Oggi parlavo col mio amico Luca Marelli1Qui il sito dell’associazione “Puri di cuore”. e il discorso ha sfiorato la velleità intellettualistica che ciclicamente rigurgita dal mondo della pornografia: ho scoperto che su Sky mandano in onda una miniserie dedicata a Moana (e vedo ora che è stata realizzata addirittura nel 2009!), in Italia ci si scopre innamorati di Rocco e lo si invita in qualità di opinionista come ai tempi andati ci si scoprì pazzi di Ilona (che grazie a Pannella rimediò pure un posto nel Palazzo). Qualche giorno fa una di queste sventurate concionò da un palco:
Lo sconfinamento del porno nello spazio comune è fortemente contrastato. Fra i suoi nemici ci sono le femministe e i cattolici, gli islamici e gli intellettuali, sia atei che conservatori… Perché un bambino non dovrebbe vedere un amplesso su uno schermo gigante, a Piccadilly Circus a Londra o a piazza del Popolo a Roma? In un mondo illuminista e ateo dove sarebbe il problema?
La risposta a questa signorina a fine carriera (che comprensibilmente cerca di riciclarsi) l’hanno data i miei amici Paola Belletti su Aleteia e Antonio Morra su La Croce. Il “problema” di quest’ultimo, evidentemente, è che si tratta di un uomo: il “problema” dell’altra che “non è del mestiere” – e anzi è perfino cattolica!
Per questo ho voluto aggiungere alle loro voci quella di una ex collega di Valentina Nappi, di cui su queste pagine ho già raccontato altri lavori. Ora di seguito propongo la traduzione di una sua intervista per il numero speciale de L’Obs dedicato alla pornografia. Come già per À quoi rêvent les jeunes filles ? e Pornocratie… non condivido diversi dei suoi argomenti, che però giudico come il residuo di un portato culturale (e di vita) pluridecennale. Le osservazioni di Ovidie, però, come pure certe sue ammissioni che alle mie orecchie suonano un po’ naïves, prendono gradualmente il sapore dell’onestà. Sarebbe già tanto se certe figurine della trista commedia potessero lasciarsi interrogare da quelle stesse domande critiche.
di Marie Vaton2Pubblicato nel fuori-serie de L’Obs, “l’Ere du porno”.
Le femministe “pro-sesso” sognavano di fare del porno uno spazio di libertà. Vent’anni dopo, un’industria più blindata che mai impone i propri codici a un pubblico allargato. La regista Ovidie, che è passata dietro la telecamera dopo aver cominciato la propria carriera come attrice, s’interroga sull’impatto che il porno ha ottenuto sulle nostre vite intime, a cominciare da quelle dei più giovani. Intervista
Il suo documentario “Pornocratie”, diffuso nel 2017, è un’inchiesta – raccontata a mo’ di thriller – sulle derive del porno etero. Vi si scopre che l’industria del porno è dominata da una multinazionale tentacolare diretta dai “tecnocrati del clic”, arroccata in paradisi fiscali e sfuggente a ogni controllo. In questo contesto, il porno femminista è ancora di attualità?
Alla fine degli anni 1990, quando mi sono lanciata nella realizzazione di porno femministi, c’era una vera nicchia da occupare. In Francia, il discorso delle femministe “pro-sesso” era ancora inaudito perché il dibattito era all’epoca monopolizzato dalle Chiennes de Garde [lett., Cagne da guardia], molto radicali e abolizioniste sulle questioni della pornografia e della prostituzione. Per contribuire alla riflessione sull’appropriazione della sessualità femminile da parte delle donne, mi sembrò necessario proporre qualcosa in accordo con le mie convinzioni militanti femministe. Negli Stati Uniti alcune pioniere come Candida Royalle e Annie Sprinkle avevano inaugurato il movimento; in Europa non c’era gran cosa a parte il regista danese Lars von Trier e la sua società di produzione Puzzy Power. Allora mi sono lanciata nella nicchia con l’ambizione di far evolvere poco a poco i codici della pornografia.
