lo Spirito lo lascia sgomento davanti alla contemplazione di Dio. Qualunque cosa balbetti davanti agli anziani su una simile rivelazione gli costa la vita. Innegabilmente non solo Dio lo lascia morire, ma vuole che muoia, ucciso. […]
– Si tratta di santi ab immemorabili… i miracoli sono al contempo innumerevoli e nessuno.
– Comunque concorderai con me che l’accostamento tra la lettura “lo Spirito vi darà che cosa dovete dire” e Stefano che dice cose per cui viene lapidato, subito dopo una visione, crea una certa inquietudine.
– Mica Gesù ha proposto una polizza assicurativa: ha garantito che ci avrebbe pensato lui.
– Diciamo che gli obiettivi di Dio non sono i nostri e che la salvezza della nostra pellaccia spesso non è tra i suoi.
– Appunto. Anzi, sta scritto nero su bianco: «La grazia di Dio vale più della vita» (Ps 62 [63],4). Neanche una clausola in piccolo.
– Non è che me ne stupisca eh, solo che spesso sussiste un certo equivoco sull’argomento, per cui uno pensa che la difesa dello Spirito salvi la pelle, mentre salva “solo” l’anima. Noi siamo istintivamente proiettati alla difesa del corpo: nei poveri, nei malati, nei drogati, la priorità è curare il corpo. Dio un po’ se ne frega e ci ricorda che il bene che perseguiamo quaggiù, per quanto ideale, edulcorato, rassicurante (e irraggiungibile) non sia in sostanza nemmeno un obiettivo , ma solo un argent de poche della vita: pure gli uccelli han le piume, i fiori i petali, e voi che vi preoccupate per tutte queste cose marginali! «Ti siano perdonati i tuoi peccati e, giusto perché non credete, giacché son qui, alzati e cammina anche». Ma anche no.
E a quel punto richiamai a Lucia quelli che sono forse i versi più tremendi di Manzoni, quell’incompiuto michelangiolesco che si trova ne Il Natale del 1833, scritto con lacrime e sangue davanti a Gesù Bambino mentre allo Scrittore moriva la moglie amatissima:
[…] che siam noi?
Non perdonasti ai tuoi,
non perdonasti a te!
Alessandro Manzoni, Il Natale del 1833
Come si vede, lo scandalo del male è ben lungi dal limitarsi alla sola sofferenza, morale o fisica che sia, finché questa si riduce al male che ciascuno patisce: ogni sé è un essere cosciente e, come titolare di una coscienza morale, non osa dirsi assolutamente innocente. “Che male ho fatto per meritarmi questo?” è più uno sbuffo che una domanda, in senso stretto, e chiunque la dica (se non è completamente estraneo alla pratica dell’esame di coscienza) deve dirla svelto svelto e senza pensarci troppo. Non posso dimenticare come Teresa d’Avila, nei suoi scritti autobiografici, affermi lucidamente che la sua anima aveva «ben meritato l’inferno».
Insomma, diceva bene Nadia Toffa in una recente intervista televisiva:
Sulle prime ti chiedi “perché a me?”; poi ti sorge dentro una domanda più sensata: “perché non a me?”.
E nessuno intenterebbe davvero causa a Dio per i dolori che patisce, piccoli o grandi che siano. I dolori a cui non siamo preparati sono quelli degli altri, in particolare delle persone amate, che volentieri ci prenderemmo sulle nostre spalle. L’unico dolore che supera quello per una moglie o un marito malati è quello per i figli, e più in generale è il dolore dei bambini a provocare uno scandalo che attraversa trasversalmente tutte le fasce della riflessione morale, etica, politica, metafisica, religiosa: dire che “Dio è chiamato in causa” dalle sofferenze dei bambini è adeguato solo se si parla delle malattie. Quando invece è il caso di qualsiasi sorta di violenze e abusi – fisici, psichici, spirituali – la presenza (o la presunta assenza) di Dio sul banco degli imputati si ridimensiona sensibilmente, in quanto le si accompagnano le nostre presenze (e le nostre assenze): le crudeltà contro i bambini ripugnano, nell’uomo, sia quel bellissimo istinto di protezione della prole che è comune a tutti gli animali superiori sia la tremenda consapevolezza di una certa innocenza (esistentiva, se non esistenziale) che nei bambini si presume (ancora) presente in grado considerevole.
Questa consapevolezza è propria della specie umana e rileva dell’esperienza della peccabilità universale: espressioni come “rubare l’innocenza”, “sporcare il candore” e simili dicono dello scandalo (parola evangelica) dato da ogni prisco insorgere del male in superficie.
