Non solo: la ratio della Costituzione Apostolica in questione è tale da evitare qualsiasi interpretazione restrittiva in ordine alla validità dell’elezione. Lo si vede ob eminentiam nel numero 78, cioè nel primo (!) paragrafo del capitolo VI, dedicato a ciò che si deve osservare o evitare nell’elezione del Sommo Pontefice. Ebbene, il primo pensiero del Papa polacco andava all’eventuale “crimine di simonia”: con quel paragrafo Giovanni Paolo II minacciava la scomunica a tutti «coloro che se ne renderanno colpevoli», fatta salva tuttavia la validità dell’elezione:
Se nell’elezione del Romano Pontefice fosse perpetrato – che Dio ce ne scampi – il crimine della simonia, delibero e dichiaro che tutti coloro che se ne rendessero colpevoli incorreranno nella scomunica latæ sententiæ e che è tuttavia tolta la nullità o la non validità della medesima provvista simoniaca, affinché per tale motivo – come già stabilito dai miei Predecessori – non venga impugnata la validità dell’elezione del Romano Pontefice.
Era stato il buon vecchio Paolo III a dichiarare invalide le elezioni simoniache (la sua lo era stata, ma Papa Farnese ebbe l’accortezza di non rendere retroattiva la norma), e sempre san Pio X aveva revocato la disposizione del predecessore rinascimentale, proprio per evitare che qualcuno saltasse su a minare il trono di Pietro con una dichiarazione (vera o falsa che fosse) di mercimonio in Conclave. Dopo di lui anche Pio XII e Paolo VI ebbero l’accortezza di seguire questa direttiva tuzioristica. Lo stesso volle fare Giovanni Paolo II, precisamente perché non arrivasse un don Minutella – neppure in caso di conclamata simonia (il peggio del peggio) – a «impugnare la validità dell’elezione del Romano Pontefice». Precauzione inutile, a quanto pare: contro le disposizioni canoniche vigenti il prete scismatico brandisce le opinioni teologiche (Bellarmino) e le disposizioni decadute (Paolo IV).
Due sprazzi di eresia nel discorso di Minutella
L’excursus canonistico l’ho proposto unicamente per mostrare l’inconsistenza delle “ragioni” addotte da Minutella nella propria apologia: mi scuso se qualcuno l’abbia trovato troppo arido. Subito dopo l’ultimo passaggio citato, lo scismatico palermitano richiama il concetto di eresia secondo il Catechismo di san Pio X e sfida retoricamente l’uditorio a trovare in cosa egli sia venuto meno alla fede cattolica.
Ebbene, vorrei per un attimo prescindere dai cumuli di ingiurie – stupide, ingiuste, gratuite – da lui rivolti al Romano Pontefice (in primis quella – ridicola – di “neo-arianesimo”): ancora prima di addentrarci nel mistero di Dio (del quale l’ho sentito parlare assai poco), il suo problema macroscopico è con l’ecclesiologia.
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Quando elenca le note della Chiesa Minutella ne enumera due su quattro e ne aggiunge una che non è, in senso stretto, una nota ecclesiastica: egli afferma infatti (anche in questo video) di credere «la Chiesa cattolica, apostolica e romana». Quest’ultimo aggettivo stride nella bocca di uno che avversa tanto ostinatamente il Romano Pontefice, ma il punto è che il Simbolo niceno-costantinopolitano (il Credo che recitiamo a messa) non fa menzione alcuna della “romanità” della Chiesa. Nei contesti di coesistenza della Chiesa cattolica con le comunità ecclesiali protestanti si è gradualmente affermato l’uso di espressioni quali “Roman Catholic Church”, ma di per sé la romanità non è una prerogativa della Chiesa cattolica. L’unità e la santità, invece, lo sono. E Minutella le menziona di rado (e dico così per beneficio d’inventario: io non glie le ho mai sentite elencare).
Non è questione di parole, evidentemente: «La bocca parla dalla pienezza del cuore» (Mt 12, 34), ed è difficile dire che si crede «la Chiesa una» quando continuamente si bercia contro “la falsa chiesa”; altrettanto lo è credere «la Chiesa santa» quando nulla sfugge alla contestazione più radicale (l’espressione “Santa Madre Chiesa” è fraseologica: non può essere addotta a ricorrenza). In un passaggio di Minutella quasi saltavo sulla sedia: dopo aver ricordato (43’ 45”) di aver chiesto invano «il sostegno di una delle voci che stanno da quest’altra parte» afferma che la delusione sarebbe stata utile «a capire che non c’è una vera Chiesa: ormai resta solo il piccolo resto cattolico». La teologia del piccolo resto sembra essere contrapposta a una compiuta ecclesiologia, ma è vero il contrario: nel mondo e all’interno della stessa chiesa visibile il “piccolo resto” è la Chiesa stessa, tutta integra nella sua essenza. Don Minutella appare gravemente confuso, come è comune che sia un pervertitore degli spiriti.
«Uno, due, tre… Eretico!»
L’orda di parabolani che sui social ha messo “a ferro e fuoco” (si fa per dire) la blogosfera cattolica italiana restituisce la temperatura di un clima ecclesiale gravemente malsano, almeno in alcune sue parti. Questo si deve – a mio giudizio – a un combinato disposto di diversi fattori, tra cui ipotizzo la rarefazione di una vita di vera carità e vera preghiera e il contestuale ingigantimento del “momento opinionistico”. Amici e amiche mi fanno osservare quasi ogni giorno che se “tanta brava gente” è sinceramente confusa qualche malessere dev’esserci: non è pensabile che siano tutti matti o stupidi. In realtà penso che non sia necessario postulare alcuna di queste due cose (poiché entrambe escludono la libertà di quell’atto umano che è il giudizio): è sufficiente che siano presenti alcuni pregiudizi… o anche solo uno.