Però vent’anni più tardi l’industria non è più la stessa, e mi sembra difficile per non dire impossibile sperare di cambiare checchessia. Penso che il porno femminista sia votato a restare nei margini di una controcultura interessante e necessaria, ma purtroppo minoritaria, a fronte dell’ondata dell’ideologia porno dominante.
Nel frattempo abbiamo assistito alla comparsa dei “tubes” gratuiti del porno (YouPorn, Redtube, Pornhub eccetera), che hanno divorato il settore.
Prima, “consumare” del porno si meritava. Senza spingerci fino a parlare di sacralizzazione, c’era una certa ritualizzazione. Si comprava la rivista in edicola, la videocassetta in un negozio specializzato, si aspettava il film su Canal + il sabato sera. Si accettava questa nozione di sforzo, si era pronti a pagare. I produttori avevano compreso che, per sedurre, bisognava offrire qualità: belle attrici, belle immagini, belle inquadrature. Ma nel 2006-2007, all’arrivo online dei tubes, tutto è cambiato. Nessuno aveva più voglia di pagare per la piccola sodomia del sabato sera di cui si trovava l’equivalente gratuito su YouPorn. Per sopravvivere a questa concorrenza, i produttori detti “classici” si sono rivolti a quello che non si trovava ancora sui tubes: pratiche inattuali come le “doppie” penetrazioni, le “triple” eccetera. Il sesso estremo si è poco a poco banalizzato. E la pornografia è divenuta una “cultura”, presente nella pubblicità, nella moda, nel rap, nei video, e anche tra i candidati e le candidate ai reality, di cui spesso ci si chiede se non siano pornodivi. Ciò che conta non è più la qualità ma il traffico che si genera. Ora, per poter rinnovare e diversificare incessantemente quest’offerta, ci vogliono delle ragazze – sempre più ragazze – carne da cannone agli occhi dei finanzieri che s’interessano solo ai clic e che non capiscono niente del mestiere. Delle ragazze i cui proventi sono stati dimezzati in dieci anni e a cui si impongono delle pratiche sempre più estreme. Ci si domanda fino a dove bisognerà spingersi prima che la cosa finisca. Aspettiamo che qualche attrice muoia, perché ci preoccupiamo?
Che cos’è oggi il porno?
È una macchina infernale e tentacolare divenuta incontrollabile. Per i due anni che mi ci sono voluti per condurre in porto quell’inchiesta ho capito poco a poco che sarebbe difficile cambiare le cose. Siamo invasi dalla cultura porno dominante, fallocentrica, che si focalizza sul piacere dell’uomo e sul coito, come se questa fosse la sola forma possibile di rapporto sessuale. La coreografia è sempre pressappoco la stessa, con le medesime pratiche centrate sulla fellatio, poi la penetrazione – digitale, vaginale, anale – e l’eiaculazione maschile che chiude la sequenza. Tutto è codificato in questa maniera, con delle varianti di intensità, di brutalità o di estetizzazione che dovrebbero apportare un tocco di “diversità”. In realtà, la produzione mainstream attuale è conservatrice, piuttosto omofoba: la rappresentazione bisessuale maschile è quasi inesistente; ogni sessualità, che sia femminile o maschile, è sempre calcata sul modello eterosessuale classico con un rapporto dominante-dominato. Si potrà notare che, anche nelle scene saffiche, le attrici guardano la telecamera – il che fa intervenire un terzo sguardo, quello del voyeur, che si presume maschio.
Un altro sguardo è ancora possibile? Si possono spezzare i “codici del genere”?