Il Natale dedica un giorno particolare – questo – a commemorare i “santi Innocenti”: se i superficiali possono impantanarsi nella domanda “come fa la Chiesa a reputare martiri dei bambini inconsapevoli e in più uccisi per un motivo politico e non religioso?”1Scrisse nel V secolo Quodvultdeus, vescovo cartaginese e rifugiato politico a Napoli, ben esperto degli orrori della guerra: «I bambini, senza saperlo, muoiono per Cristo, mentre i genitori piangono i martiri che muoiono. Cristo rende suoi testimoni quelli che non parlano ancora. Colui che era venuto per regnare, regna in questo modo. Il liberatore incomincia già a liberare e il salvatore concede già la sua salvezza.
Ma tu, o Erode, che tutto questo non sai, ti turbi e incrudelisci e mentre macchini ai danni di questo bambino, senza saperlo, già gli rendi omaggio.
O meraviglioso dono della grazia! Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? Non parlano ancora e già confessano Cristo! Non sono ancora capaci di affrontare la lotta, perché non muovono ancora le membra e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria.»., il messaggio che il popolo cristiano intende comunicare nella propria liturgia è (ovviamente) un evangelo. Quello cioè che Dio non è indifferente al dolore innocente, e che anzi ha qualcosa da dire (e da dare, cioè da fare, in merito).
E non si tratta di una soluzione, come è quella che si dà a un problema: data difatti la soluzione il problema è ipso facto dissolto, non esiste più. Quella di Dio è piuttosto una ris-posta, che in quanto tale si dà proprio alla domanda: a differenza di un problema, la domanda non viene dissolta dalla risposta, ma resta aperta (e pure dolorante, all’occorrenza). La differenza è che non è vana, cioè non resta vuota, bensì è resa feconda di senso. Sono cose molto più quotidiane e meno astruse di quanto possa sembrare: ad esempio, il desiderio di cibo fa capo a un problema, e una volta che un affamato abbia mangiato il suo problema non esiste più; il desiderio di essere amati fa capo a una domanda, e quando un amante si sia sentito dire “sì, ti amo” la sua domanda non viene con ciò estinta, ma rafforzata e riempita di senso (nella fattispecie, «croce e delizia al cor»).
Mutatis mutandis, ma restando nell’analogia, la domanda di un amante può restare frustrata per molti motivi intrinseci o estrinseci alla relazione, ma l’assicurazione dell’Amato “sì, ti amo” può continuare ad alimentare la domanda in una ferma speranza. E non si tratta di una speranza a buon mercato, pochi lo hanno scritto bene come Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi:
La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un’immagine di spavento? Io direi: è un’immagine che chiama in causa la responsabilità. Un’immagine, quindi, di quello spavento di cui sant’Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell’amore [35]. Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo « I fratelli Karamazov ». I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. Vorrei a questo punto citare un testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con immagini mitologiche, che però rendono con evidenza inequivocabile la verità, egli dice che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice. Ora non conta più ciò che esse erano una volta nella storia, ma solo ciò che sono in verità. « Ora [il giudice] ha davanti a sé forse l’anima di un […] re o dominatore e non vede niente di sano in essa. La trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da spergiuro ed ingiustizia […] e tutto è storto, pieno di menzogna e superbia, e niente è dritto, perché essa è cresciuta senza verità. Ed egli vede come l’anima, a causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell’agire, è caricata di smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirà le punizioni meritate […] A volte, però, egli vede davanti a sé un’anima diversa, una che ha fatto una vita pia e sincera […], se ne compiace e la manda senz’altro alle isole dei beati » [36]. Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l’immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall’opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell’altro, dell’incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora.
Spe salvi 44
«I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non sederanno indistintamente accanto alle vittime, come se nulla fosse stato». Un’affermazione grandiosa su cui avrei tanto voluto che l’allora Papa si fosse soffuso un po’ di più. Interroghiamo allora il Russo, che in un paio delle mille immortali pagine de I fratelli Karamazov affronta il tema del banchetto escatologico proprio in relazione alla crudeltà luciferina che gli uomini sanno esercitare sui bambini.
Nella seconda parte del romanzo, al IV capitolo del libro V, Ivan racconta al fratello minore Alëša «una cosa accaduta ai tempi piú oscuri della servitú della gleba, appena agl’inizi del secolo» – il XIX, naturalmente.
