di David Caviglioli1Traduzione di Le nouveau Houellebecqu, in L’Obs 2824 (20 dicembre 2018), 117-121.
Michel Houellebecq non ha il diritto di essere felice. Bisognerebbe proibirglielo. La Francia conta troppo su di lui. Egli è il viso incavato della Nazione. La Marianna della nostra implosione. E invece nello scorso settembre lo abbiamo visto sui rotocalchi, fresco di matrimonio, che usciva da un municipio parigino dando il braccio a Quianyun Lysis Li, una giovane donna di origine cinese, che ha incontrato perché scriveva una tesi su di lui. Portava una redingote, una cravatta a fiori e un cappello a melone. Sorrideva. C’erano lì Carla Bruni-Sarkozy, Frédéric Beigbeder, David Pujadas, Emmanuel Carrère, alcune top model, gente di cinema… e tutti hanno poi attraversato Parigi per andare a festeggiare a Saint-Germain-des-Prés. Recentemente, Lysis ha postato su Instagram una foto in cui si vedeva Houellebecq nudo nel letto con due donne. Siamo felici che sia felice. Ha sofferto abbastanza, in amore come nel resto. Ha 60 o 62 anni (egli stesso non sa se sia nato nel 1956 o nel 1958), merita un riscatto. I triangoli e la vita sul Jet set gli vanno a pennello. Ma per il nostro Paese che se la passa male… questa gioia di vivere è una defezione. Houellebecq ha disertato il rango dei disperati, lui che portava la nostra infelicità sulle sue strette spalle. Ci sentiamo traditi, come dei monaci che, aprendo “Closer”, vi trovino Cristo che beve spritz su uno yacht a Portofino con George e Amal Clooney.
Non è la prima volta che ci sentiamo traditi. Nel 2017 le Editions de l’Herne avevano dedicato a Houellebecq uno dei loro prestigiosi “Cahiers”. I Cahiers de l’Herne sono dei grandi libri che raccolgono tutto quel che su un grande scrittore può essere scritto: testimonianze, studi, corrispondenze, interviste, inediti dell’autore. Questo “Cahier” era devastante. Vi scoprivamo Houellebecq in veste di reuccio orgoglioso, già ben ambientato fra i divi e felice di essere tale, circondato da una corte di leccapiedi, di ammiratori che per forza di cose non vengono ammirati, di mielosi notabili culturali che gli assicurano a suon di parole che i suoi detrattori sono degli «idioti, cattivi, vili, incolti, collaborazionisti, paurosi, invidiosi». Uno Houellebecq vendicativo con quelli che parassitano il suo piano pubblicitario, attento alla propria celebrità, al suo marketing, alle cifre delle sue vendite, alle sua apparizioni mediatiche, alle manovre, ai premi letterari.
C’è sempre una distanza tra l’artista reale e quello che s’indovina attraverso l’opera. Del resto non si sa mai quale dei due sia quello vero. Soprattutto nella letteratura – che pretende di essere un’arte della messa a nudo – mentre non c’è niente che bari più di un testo, e la sincerità – abbiamo finito per impararlo – è un artificio letterario come un altro. Nei suoi romanzi, Houellebecq gioca con sé stesso. I suoi narratori sono sempre dei veri-finti sosia, nei quali noi si cerca lui. Quando lo leggiamo, crediamo di sentirlo. Si fraternizza con lui. Egli fa parte di quegli scrittori che “introiettiamo”, come dicono gli psicologi. Per i suoi lettori egli diventa un amico interiore, un interlocutore privato. Una volta che si sia richiuso il libro, passiamo qualche settimana a pensare e a parlare come lui. Ora, questo Houellebecq col quale parliamo, questo fallito che ha accettato di esserlo, quest’uomo tornato indietro da tutto, indifferente ai giochi di società, è un’invenzione. Houellebecq non è un fratello di miseria. È un pezzo di artiglieria dell’industria culturale. Un attore quotatile in corsa, che frequenta le star, esposto nei musei di arte contemporanea mentre mantiene il proprio statuto. Un amico un giorno mi ha raccontato della sua visita a René Char, che ammirava: aveva scorto sulla sua scrivania dei ritagli di giornale, e comprese che l’eremita provenzale aveva sottoscritto un oneroso abbonamento a “l’Argos de la presse” per tenere d’occhio l’evoluzione della propria celebrità.