Sfortunatamente si constata un fenomeno generale di identificazione con quel che viene mostrato, che modifica in profondità le nostre pratiche intime. Prendiamo l’esempio del preservativo, correntemente utilizzato dagli attori porno negli anni 2000. Era un’eccezione francese che era stata instaurata da Canal + nei suoi anni d’oro. A loro volta i produttori l’avevano imposta sui set. Oggi le catene televisive hanno perso ogni forza di prescrizione, più nessuno mette preservativi nei video porno – e si nota il medesimo fenomeno nella vita comune. Lo stesso per quanto riguarda il sadomasochismo. Prima, quando uno si avventurava in questo universo un po’ marginale, si rispettavano dei codici: uso di corsetti, cuoio, lattice, frustini, feticismo – lo spettatore sapeva dov’era. Oggi il sadomaso è completamente banalizzato sui tubes, ma senza il filtro del gioco e della maschera che lo caratterizzava. È diventato un rapporto di dominazione e di brutalità pura, dove la nozione di consenso del partner non esiste più. Ci vedo una banalizzazione della “cultura dello stupro”. Molte delle mie colleghe, pure femministe dichiarate, mi hanno confessato di guardare dei video che mettono in scena degli stupri. E, guarda caso, sono pure delle fan di James Deen, un pornodivo conosciuto per la sua brutalità. Non traggo conclusioni generali da questi due esempi, ma penso che l’onnipresenza della pornografia abbia un’influenza sulle nostre pratiche intime, comprese quelle delle giovani generazioni. Si nota ad esempio che la fellatio e la sodomia sono diventate quasi obbligatorie per i giovani che scoprono la sessualità.
Questo è un male?
Sono sempre stata una femminista pro-sesso, dunque poco sospetta di opinioni reazionarie in materia. Ma quando si tocca la questione delle derive del porno oggi si sente una forma di negazione tra i giovani ricercatori in porn studies [sic!], che minimizzano molto gli effetti del porno nelle nostre vite quotidiane, in particolare fra i bambini. Eppure mi sembra che non siamo più nell’epoca del dibattito pro o contra. Quando bambini di dieci anni incappano in questi video è evidentemente una catastrofe, e lo constato regolarmente durante i miei interventi di educazione sessuale nelle scuole. Ma guai se uno osa dirlo – gli ayatollàh della libertà di espressione ci calano addosso come se fossimo delle volgari fighe di legno… Ecco perché mi interrogo sul senso del femminismo detto “pro-sesso”, che non è più davvero adatto alla società attuale.
Vale a dire?
Il femminismo pro-sesso è stato inventato negli Stati Uniti negli anni 1980, in risposta alle femministe conservatrici che volevano censurare ogni forma di pornografia e abolire la prostituzione. Io sono vent’anni che mi richiamo a quel femminismo, perché io credo che il diritto a disporre del proprio corpo sia fondamentale, e che nessuna battaglia in favore della liberazione delle donne dovrebbe impegolarsi in considerazioni morali. Ma il momento in cui ho cominciato a dubitare è stato quando ho visto che il discorso di riappropriazione della nostra sessualità si è rivoltato contro di noi. Per esempio, durante i miei corsi di educazione sessuale ho spesso parlato dei modi di provocare lo squirting (l’eiaculazione femminile), e ho pure scritto sul Punto G, ho incoraggiato la pratica della sodomia, tutto questo al fine non di sottomettersi al desiderio del partner, ma di conoscere meglio il proprio corpo e di liberarsi in tutti i sensi del termine. Solo che questo discorso è diventato un’ingiunzione in più rivolta alle donne: devono essere delle buone amanti, delle buone mogli, delle buone “goditrici”. Prima, per trovarsi un marito e tenerselo, bastava saper fare il sugo. Adesso, la sodomia è diventata il nuovo debito coniugale, e il pompino “il cemento della coppia”!
Il sesso è dappertutto, ma il piacere dov’è?