C’era allora, agl’inizi dell’Ottocento, un generale, un generale di vaste aderenze e ricchissimo latifondista, ma sai, di quelli (come anche allora, è vero, sembra non ce ne fossero molti), che ritirandosi dal servizio a riposo, avevano quasi la convinzione di essersi guadagnati diritto di vita e di morte sui loro sudditi. Tipi cosí, allora, ce n’era. Orbene, se ne stava questo generale nel suo possedimento di duemila anime, e faceva il padreterno, trattando i modesti vicini come suoi parassiti e buffoni. Ai canili, centinaia di bestie e un centinaio di canottieri, tutti in divisa, tutti a cavallo. Quand’ecco che un ragazzo della sua servitú, un ragazzetto di otto anni al massimo, tira, così giocando, un sasso, e rovina la zampa al levriero preferito del generale. «Come mai il cane mio preferito s’è azzoppato?». Gli vanno a portare che ecco, proprio quel ragazzo là gli ha tirato un sasso e gli ha rovinata la zampa. «Ah, sei stato tu?» lo squadrò il generale. «Pigliatelo!». Lo pigliarono, lo pigliarono d’in braccio alla madre, e tutta notte lo lasciarono chiuso in catorbia: al mattino, appena giorno, esce fuori il generale, parato di tutto punto per la caccia, e monta a cavallo, circondato dai parassiti, dai cani, dai canettieri, dai cacciatori, tutti a cavallo. Intorno era stata radunata, per assistere all’esempio, la servitú, e innanzi a tutti la madre del ragazzo colpevole. Portan fuori di catorbia il ragazzo. Era una fosca, fredda, nebbiosa giornata d’autunno, di quelle famose per la caccia. Il generale ordina che il ragazzo sia spogliato, e il bambino viene spogliato nudo: trema tutto, è fuori di sé dal terrore, non osa mandare un lamento… «Cacciatelo innanzi!», comanda il generale. «Corri, corri!», gli gridano i panettieri: e il ragazzo si mette a correre… «Atú, acciappalo!», grida il generale, e gli lancia dietro tutto lo squadrone dei cani da presa. Lo fece raggiungere sotto gli occhi della madre, e i cani sbranarono il bambino a pezzi… Pare che il generale fosse interdetto. Ebbene… che si sarebbe dovuto farne? Fucilarlo? Per soddisfare il senso morale, si sarebbe dovuto fucilarlo? Parla, piccolo Alëša.
Il fratello minore resta profondamente scosso dal racconto e chiede al maggiore perché si diverta a torturarlo così. Ivan allora riprende:
Stammi a sentire: ho preso i bambini soli, perché la cosa riuscisse più evidente. Dell’altre lacrime umane, di cui è imbevuta la terra intera, dalla scorza fino al centro non dirò nulla: io sono una cimice, e lo riconosco con la massima umiltà che non posso intendere un bel nulla delle ragioni per cui il mondo è composto così. Si vede che gli stessi esseri umani ne avranno colpa: gli era stato dato il paradiso, loro hanno voluto la libertà e hanno rapito il fuoco al cielo, pur sapendo che sarebbero stati infelici: non è dunque il caso di averne pietà. Io so, con la mia miserabile, terrestre intelligenza euclidea, che la sofferenza c’è, che tutto scorre via e viene a controbilanciarsi: quel che occorre, a me, è una sanzione suprema che sia non già nell’infinito, indeterminata nel luogo e nel tempo, ma proprio qui, su questa terra, e che la veda io coi miei occhi. Io ho avuto fede, e io voglio vedere cogli occhi miei: e se a quel tempo sarò morto, ebbene, che mi si faccia risuscitare perché se tutto si svolgesse senza che io fossi presente, sarebbe un’offesa troppo grossa. Per ben altro ho sofferto io, che per servir di stabbio con la mia persona, colle mie malefatte e le mie sofferenze, a non so quale armonia futura.Io voglio vedere cogli occhi miei il cerbiatto giacere a fianco del leone, e il trucidato alzarsi e abbracciare colui che lo ha ucciso. Io voglio trovarmi lì, quando tutti, d’improvviso, verranno a capire perché il mondo sia stato tale qual è. È questo il desiderio su cui si fondano tutte le religioni della terra, e io, dal canto mio, ho fede. Ma ecco, da quest’altra parte, i piccoli bambini: che cosa farò di costoro, allora? Questo è un problema che io non riesco a risolvere. Per la centesima volta torno a ripetere: di questioni ce n’è un’infinità, ma io ho preso in considerazione i bambini soli, perché qui spicca con palmare chiarezza ciò che volevo dire. Ascolta: posto che tutti si debba soffrire, per comperare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano però i bambini, me lo dici tu, per favore? È assolutamente incomprensibile perché debbano soffrire anch’essi. La solidarietà nel peccato, fra gli umani, io la comprendo ma non già la solidarietà, nel peccato, con i bambini: debbo rispondere che una verità come questa non è di questo mondo, e io non la posso comprendere. Un burlone