4) I Millenials
Questa classe raduna i giovani nati tra il 1980 e il 2000. Ciò che caratterizza questa classe è il livello di educazione. I millenials hanno fatto studi superiori (almeno tre anni). Sono diplomati o laureati che però hanno accesso solo a lavori meno qualificati e meno valorizzati delle posizioni professionali a cui, per la loro formazione, aspirano. Un gap che per loro è fonte di disillusione, frustrazione, risentimento. La rabbia dei millenials è alimentata anche dall’influenza dei discorsi dei loro professori, spesso piuttosto orientati a sinistra, che avevano prospettato loro un avvenire radioso e dai successi folgoranti al momento dell’entrata nel mondo del lavoro. Perciò lo scontro con la dura realtà fatta di estreme difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro si trasforma facilmente in aperta ribellione al sistema. I millenials hanno dovuto adattarsi a una realtà assai più grigia, arrivando a detestare i lavori precari e malpagati (i cosiddetti “bullshit jobs”) coi quali hanno cominciato la loro carriera professionale. In più la loro entrata nel mercato del lavoro è coincisa con gli anni successivi alla grande crisi del 2008, con un minor numero di posti di lavoro e peggio remunerati di prima.
Potremmo dire che i millenials sono aspiranti “creativi” frustrati nelle loro ambizioni. L’insoddisfazione dei giovani millenials è ulteriormente accresciuta dalla loro psicologia, un miscuglio di collettivismo (cresciuti nell’epoca dei social e dell’economia cooperativa, il loro attaccamento alla proprietà privata è decisamente minore delle generazioni precedenti) e di individualismo. Allevati nel culto dell’“io” (la Me Me Me Generation), questi giovani non hanno alcuna fiducia nella capacità dello Stato di redistribuire la ricchezza – un paradosso per il loro collettivismo – e il fatto che il sistema non operi a loro vantaggio è percepito come lo sfregio supremo. La contestazione per i millenials diventa così qualcosa di più che un fatto politico: è una protesta esistenziale, un grido generazionale.
Questa miscela di umori turbolenti li porta a radicalizzarsi politicamente e ad essere attirati dall’estremismo dei populismi di sinistra. Da questa classe di giovani attingono infatti i movimenti antisistema come Occupy Wall Street negli Usa, Nuit Debout in Francia, gli Indignados in Spagna. Alle elezioni hanno votato per Bernie Sanders negli Stati Uniti, per Jean-Luc Mélenchon in Francia, per Pablo Iglesias (Podemos) in Spagna e per Alexis Tsipras in Grecia. In Italia i millenials si sono prevalentemente indirizzati verso i Cinque Stelle (chi più di Luigi Di Maio corrisponde al profilo del millenial?), in subordine verso la Lega.
Come siamo arrivati a una tale disintegrazione sociale? Il punto di svolta per la «quadratura di classe» è stato duplice.
In primo luogo la crisi finanziaria del 2008, che ha fatto crollare il sogno di una grande classe media inglobante tutta la società. La crisi ha avvantaggiato alcune classi sociali (la classe creativa) e danneggiato altre (la classe operaia bianca e quella dei millenials, le due grandi perdenti della crisi economica, per differenti motivi).
In secondo luogo la crisi migratoria del 2015 che ha cristallizzato le contrapposizioni culturali generando paure e fantasmi in ogni categoria della popolazione. Anche la classe media, già irritata dal discorso immigrazionista e pro-diversità delle élites urbane, si è irrigidita sulla questione migratoria, così diventata un tema particolarmente sensibile – e divisivo – nelle società occidentali.
Ora, il problema è che nessuna delle quattro classi è maggioritaria nel mondo occidentale. Dunque chi vuole andare al governo deve trovare il modo di stabilire una qualche alleanza interclassista.
Come ha fatto Emmanuel Macron, capace di radunare – parzialmente al primo turno e quasi totalmente al secondo – la classe creativa e la classe media assicurandosi così l’Eliseo. Ma non è certo l’unica combinazione possibile. Donald Trump, ad esempio, è partito dalla base della classe operaia bianca alle primarie per poi stringere un’alleanza con la classe media provinciale durante il confronto con Hilary Clinton.
Negli stati dell’Europa centrale e orientale, i vecchi paesi del blocco comunista, la classe operaia e quella media sono maggioritarie, mentre meno numerosi sono millenials e “creativi”. In Ungheria perciò Viktor Orbán ha adottato una linea ideologica (difesa delle tradizioni, nazionalismo, rifiuto del liberalismo della classe creativa) coincidente con la visione del mondo delle due classi maggiori. In altri paesi ex comunisti, come la Romania e l’Ucraina, la classe creativa ha invece guadagnato terreno trasformando il panorama politico. Per esempio, in Romania Klaus Iohannis ha incassato il sostegno dei “creativi” dei centri urbani alle presidenziali del 2014.
Nel caso del separatismo catalano (o della coalizione nazionalista in Corsica) abbiamo invece una improbabile coalizione tra i millenials e la classe media. Quest’ultima è generalmente la chiave del confronto politico. Lo vediamo bene in Italia, dove Matteo Salvini ha saputo guadagnarsi i favori della classe operaia bianca nel nord del paese e il Movimento Cinque Stelle ha trovato il suo core business tra i millenials (e nel sud). Ma il crescente espansionismo della Lega, che sta attirando a sé gran parte della classe media – l’elettorato tradizionale di Forza Italia –, rischia di far traballare l’asse governativo.
Siamo dunque in presenza di un fenomeno sociologico globale. Oggi, nel 2018, le quattro classi sono ben presenti e le loro divisioni continuano ad alimentare la lotta sociale del nuovo millennio. Questo è particolarmente vero per le classi ribelli (i millenials e la classe operaia), le vere escluse dal sistema che rappresentano la base elettorale dei movimenti populisti. Finché i millenials e/o la classe operaia bianca sentiranno tutto il peso del declassamento non ci sarà via d’uscita dalla «quadratura delle classi» e la tensione sociale non si riassorbirà.
Nel breve termine questo comporta che gli attori politici, se aspirano a governare, devono tenere conto dei rapporti di forza e farsi portavoce di una delle classi prima di tentare di radunarne un’altra nella coalizione elettorale (includendo generalmente la classe media). Ma a lungo termine bisognerà, inevitabilmente, porsi la questione della reintegrazione sociale delle classi ribelli, sempre più coscienti di trovarsi ai margini delle società globalizzate.
Muzergues ricorda che la spinta del comunismo è stata frenata, in Occidente, con l’integrazione della classe operaia nella classe media. La sfida di oggi consiste nel reinserimento sociale di una delle classi escluse. Perché in caso contrario, in un quadro di crescente frammentazione, la vittoria delle forze antisistema sarà solo una questione di tempo.
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