Da nessuna parte, e questo è il problema. Il rischio è che la sessualità, spazio infinito di libertà, si trasformi in uno strumento di coercizione del corpo delle donne. Prendendo un po’ le distanze si vede che la sessualità, uscendo dal quadro dell’intimo, è diventato una nuova costrizione. Bisogna sottomettersi alle nuove “norme” alienanti della coppia: avere due rapporti a settimana, una vita sessuale “piccante”, “recitare” la parte della porca a letto, ma non troppo, eccetera. Qualche settimana fa, una giornalista in preda a un colpo di testa ha lanciato un account Instagram intitolato @tasjoui [“hai goduto?”, N.d.T.], perché ne aveva abbastanza di questa domandina spesso posta dagli uomini dopo un rapporto sessuale. L’hashtag è stato ripreso su tutti i social network. Segno che nel 2018 gli uomini che sanno far godere le donne sono ancora una minoranza, che la loro conoscenza del corpo delle donne è prossima allo zero e che, per la maggior parte fra loro, il piacere femminile resta un optional. Le donne, da parte loro, sono ancora una volta portate a far passare in cavalleria il loro piacere, a fronte di quello degli uomini. Del resto è raro che, dopo il loro orgasmo, esse si addormentino senza preoccuparsi del piacere del loro partner, contrariamente a questi ultimi. Si constata che siamo lontani dalla presa del potere per mezzo della sessualità che auspichiamo da vent’anni. La cosa che più mi manda in bestia è che questi pretesi argomenti di “liberazione sessuale” sono diventati degli strumenti di marketing. Quando osiamo criticare l’onnipresente nudità nei video di Beyoncé o di Nicki Minaj, tutte le giovani femministe ci si avventano addosso. Me, mi hanno già tacciata di “slut-shaming” (“recare onta alle troie”). Il colmo, visto che siamo noi – le pro-sesso – che abbiamo inventato quest’espressione! Bisogna incessantemente aggiustare il nostro pensiero alla società attuale.
Il suo ultimo documentario, “Là dove le puttane non esistono” (Arte), preselezionato per il premio audiovisivo Albert-Londres, abborda la questione delle derive di certe femministe, specialmente in Svezia. È consapevole di attaccare un tabù?
La Svezia è vista come il campione dell’uguaglianza, il paradiso delle femministe. La storia che racconto eppure è lungi dall’essere un’eccezione: oggi in quel Paese, in nome della lotta alla prostituzione, i servizi sociali possono togliere i figli a una donna perché si prostituisce – e affidarli al padre anche se è violento, tossicomane e magari assassino. Tutto questo accompagnato da un discorso sulla protezione dell’infanzia e il diritto delle donne. Si cammina sopra le teste. Dov’è il femminismo lì? Dov’è l’interesse del bambino? Bisogna fare attenzione all’eccesso di morale, anche animato dalle migliori intenzioni. La Francia pure ha proibito “l’acquisto di atti sessuali”, nell’aprile 2016. Da allora siamo stati incapaci di sanzionare Google France per la violazione dell’articolo 227-24 del Codice penale, che punisce con cinque anni di carcere la messa a disposizione dei minori di messaggi violenti o pornografici. Questa coesistenza di moralismo da una parte e di lassismo dall’altra mi interroga e mi inquieta. Che società può venire da tutta questa incoerenza?
Les féministes “pro-sexe” rêvaient de faire du porno un espace de liberté. Vingt ans plus tard, une industrie plus cadenassée que jamais impose ses codes à un public élargi. La réalisatrice Ovidie, qui est passée derrière la caméra après avoir commencé sa carrière comme actrice, s’interroge sur l’emprise que le X a conquise sur nos vies intimes, à commencer par celle des plus jeunes. Interview.
Votre documentaire “Pornocratie”, diffusé en 2017, est une enquête, racontée à la façon d’un thriller, sur les dérives du porno hétéro. On y découvre que l’industrie du X est dominée par une multinationale tentaculaire, dirigée par des “technocrates du clic”, hébergée dans des paradis fiscaux et échappant à tout contrôle. Dans ce contexte, le porno féministe est-il encore d’actualité ?