potrebbe dire che già, prima o poi, il bambino si farà grande e avrà campo di peccare: ma qui abbiamo innanzi il caso che non s’è fatto grande: d’otto anni lo hanno fatto sbranare dai cani! Oh, Alëša, non è ch’io bestemmi! Comprendo bene quale dovrà essere il fremito della creazione quando ogni cosa nei cieli e sotto terra fonderà insieme in un unico grido di osanna, e tutto ciò che vive e che ha vissuto proromperà: «Giusto sei Tu, o Signore, dacché si sono svelate le Tue vie!» Certo, quando la madre s’abbraccerà con l’aguzzino che ha fatto sbranar dai cani il figlio suo, e tutt’e tre inneggeranno fra le lacrime: «Giusto sei Tu, o Signore», allora senza dubbio si toccherà l’apice della conoscenza, e tutto sarà chiarito. Ma appunto qui è l’inciampo, appunto questo non posso accettare. Vedi, Alëša, può anche darsi che effettivamente vada così, e se resusciterò per vederlo, allora anch’io, magari, proromperò con tutti gli altri, alla vista di quella madre abbracciata al carnefice del suo piccino: «Giusto sei Tu, o Signore»; ma io non voglio prorompere a questo modo. Finché sono ancora in tempo, mi affretto a premunir me stesso, e perciò, a questa suprema armonia, oppongo un netto rifiuto. Non vale, essa, le povere lacrime foss’anche di quel solo bambino straziato. Non vale, perché queste piccole lacrime rimarranno irriscattate. Dovrebbero essere riscattate, altrimenti non potrebbe sussistere l’armonia. Ma in che nodo, in che modo vorresti mai riscattarle? Ti pare una cosa possibile? Forse col dire che saranno vendicate? Ma che me ne faccio della vendetta, che me ne faccio dell’inferno per i tormentatori: cosa può rimediare, qui, l’inferno, se quelli, ormai, li hanno patiti i tormenti? E poi, che bella armonia, se ci sarà l’inferno! Perdonare voglio io, abbracciare voglio: non voglio già che si soffra dell’altro. E se le sofferenze dei bambini fossero destinate a completare quella somma di sofferenza, che era il prezzo necessario per l’acquisto della verità, in tal caso io dichiaro fin d’ora che tutta la verità non vale un tal prezzo. Io non voglio che la madre s’abbracci col carnefice che ha fatto sbranare suo figlio dai cani! Essa non deve osare di perdonargli! Se le pare perdoni pure al carnefice la propria immensa sofferenza materna: ma le sofferenze del suo bambino essa non ha il diritto di perdonarle seppure il bambino stesso le perdonasse a costui! Non voglio l’armonia: per amore stesso dell’umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato d’invendicata sofferenza e d’implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto. Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l’armonia: non è davvero per le tasche nostre, pagar tanto d’ingresso. Quindi, il mio biglietto d’ingresso, io m’affretto a restituirlo. E se appena appena sono una persona onesta, ho l’obbligo di restituirlo il più presto possibile. E così faccio appunto. Non è che non accetti Dio, Alëša: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto.
Una domanda immensa, questa di Ivan Karamazov, cui ogni teologo dovrebbe avere il pudore di non opporre una rispostina preconfezionata – magari con molta teoria e poca ortografia. Tutto ciò che la teologia cristiana ha da proporre di fronte al mistero del dolore innocente – l’immensa risposta della vera fede alla divorante domanda dell’uomo roso dal male – questa pagina lo compendia: spingersi oltre sconfina istantaneamente nell’imprudenza e nella stessa empietà (cf. Iob 42,7).
Accanto però al testo del Russo me ne sovviene uno di un altro Africano, anche lui figlio spirituale di Agostino (benché questo, a differenza di Quodvultdeus, non l’avesse conosciuto in vita): Fulgenzio fu pure lui vescovo, pure lui patì la persecuzione e l’esilio, e commentando lo scandaloso racconto lucano della lapidazione di Stefano, negli Atti degli Apostoli, dove si annota senza peli sulla lingua che il giovane e zelante Saulo ebbe una parte attiva in quell’omicidio, il vescovo di Ruspe disse:
Il nostro Re, l’Altissimo, venne per noi umile, ma non poté venire a mani vuote; infatti portò un grande dono ai suoi soldati, con cui non solo li arricchì abbondantemente, ma nello stesso tempo li ha rinvigoriti perché combattessero con forza invitta. Portò il dono della carità, che conduce gli uomini alla comunione con Dio.
Quel che ha portato, lo ha distribuito, senza subire menomazioni; arricchì invece mirabilmente la miseria dei suoi fedeli, ed egli rimase pieno di tesori inesauribili.
La carità, dunque, che fece scendere Cristo dal cielo sulla terra, innalzò Stefano dalla terra al cielo. La carità che fu prima nel Re, rifulse poi nel soldato.