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E perché scomunicare Minutella e non quel prete che benedice l’aborto o quel religioso che auspica il “matrimonio” gay? E quella suora che insegna sciocchezze contro il magistero della Chiesa, perché lasciarla al suo posto? Si parla di eresia con la stessa indeterminata vaghezza che presiede al veloce gioco da ragazzi noto col nome di “Un, due, tre… stella!”: la regola è che quando il censore si volta nessuno deve muoversi… ma quali movimenti sono proibiti e quali ammessi? Il sorriso, il battito delle ciglia, la pulsazione cardiaca… nessun regolamento lo stabilisce in via definitiva e quindi il gioco finisce quando le contestazioni prevalgono sul divertimento. Parabola plastica della “discussione” ecclesiale (meglio si direbbe “chiacchiera”, con Heidegger, o “chiacchiericcio”, con Benedetto XVI) su cosa sia eresia.
Un’eresia non ne scaccia e non ne giustifica un’altra – a differenza di quanto sembrano pensare gli acritici sostenitori di Minutella –, ma in questo contesto sembra da rispiegare anche che cosa s’intenda per “eresia”, in senso proprio e stretto, e perché teorizzare una cosa grave come l’“abominevole delitto” dell’aborto non sia cosa più “eretica” che teorizzare l’ammissibilità di qualsiasi omicidio. Provo a spiegarlo con il riferimento a tre canoni attualmente vigenti: il 751, il 752 e il 750:
Vien detta eresia, l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa; apostasia, il ripudio totale della fede cristiana; scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti.
Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda.
Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell’unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria.
Ecco: professare che in Cristo non si riveli una vera persona divina, la quale tuttavia agisce anche in una vera e integra natura umana – per fare un esempio – attiene alla “fede divina e cattolica”. L’eutanasia e l’aborto – sempre per fare un esempio – sono sempre stati visceralmente avversati dai cristiani, ma non sono l’oggetto di definizioni dogmatiche e quindi, sebbene siano facilmente ricollegabili al patrimonio delle verità di fede, tuttavia esigono «non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà». E il prete che benedice “matrimonî” gay? Lì la questione si fa più spinosa, perché lentamente ci si avvicina all’attentato a un sacramento – il che è certamente materia dogmatica –: fino a quando però non si teorizza la presunta consistenza di un “matrimonio omosessuale” (sempre per restare nell’esempio) ogni azione pastorale potrà essere azzardata, temeraria, respingente al senso cattolico e dunque passibile di “giuste pene” (così il Diritto)… ma non eretica, in senso stretto. Enrico VIII (che di teologia ne capiva, e parecchio) non fu scomunicato perché tradiva la moglie – questione morale – ma perché pretendeva di manomettere la materia sacramentale – questione dottrinale. Quindi invocare scomuniche a pioggia su ogni prete ignorante e ansioso di apparire “friendly” verso qualcuno è poco più di una comprensibile indignazione rivestita di una non condivisibile ostinazione.
Opportuna una revisione quanto all’esposizione del Papa
Un malessere pervasivo in tal senso c’è, ma secondo il mio parere esso è amplificato oltremodo da una innaturale sovraesposizione di tutto ciò che circonda il Papa. Ho visto che – dopo i libri sul comodino del Papa – stanno pubblicando un libro sulla nonna di Francesco! Il Santo Padre detiene un ufficio che ordinariamente si limita a funzioni vitali, sì, per la Chiesa, ma nient’affatto destinate ad alimentare il dibattito pubblico: nomina e consulta i vescovi, riceve i capi di Stato, coordina i nunzi apostolici e in tutto questo è coadiuvato dalla Curia Romana. L’estenuante dibattito su ogni accessorio della sua persona attiene a un contesto puramente mediatico: e le scarpe nere, e il camauro rosso, e la veste filettata, e la borsa se la porta da solo… Da questo si passa senza soluzione di continuità a dispute dottrinali ben più serie, nelle quali però i commentatori non hanno più competenza di quella che sfoggiano quando discettano delle “scarpe di Prada” (che non sono di Prada): così si biasima (stoltamente) la lettera a Enzo Bianchi per i 50 anni di Bose e si dimentica che fu l’osannato Benedetto XVI a volere Bianchi presente in due sinodi in qualità di esperto. Allo stesso modo si biasimano i front-man delle cordate omosessualiste e non si tiene in conto il fatto che certe cupole si costruiscono in decenni di paziente oscurità: prendersela con il Santo Padre è due volte da stupidi – una perché ogni pontificato dura meno dell’arco di quelle cordate, e la seconda perché il Papa si gioverebbe piuttosto di sostegno che di critiche da bar.
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L’esito terminale di questo clima è l’esasperazione spirituale e intellettuale di quanti vi si dedicano. Proprio stamattina una signora mi diceva: «Sto pensando di passare all’ortodossia». Come se non avendo un Papa non si avessero problemi. Inavvertitamente, la signora dimostra proprio che gran parte del problema – lungi dall’essere il Romano Pontefice – è precisamente la sconsiderata sovraesposizione a cui lo si sottopone. Il cristianesimo è una cosa semplice: accogliere Gesù come Signore e Salvatore, credere nel Vangelo e lasciare che lo Spirito ci conformi all’«Unigenito che è nel seno del Padre». Punto.
Di’ cosa ne pensi