A la fin des années 1990, lorsque je me suis lancée dans la réalisation de pornos féministes, il y avait un vrai créneau à occuper. En France, le discours des féministes “pro-sexe” était encore inaudible car le débat était à l’époque monopolisé par les Chiennes de Garde, très radicales et abolitionnistes sur les questions de la pornographie et de la prostitution. Pour contribuer à la réflexion sur l’appropriation par les femmes de leur sexualité, il m’apparaissait nécessaire de proposer quelque chose en accord avec mes convictions militantes féministes. Aux Etats-Unis, quelques pionnières comme Candida Royalle et Annie Sprinkle avaient inauguré le mouvement, en Europe il n’y avait pas grand-chose à part le réalisateur danois Lars von Trier et sa société de production Puzzy Power. Je me suis donc lancée dans ce créneau avec l’ambition de faire évoluer petit à petit les codes de la pornographie.
Mais, vingt ans plus tard, l’industrie n’est plus du tout la même, et il m’apparaît difficile voire impossible d’espérer changer quoi que ce soit. Je pense que le porno féministe est voué à rester dans les marges d’une contre-culture intéressante et nécessaire, mais hélas minoritaire, face à la déferlante de l’idéologie porno dominante.
Entre-temps, on a assisté à l’apparition des “tubes” gratuits du X (YouPorn, Redtube, Pornhub, etc.), qui ont dévoré le secteur.
Avant, “consommer” du porno se méritait. Sans aller jusqu’à parler de sacralisation, il y avait une certaine ritualisation. On achetait sa revue en kiosque, sa VHS dans une boutique spécialisée, on attendait son film sur Canal+ le samedi soir. On acceptait cette notion d’effort, on était prêt à payer. Les producteurs avaient compris que, pour séduire, il fallait offrir de la qualité : de belles actrices, de belles images, de beaux cadrages. Mais l’arrivée en ligne des tubes en 2006-2007 a tout changé. Plus personne n’avait envie de payer pour la petite sodomie du samedi soir dont on trouvait l’équivalent gratuit sur YouPorn. Pour survivre à cette concurrence, les producteurs dits “classiques” se sont tournés vers ce qu’on ne trouvait pas encore sur les tubes : des pratiques inhabituelles comme les “doubles” pénétrations, les “triples”, etc. Le sexe extrême s’est donc peu à peu banalisé. Et la pornographie est devenue une “culture”, présente dans la publicité, la mode, le rap, les clips, et même parmi les candidats et candidates de télé-réalité, dont on se demande souvent s’ils ne sont pas des hardeurs et des hardeuses. Ce qui compte, ce n’est plus la qualité mais le trafic suscité. Or, pour pouvoir sans cesse renouveler et diversifier cette offre, il faut des filles, toujours plus de filles, de la chair à canon aux yeux des financiers occupés uniquement à faire du clic et qui ne connaissent rien au métier. Des filles dont les revenus ont été divisés par deux en dix ans et à qui on impose des pratiques toujours plus extrêmes. On se demande jusqu’où il faudra aller avant que cela s’arrête. Faudra-t-il qu’une actrice meure pour qu’on commence à s’en inquiéter ?
C’est quoi, le porno aujourd’hui ?
C’est une machine infernale et tentaculaire devenue incontrôlable. Pendant les deux ans qu’il m’a fallu pour mener à bien cette enquête, j’ai compris peu à peu que les choses seraient difficiles à changer. On est envahi par la culture porno dominante, phallocentrée, qui se focalise sur le plaisir de l’homme et le coït, comme si c’était la seule forme possible de rapport sexuel. La chorégraphie est toujours peu ou prou la même, avec les mêmes pratiques centrées sur la fellation, puis la pénétration, digitale, vaginale, anale, et l’éjaculation masculine qui clôt la séquence. Tout est codifié de cette manière, avec des variantes d’intensité, de brutalité ou d’esthétisation censées apporter une touche de “diversité”. En réalité, la production mainstream actuelle est conservatrice, plutôt homophobe : la représentation bisexuelle masculine est quasiment inexistante ; toute sexualité, qu’elle soit féminine ou masculine, est toujours calquée sur le modèle hétérosexuel classique avec un rapport dominant-dominé. Vous remarquerez que, même dans les scènes de lesbianisme, les actrices regardent la caméra, ce qui fait intervenir un troisième regard, celui du voyeur, qu’on imagine masculin.