Stefano quindi per meritare la corona che il suo nome significa, aveva per armi la carità e con essa vinceva dovunque. Per mezzo della carità non cedette ai Giudei che infierivano contro di lui; per la carità verso il prossimo pregò per quanti lo lapidavano. Con la carità confutava gli erranti perché si ravvedessero; con la carità pregava per i lapidatori perché non fossero puniti.
Sostenuto dalla forza della carità vinse Saulo che infieriva crudelmente, e meritò di avere compagno in cielo colui che ebbe in terra persecutore.
La stessa carità santa e instancabile desiderava di conquistare con la preghiera coloro che non poté convertire con le parole.
Ed ecco che ora Paolo è felice con Stefano, con Stefano gode della gloria di Cristo, con Stefano esulta, con Stefano regna. Dove Stefano, ucciso dalle pietre di Paolo, lo ha preceduto, là Paolo lo ha seguito per le preghiere di Stefano.
Quanto è verace quella vita, fratelli, dove Paolo non resta confuso per l’uccisione di Stefano, ma Stefano si rallegra della compagnia di Paolo, perché la carità esulta in tutt’e due. Sì, la carità di Stefano ha superato la crudeltà dei Giudei, la carità di Paolo ha coperto la moltitudine dei peccati, per la carità entrambi hanno meritato di possedere insieme il regno dei cieli.
La carità dunque è la sorgente e l’origine di tutti i beni, ottima difesa, via che conduce al cielo. Colui che cammina nella carità non può errare, né aver timore. Essa guida, essa protegge, essa fa arrivare al termine.
Perciò, fratelli, poiché Cristo ci ha dato la scala della carità, per mezzo della quale ogni cristiano può giungere al cielo, conservate vigorosamente integra la carità, dimostratevela a vicenda e crescete continuamente in essa.
Fulgenzio, Disc. 3, 1-3. 5-6; CCL 91 A, 905-909
Tutto questo non contraddice il Karamazov di Dostoëvskij, dacché anzi è proprio ciò che Ivan intimamente vuole credere e sperare. Com’è possibile però ammetterlo riguardo al dolore dei bambini? Dei feti abortiti (spesso da persone che girano mezzo mondo per sfamare ragazzini sconosciuti in angoli sperduti); dei bimbi malnutriti (spesso nell’indifferenza cinica dei pro-life di mezzo mondo per i quali la vita umana sembra svalutarsi oltre le sponde del sedile da parto); dei ragazzi violentati da ecclesiastici e religiosi e delle bambine di nessuno stuprate a pagamento da quelli che a casa loro tuonano contro i “preti pedofili”… chi renderà conto della crudeltà degli adulti contro queste creature, che sono altrettante grazie offerte da Dio al mondo?
La risposta la offre proprio Giovanni – uno dei due forse-non-martiri dell’Ottava di Natale – che dedica la seconda parte del primo capitolo del suo Vangelo a descrivere l’apparizione dell’«Agnello di Dio: ecco colui che prende su di sé il peccato del mondo» (Gv 1,29). Così dice il Battista, così riporta l’Evangelista, ma cosa significa questo? Hans Urs Von Balthasar scrisse molto sull’anodina sintassi di Apoc 13,8, che può leggersi in due modi distinti:
L’adorarono tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello immolato2Ad esempio CEI..
E l’adoreranno tutti gli abitanti della terra, i cui nomi non sono scritti nel libro della vita dell’Agnello, che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo3Ad esempio Diodati..
Certamente è luminosa, sul piano teologico, l’affermazione per la quale l’Agnello di Dio sarebbe stato «immolato fin dalla fondazione del mondo», in un’unica oblazione – «hostiam puram, hostiam sanctam, hostiam immaculatam», come si professa in ogni Messa. Ma come fa una persona adulta – uno di quelli che ha ormai superato l’età infantile e si trova con la coscienza esposta all’insostenibile domanda di Ivan Karamazov –; come fa a essere sicuro di non mangiare e non bere la propria condanna (1Cor 11,29), mentre si comunica al corpo e al sangue dell’Agnello «senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19).
Se ne occupa l’Agnello stesso, come dicevamo con Lucia: quell’Agnello di cui già Abramo disse al Figlio: «Dio stesso provvederà» (Gen 22,8). E come provvede, l’Agnello? Cristo lo spiegò ad Anania con trasparenza cristallina:
Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome.
At 9,15-16
Quella di Gesù non è una vendetta nei confronti di Saulo, una ritorsione per le persecuzioni: al contrario, è la soluzione – stavolta sì! – al problema di Paolo, cioè che egli non può sedersi a mensa con le sue vittime, come giustamente osserva Ivan Karamazov. L’Agnello assume su di sé il peccato del mondo prendendo il posto dell’ultima delle vittime della storia e identificando con sé ogni bambino di ogni tempo. Per questo l’esperienza cristiana porta Paolo a dire
Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
1Cor 15,8-10
E ai Galati avrebbe poi scritto le audaci parole:
Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.