«Più nessuno sarà felice in Occidente»
“Serotonina”, il settimo romanzo di Houellebecq, è un libro magnifico. In certi momenti, leggendolo, ci attraversa l’idea che sia il migliore. Forse non il più importante (“Estensione del dominio della lotta” ha avuto un tale impatto culturale che è difficile superarlo da questo punto di vista). Forse non il più originale, né il più sensazionale. Ma quello fatto meglio, certamente. In questi ultimi anni – senza dubbio perché la sua vita extraletteraria, i suoi set cinematografici e le sue mostre lo sollecitavano troppo – Houellebecq era diventato scadente. Il suo humour diventava indolente. “Sottomissione” soffriva di importanti difetti di fattura. “La Carta e il Territorio” si perdeva per strada. “La Possibilità di un’isola”, da lui considerata il suo capolavoro, era talvolta di una mal gestita volgarità. Si diceva di lui che era un eccellente scrittore ma un cattivo romanziere. Questa volta, Houellebecq è all’altezza di sé stesso. La sua scrittura è densa e non cede mai. Il racconto è mirabilmente costruito, tenuto da effetti di suspense che siamo poco abituati a trovare in romanzi francesi. “Serotonina”, soprattutto, è un romanzo d’amore – o piuttosto un romanzo sull’amore, di una tristezza infinita. La tristezza in Houellebecq aveva tendenza a divenire una posa, un elemento-chiave del disciplinare, come la violenza in Tarantino. Qui invece è reale e invadente. Per due volte siamo stati sul punto di piangere.
A parte qualche evoluzione formale, come un uso nuovo – per lui – della virgola, “Serotonina” sorprende poco. Alcuni deploreranno forse un sentimento di “déja-lu”. Vi ritroviamo pressappoco tutti i temi che Houellebecq ha trattato finora: la geografia francese, la decadenza occidentale, le vagine, la pornografia, l’amore, il liberalismo, il turismo, la gastronomia, la depressione, la religione, il consumismo, la solitudine. Ma tutto vi si trova al proprio posto, senza sforzo e senza artificio. Negli artisti che lavorano sempre il medesimo materiale ci sono talvolta dei momenti di grazia, delle opere di compimento in cui quel materiale si assembla perfettamente.
“Serotonina” racconta la storia di Florent-Claude Labrouste, un ingegnere agronomo fallito nella vita professionale e in quella amorosa, e che a 46 anni sta «morendo di dolore». Non sopravvive che per una medicina, il Captorix, che stimola la produzione di serotonina, un «ormone legato all’autostima». Vive insieme con Yuzu, una giapponese che egli odia e che non lo ama di più. Decide di scomparire. Certo di star per morire, parterre la Normandia sulle tracce dei propri fallimenti passati. Lassù aveva un impiego: doveva difendere la produzione locale di latte. Ora vi trova un territorio in abbandono, popolato di allevatori «virtualmente morti» sull’orlo del suicidio, distrutti dalla politica europea in materia di quote del latte. Lassù c’era una donna che lo amava e con la quale avrebbe potuto essere felice. Si chiamava Camille. Ma la loro storia aveva avuto fine, stupidamente.
“Serotonina” cerca di mostrare che una «catastrofe globale» è fatta di catastrofi individuali, di divorzi, di cadute nell’alcoolismo, di rassegnazione. Romanzo sull’irrimediabile, difende la tesi che l’Europa sia un continente morto e che gli Europei siano una specie in via di estinzione. La modernità ha spazzato via tutto ciò che permette a una civiltà di perdurare: l’amore, l’amicizia, perfino l’istinto di conservazione economico. È la modernità che ha distrutto la vita amorosa di Florent-Claude Labrouste. Per femminismo non ha chiesto a Camille di
diventare angelo del focolare, insomma di diventare [il suo] angelo: «Non potevo farlo, non ero stato “formattato” per una simile proposta, non faceva parte del mio “programma” ero un moderno.
Per un riflesso libertino, ha avuto una storia con una Nera «dal culo piccolo», e un giorno mentre passeggiava con lei
probabilmente con l’espressione un po’ inebetita dell’uomo che aveva appena goduto,
si ritrovò faccia a faccia con Camille, che se n’è andata, lasciandolo vuoto, destinato per sempre al tormento.
È sempre la modernità che ha ucciso l’agricoltura, dunque il territorio, dunque la Francia, perché gli amministratori del Paese
non si battevano per i loro interessi, né per gli interessi di quelli che si supponeva dovessero difendere, sarebbe stato un errore crederlo: si battevano per delle idee; per degli anni, mi ero trovato a confrontarmi con delle persone pronte a morire per la libertà del commercio.
Questo esperto agronomo sa che niente salverà gli agricoltori. Il loro numero è «semplicemente troppo alto», sono «semplicemente condannati». Non usciranno mai vincitori dalla competizione con la Cina, la Spagna, l’Argentina. Si sovraccaricheranno di debiti e perderanno le loro mogli – anch’essi.
Più nessuno sarà felice in Occidente, […] mai più; oggi dobbiamo considerare la felicità come un’antica fantasticheria, poiché semplicemente non ne sussistono più le condizioni storiche.
Le nostre vite si svolgono «sotto la direzione di divinità incerte» di fronte alle quali nulla possiamo.
Ecco come muore una civiltà, senza baccano, senza pericoli e senza drammi, perfino con poca carneficina.