Un autre regard est-il encore possible ? Peut-on briser les “codes du genre” ?
On constate malheureusement un phénomène général d’identification à ce qui est montré, qui modifie en profondeur nos pratiques intimes. Prenons l’exemple du préservatif, couramment utilisé par les acteurs X dans les années 2000. C’était une exception française qui avait été instaurée par Canal+ à sa grande époque. A leur tour, les producteurs l’avaient imposé sur les tournages. Aujourd’hui, les chaînes de télévision ont perdu leur force prescriptrice, plus personne ne met de préservatif dans les vidéos porno – et l’on observe le même phénomène dans la vie courante. Même chose pour le BDSM. Avant, lorsqu’on s’aventurait dans cet univers un peu à la marge, on en respectait les codes : usage de corsets, cuir, latex, fouets, fétichisme, le spectateur savait où il était. Aujourd’hui, le SM s’est complètement banalisé sur les tubes, mais sans le filtre du jeu et du masque qui le caractérisait. C’est devenu un rapport de domination et de brutalité pure, où la notion de consentement de la partenaire n’existe plus. J’y vois une banalisation de la “culture du viol”. Plusieurs de mes copines, pourtant féministes déclarées, m’ont avoué regarder des vidéos mettant en scène des viols. Et, comme par hasard, elles sont également fans de James Deen, un hardeur connu pour sa brutalité. Je ne tire pas de conclusion générale de ces deux exemples, mais je pense que l’omniprésence de la pornographie a une influence sur nos pratiques intimes, y compris celles des jeunes générations. On voit par exemple que la fellation et la sodomie sont devenues quasiment obligatoires pour les jeunes qui découvrent la sexualité.
Est-ce que c’est un mal ?
J’ai toujours été une féministe pro-sexe, donc peu suspecte d’opinions réactionnaires en la matière. Mais, lorsqu’on aborde la question des dérives du porno aujourd’hui, on sent une forme de déni chez les jeunes chercheurs en porn studies, qui minimisent beaucoup les effets néfastes du X dans nos vies quotidiennes, en particulier chez les enfants. Il me semble pourtant qu’on n’est plus du tout à l’époque du débat pour ou contre. Quand des enfants de 10 ans tombent sur ces vidéos, c’est évidemment une catastrophe, et je le constate régulièrement lors de mes interventions d’éducation sexuelle dans les écoles. Mais gare si l’on ose le dire, les ayatollahs de la liberté d’expression nous tombent dessus comme si nous étions de vulgaires culs serrés… C’est pourquoi je m’interroge sur le sens du féminisme dit “pro-sexe”, qui n’est plus vraiment adapté à la société actuelle.
C’est-à-dire ?
Le féminisme pro-sexe a été inventé aux Etats-Unis dans les années 1980, en réponse aux féministes conservatrices qui voulaient censurer toute forme de pornographie et abolir la prostitution. Moi, ça fait vingt ans que je me revendique de ce féminisme-là, parce que je crois que le droit à disposer de son corps est fondamental, et qu’aucun combat en faveur de la libération des femmes ne devrait s’encombrer de considérations morales. Mais là où j’ai commencé à douter, c’est quand j’ai vu que ce discours de réappropriation de notre sexualité s’est retourné contre nous. Par exemple, lors de mes cours d’éducation sexuelle, j’ai souvent parlé des façons de provoquer le squirting (l’éjaculation féminine), j’ai aussi écrit sur le point G, encouragé la pratique de la sodomie, tout cela dans le but non de se soumettre au désir de son partenaire, mais de mieux connaître son corps et de se libérer dans tous les sens du terme. Sauf que ce discours est devenu une injonction de plus adressée aux femmes : elles doivent être de bonnes amantes, de bonnes épouses, de bonnes “jouisseuses”. Avant, pour trouver un mari et le garder, il fallait bien cuisiner le pot-au-feu. Maintenant, la sodomie est devenue le nouveau devoir conjugal, et la pipe “le ciment du couple” !