Gal 2,20
Solo così – unicamente a questo prezzo – si può arrivare all’enunciato della Lettera ai Romani senza che suoni un vuoto esercizio retorico:
Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia.
Rom 11,32
Il prezzo è la conformazione all’«Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo», cioè il sapersi (e il viversi) misticamente corresponsabili di tutto il male della storia. Incluso quello sui bambini. Per questo Gesù diceva a chi lo ascoltava: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono» (Lc 11,13). Nessuno di noi ha mai fatto sbranare un bambino da una squadra di cani da caccia, ma a differenza di Ivan Karamazov Cristo solidarizza con la responsabilità del generale e subisce ciò che quello ha meritato. Questa espiazione non è di per sé sufficiente a giustificare il generale, ma riapre perfino a lui una possibilità: diventare vittima così come era stato carnefice e «lasciarsi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
Ecco la sconfinata rivoluzione del cristianesimo, che malgrado tutto non è mai diventato “la religione delle vittime”, una sorta di sindacato dei Miserabili: la missione storica del cristianesimo è la riconciliazione assoluta. Per questo si celebrano gli Innocenti nell’Ottava di Natale: in loro Cristo dice a tutti “Io vi mostrerò quanto dovrete soffrire” – per potervi sedere tutti al banchetto escatologico.
Accogliamo nel Bambino Gesù l’amore di Dio e impegniamoci a rendere il nostro mondo più umano, più degno dei bambini di oggi e di domani.
— Papa Francesco (@Pontifex_it) December 28, 2018
Note
↑1 | Scrisse nel V secolo Quodvultdeus, vescovo cartaginese e rifugiato politico a Napoli, ben esperto degli orrori della guerra: «I bambini, senza saperlo, muoiono per Cristo, mentre i genitori piangono i martiri che muoiono. Cristo rende suoi testimoni quelli che non parlano ancora. Colui che era venuto per regnare, regna in questo modo. Il liberatore incomincia già a liberare e il salvatore concede già la sua salvezza. Ma tu, o Erode, che tutto questo non sai, ti turbi e incrudelisci e mentre macchini ai danni di questo bambino, senza saperlo, già gli rendi omaggio. O meraviglioso dono della grazia! Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? Non parlano ancora e già confessano Cristo! Non sono ancora capaci di affrontare la lotta, perché non muovono ancora le membra e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria.». |
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↑2 | Ad esempio CEI. |
↑3 | Ad esempio Diodati. |
↑4 | Battesimo di Paolo, Cappella Palatina, Palermo 1140. |
Salve!
Scusate l’ennesima intrusione. Mi è molto piaciuto questo vostro articolo anche se a me i karamazof hanno sempre fatto ribrezzo (perché qualcuno volle impormeli a forza)… Ho dovuto leggere l’articolo più volte perché non ho afferrato subito alcuni passaggi, ero in sala d’attesa al PS con il mio cuore ballerino (poi risolto come al solito con un cocktail di farmaci anti-aritmia) e con il telefonino non avevo il “respiro” di lettura che si ha con lo schermo del PC per cui l’ho riletto a casa. Di nuovo rinnovo i miei complimenti ed il mio gradimento per l’articolo che mi ha dato un nuovo punto id vista. La parte di Quodvultdeus l’avevo già letta nelle letture del mattino ma in effetti voi l’avete incorniciata molto meglio di quello che avrei mai potuto fare io in mille mie meditazioni. Bravi! L’unica cosa che io personalmente avrei interpretato un po’ diversamente è la parte sulla visione di Santo Stefano… secondo la mia personale intepretazione quella parte del testo non segue per forza un ordine cronologico e semplicemente pensando a questo si potrebbe leggere con gli eventi ribaltati cioè Stefano che perdona i suoi assassini eppoi vede la grazia di Dio a conferma della strada che sta iniziando proprio in quel momento. Lo stesso penso si possa dire anche ammettendo l’ordine cronologico esatto: la visione non ha lo scopo di un intervento immediato nel momento stesso ma semplicemente, anzi grandiosamente, per mostrare a Stefano il suo immediato futuro quasi a garanzia di quello che Dio sa già che Stefano farà e dirà subito dopo e che grazie a tale sua erpressione di grandiosa carità la Carità divina è pronta ad accoglierlo in tutta la propria Maestà! Beh! io ho sempre pensato che se fossi nella prova (e un po’ lo sono stato quando mi hanno diagnosticato un cancro maligno al III stadio per fortuna al momento quasi risolto) la cosa che mi aiuterebbe di più, come credente, è proprio la visione del mio futuro, che mi si aprisse una finestra sul mondo Celeste! Ecco in buona sostanza la mia personale, piccola e terra-terra, intepretazione della visione di Santo Stefano altro non è che una conferma valida per tututti i futuri credenti, della porta dei Cieli che si apre al momento giusto e magari anche si mostra in un qualche anticipo per portare subito non un aiuto nell’immediaot ma la estrema consolazione del futuro Celeste!