Per Zemmour, Trump e Wauquiez
Nello scorso ottobre, Houellebecq è stato invitato a Bruxelles, dove gli è stato conferito il premio Spengler, dal nome del tedesco Oswald Spengler, filosofo fascista che nel 1918 scrisse “il Declino dell’Occidente” – prova che tale declino era annunciato da lunga data. Houellebecq, antico eroe letterario degli “Inrockuttibili”, vi si è recato con un giornalista di “Valeurs actuelles”, settimanale di estrema destra che gode ormai dei suoi favori. In quest’occasione ha dichiarato di essere pronto a votare per chiunque prometterà una Frexit, senza escludere Marine Le Pen. Ha aggiunto che i musulmani
fanno problema. E questo perché è stato detto loro che potevano essere visibili. Per sistemare la cosa, sarebbe meglio che la religione cattolica riprendesse il sopravvento.
Ha fatto l’elogio di Eric Zemmour e dei suoi «saggi storici di grande respiro e ben documentati». Ha detto che la Francia era stata assassinata, e che «il colpevole di questo assassinio non è difficile da scoprire: è l’Unione europea». “Serotonina”, con la sua denuncia delle élites eurolatriche, intende essere il romanzo del populismo che monta, dell’ostilità all’Unione europea, del sovranismo liberatore. Per promuoverlo, col suo abituale talento per il marketing, Houellebecq ha fatto comparire in una rivista americana, due settimane prima dell’uscita, un lungo elogio di Donald Trump.
Houellebecq è sempre stato euroscettico, ma ci fu un tempo in cui era anche francoscettico. Non molto tempo fa dichiarava che «la Francia è un hotel, niente di più»:
Mai mi sono sentito in dovere né in debito, rispetto alla Francia – così precisava –. Siamo di passaggio su questa terra, adesso l’ho compreso perfettamente; non abbiamo radici, non produciamo frutto.
Adesso invece mostra un legame fervente al Paese, ai suoi interessi commerciali, alle sue tradizioni cristiane – anche se le crede morte. Cena con Laurent Wauquiez, che si vanta di lui. È diventato un’icona dell’estrema destra europea, specialmente dopo la pubblicazione di “Sottomissione”, romanzo della Francia islamizzata.
“Sottomissione” è uscito nel gennaio 2015, il giorno dell’attentato contro Charlie Hebdo. Il romanzo dette scandalo, ma nulla aveva di un romanzo lepenista. Conteneva anche un affondo piuttosto perverso contro il campo reazionario. Nel momento in cui la Francia di destra si raccontava di essere in guerra contro l’Islam politico, e in particolare contro la sua visione arcaica della donna, Houellebecq spiegava che al contrario i francesi non avrebbero alcuna reticenza a convertirsi alla legge di Allah. Lungi dall’andare contro una morale, l’Islam avrebbe permesso di riportare le donne al focolare – cosa che in fondo quelli vorrebbero – e di reinstaurare una morale forte, laddove il cristianesimo è diventato una religione debole, una “religione da donnetta”, come Houellebecq ha scritto da qualche parte. La Francia di “Sottomissione” diventava musulmana non in seguito a un’invasione o a una sostituzione etnica, ma per conservatorismo, e con un certo piacere. Il vecchio spirito francese, sembrava dire Houellebecq, è perfettamente solubile nella sharia.
Houellebecq, con nostra grande sorpresa, non ha rinnegato il sostegno della destra identitaria. Al contrario, l’ha coltivato. Indubbiamente in tutto ciò ci sono una parte di dandismo e una di sincerità – difficili da tenere separate. Pensiamo che si senta amato e che quell’amore lo appaghi. Ad ogni modo, le uscite politiche di Houellebecq non hanno mai l’aria di essere molto serie. Sono accolte con divertimento da quanti dovrebbero scandalizzare. Alziamo gli occhi al cielo con un sorrisetto, come una donnetta accomodante che sente l’ultimo delirio del cugino pazzo.
Houellebecq sfigura tanto fra i conservatori quanto fra le zecche. La sua critica della modernità è infinitamente più sottile e tornita delle ordinarie lamentazioni dei saggisti antimoderni. Egli annuncia il “suicidio dell’Occidente”, ma tale suicidio passa secondo lui attraverso un’ennesima peripezia storica, in fondo senza importanza. Quando difende la famiglia tradizionale e il matrimonio borghese, ne fa un ritratto così triste che non si vede neppure perché si prenda la pena di difenderli.
(Penso un certo bene del matrimonio borghese così come si è sempre praticato, senza amore; l’unione di due patrimoni e di due famiglie. […] E quando vi si aggiungeva la felicità, era meglio.)
Lo si descrive come un critico dell’individualismo, ma i suoi romanzi ne sono pieni, di individualismo. I suoi doppi letterari sono sempre degli irriducibili solitari, incapaci di sottomettersi a una norma collettiva, se non per ignavia o fatalismo.
Amiamo Houellebecq perché non può credere davvero in niente. Un giorno descrisse la propria opera, a ragione, come un «selvaggio attentato contro la civiltà». Ha l’intelligenza dei pessimisti, e quest’intelligenza non è di aiuto alcuno.
Note
↑1 | Traduzione di Le nouveau Houellebecqu, in L’Obs 2824 (20 dicembre 2018), 117-121. |
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