Le sexe est partout, mais le plaisir, où est-il, lui ?
Nulle part, c’est bien ça le problème. Le risque, c’est que la sexualité, espace infini de liberté, se transforme en un outil de coercition du corps des femmes. Avec le recul, on voit que la sexualité, en sortant du cadre de l’intime, est devenue une nouvelle contrainte. Il faut se soumettre aux nouvelles “normes” aliénantes du couple : avoir deux rapports par semaine, une vie sexuelle “pimentée”, “jouer” la salope au lit, mais pas trop, etc. Il y a quelques semaines, une journaliste a lancé sur un coup de tête un compte Instagram intitulé @tasjoui, parce qu’elle en avait assez de cette petite question souvent posée par les hommes après un rapport sexuel. Le hashtag a été repris sur tous les réseaux sociaux. Signe qu’en 2018 les hommes qui savent faire jouir les femmes sont encore minoritaires, que leur connaissance du corps des femmes est proche de zéro et que, pour la grande majorité d’entre eux, le plaisir féminin reste optionnel. Les femmes, elles, sont une fois de plus sommées de faire passer leur désir après celui des hommes. Il est d’ailleurs rare qu’elles s’endorment après leur orgasme sans se préoccuper du plaisir de leur partenaire, contrairement à ces derniers. On constate que l’on est loin de la prise de pouvoir par la sexualité que nous prônions il y a vingt ans. Le plus embêtant, c’est que ces prétendus arguments de “libération sexuelle” sont devenus des outils marketing. Quand on ose critiquer la nudité omniprésente dans les clips de Beyoncé ou de Nicki Minaj, toutes les jeunes féministes nous tombent dessus. Moi, on m’a déjà taxée de slut-shaming (“faire honte aux salopes”). Un comble, vu que c’est nous, les pro-sexe, qui avons inventé cette expression ! Il faut sans cesse ajuster notre pensée à la société actuelle.
Votre dernier documentaire, “Là où les putains n’existent pas” (Arte), présélectionné pour le prix audiovisuel Albert-Londres, aborde la question des dérives de certaines féministes, en Suède notamment. Avez-vous conscience de vous attaquer à un tabou ?
La Suède est vue comme le champion de l’égalité, le paradis des féministes. L’histoire que je raconte est pourtant loin d’être une exception : aujourd’hui, dans ce pays, au nom de la lutte contre la prostitution, les services sociaux peuvent enlever ses enfants à une femme parce qu’elle se prostitue, et les confier à leur père même s’il est violent, toxicomane et que c’est un assassin. Tout cela accompagné d’un discours sur la protection de l’enfance et le droit des femmes. On marche sur la tête. Où est le féminisme là-dedans ? Où est l’intérêt de l’enfant ? Il faut faire attention à l’excès de morale, même animé des meilleures intentions. La France a également interdit “l’achat d’actes sexuels” en avril 2016. Pendant ce temps, on est incapable de sanctionner Google France pour violation de l’article 227-24 du Code pénal qui punit de cinq ans d’emprisonnement la mise à la disposition des mineurs de messages violents ou pornographiques. Cette coexistence du moralisme d’un côté et du laxisme de l’autre m’interroge et m’inquiète. Quelle société peut découler de toute cette incohérence ?
Note
↑1 | Qui il sito dell’associazione “Puri di cuore”. |
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↑2 | Pubblicato nel fuori-serie de L’Obs, “l’Ere du porno”. |
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