Saluti.
RA
Buonanotte. A me pare che sia opinione abbastanza condivisa, tra gli esegeti di tutte le epoche, che la visione di Stefano si riferisca a Dan 7,13-14:
Stefano vede insomma il senso escatologico di tutta la storia, dopo aver ricapitolato i mirabilia Dei dell’economia salvifica, e lo vede nell’identificazione di Gesù col misterioso personaggio apocalittico di Daniele.
Quanto alla scansione dei fatti, la morte di Stefano ricalca quella di Gesù e quella di Abele – il sangue cristiano «parla meglio di quello di Abele» (Heb. 12,24) – quindi non vedo motivi per dubitare del fatto che il perdono arrivi come ultimo atto.
Ciò detto tutto quanto dice sulla visione che ci conforta nella buona disposizione è senza dubbio vero e sacrosanto. Molti augurî per i suoi problemi di salute. La Madonna l’accompagni.
Ho letto con attenzione, forse lo dovrei leggerlo ancora in tanto lo salvo sul mio pc, Mi viene in mette dopo la lettura che tutto concorre al bene, sia la vita di San Stefano che di Saul…..cosi è per ogni uno di noi nella storia della nostra vita. Sia il male come il bene. Nulla è un caso, ma ha grande significato, anche se ci vuole una vita per comprendere un po,…. …almeno la penso cosi, se no nulla più avrebbe senso.
Tutta la Storia si Salvezza è un discendere, e salire……Tutto è grazia peccatori come sono, ma voglia, desiderio di verità, che è vita.
Grazie per questo testo molto chiaro.
Voglio aggiungere un mio pensiero….non so se è giusto ma meditando mi è venuto di pensare questo…se sbaglio vi prego scrivetemelo grazie.
Nel mondo succede di tutto e di più, e mi chiedo, ma se il Signore lo permette ci sarà un perché. Forse che attraverso prove buone o male ti rende vittima per partecipazione alla Sua Croce, quante volte prendi decisione, che alla fine non è proprio quello che vuoi. eppure accade…….e dopo certo le domande arrivano ….perché questo peccato c’è l’hai sempre dinanzi, ed ti umilia molto, vorresti non essere mai nati. Perché indietro non si torna.
Gradirei una risposta….Grazie e buon anno 2019. Pace e bene.
Buonanotte, Marierose, e grazie dell’attenzione.
Per quel poco che conta il mio parere, penso che la sua intuizione colga nel giusto. Se chiamiamo la Croce “unica speranza” non lo facciamo per sentimentalismo romantico, ma perché agli uomini è impossibile qualunque altra via di giustificazione. Così pure, mi pare, Paolo scrive ai Romani:
Il lato “brutto” di questo asserto è che noi già facciamo fatica a confessare i nostri peccati… figurarsi addossarsi quelli degli altri. Ma “essere resi vittima per la partecipazione alla Sua Croce”, come lei correttamente scrive, significa appunto questo: «portare i pesi gli uni degli altri» (Gal. 6,2). Una rivoluzione copernicana: rinunciare a farsi giustizia da sé (anche in quel sottile modo che è il “ritenersi migliori”, perfino senza ammetterlo), accettare per amore di Cristo tutte le umiliazioni – soprattutto quelle che ci umiliano di più e che non avremmo mai scelto, quelle che più ci feriscono nell’orgoglio. Quelle che ci spogliano e che Cristo sfrutta come occasioni per offrirsi nudo a noi nudi.
Veramente Stefano rimanga sgomento difronte ai “cieli aperti”?
O questa visione contemplazione è il suggello (e la forza) per lui di accettare e compiere la Volontà del Padre.
Le parole suggerite dallo Spirito peraltro erano già state pronunciate e furono tutt’altro che un balbettio:
«Fratelli e padri, ascoltate: I nostri padri avevano nel deserto la tenda della testimonianza, come aveva ordinato colui che disse a Mosè di costruirla secondo il modello che aveva visto (Es 25,40). E dopo averla ricevuta, i nostri padri con Giosuè se la portarono con sé nella conquista dei popoli (Gs 3,14-17) che Dio scacciò davanti a loro, fino ai tempi di Davide. Questi trovò grazia innanzi a Dio e domandò di poter trovare una dimora per il Dio di Giacobbe (Sal 131,5; 1Re 8,17); Salomone poi gli edificò una casa (2Sam 7,13; 1Re 6,2). Ma l’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo, come dice il Profeta: Il cielo è il mio trono | e la terra sgabello per i miei piedi. | Quale casa potrete edificarmi, dice il Signore, | o quale sarà il luogo del mio riposo? | Non forse la mia mano ha creato tutte queste cose? (Is 66,1-2).
O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo (cfr. Es 32,9; Is 63,10; Mt 23,34; 2 Cr 30,7; 36,14); come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata».
Dio “voleva” che Stefano morisse o il libero arbitrio dei carnefici è stato esercitato e pure da quella morte è quell’ingiustizia Dio ha saputo (e già sapeva) trarre maggior bene?
Davvero Dio “se ne frega” (gran brutta frase ad effetto) della nostra “pellaccia”, giacché al come è al quando non di rado è legato il destino dell’anima eterna a cui questa “pellaccia” a tempo debito verrà associata…
Buonanotte e grazie per il commento.
Mi offre l’occasione per una precisazione: le frasi di quella conversazione – attribuite a me o alla mia interlocutrice – sono estrapolate da un contesto dialogico e di fiducia amicale, e anche nella maieutica socratica le proposizioni procedono per un incedere fatto di eccessi e correzioni di tiro; ma di quelle stesse frasi, pubblicate sul mio blog, mi assumo personalmente la responsabilità teologica – dogmatica e spirituale.
La teodicea non si è mai giovata dei peli sulla lingua: “διδάσκαλε οὖ μέλει σοί ὄτι ἀπολλύμεθα;” (Mc. 4,38) si può tradurre “Maestro, non t’importa che moriamo?” o anche – il contesto di estrema concitazione e di imminente e grave pericolo di vita lo ammette – “Maestro, non te ne frega niente se crepiamo?”. E si potrebbero fare molti altri esempi di “linguaggio ruvido” tra Dio e gli uomini di Dio: si ricordi anche solo Ger. 20,7, dove “פִּתִּיתַ֤נִי יְהוָה֙ וָֽאֶפָּ֔ת” usa una forma verbale letteralmente attigua allo stupro. Sono confidenze che l’Eterno ammette e anzi tutela, come rivela l’epilogo del libro di Giobbe a cui ho pure fatto riferimento. Il che non significa certo che l’irriverenza sia la via della lode, ma il libro dei Salmi – nel quale «Dio stesso si è lodato per mostrarci come lodarlo» – contempla molti registri, tra i quali non mancano certo quelli “sopra le righe”. Lo so, negli ultimi decenni ci siamo disabituati a questo linguaggio, ma si tratta di una licenza molto recente che personalmente spero venga presto revocata: non difenderemo meglio Dio “moderando i termini” semplicemente perché non lo conosceremo meglio censurando i moti del nostro cuore.
Per il resto è tutto vero ciò che hai detto sul libero arbitrio e sulla grazia (quanto ad anima e corpo, invece, la Bibbia se ne occupa marginalmente, ma certamente le cose stanno come hai detto). Il che non toglie che sia teologicamente sensato dire – riguardo alla prescienza di Dio e alla disposizione dei fatti storici – che in un certo senso Dio li “voglia”. Altrimenti anche la preghiera nel Getsemani – insieme a molto altro – perderebbe significato.
Senza scomodare tante dotte e certamente corrette citazioni, si può certo dire che se veramente consideriamo Dio come nostro Padre, con Lui possiamo permetterci anche ogni “ruvida confidenza”, qualche eccesso giustificato dal grave momento e dai moti anche scomposti del nostro cuore che Egli ben conosce, ma ciò rimane nel personalissimo rapporto a “tu per Tu”.
In un contesto come questo, dove la connotazione pedagogica è istruttiva è evidente e io stesso non nego affatto, dove ogni tipo di lettore può avvicinarsi ed “abbeverarsi”, frasi come quella in oggetto, posso essere fuorvianti e inutilmente “abrasive”, data la ruvidità (a meno che non siano dottamente motivate, se non nuoce allo scorrere dell’intero testo).
Ma questa è solo la mia personale opinione.
Grazie per la risposta e Buona Domenica.
In un dialogo-rapporto a “tu per Tu” anche decisamente evoluto su piano della fede, aggiungerei…
Diversamente rimane semplice imprecazioni o mormorazione.
Accolgo l’osservazione ma insisto nel respingere l’insinuazione che si possa trattare di mormorazione o altro: l’unico responsabile della decontestualizzazione del dialogo sono io, e ho agito pensando per il meglio. Certamente potendo sbagliare.
Buona domenica.
Forse mi sono male espresso.
Non ho affatto insinuato si potesse trattare di mormorazione nel contesto qui presentato.
Il mio commento “postilla” era di carattere del tutto generale. Considerazione sui diversi atteggiamenti del cuore che possono sottendere alle medesime esternazioni.
Saluti.