Questa mattina, sotto un caldo sole autunnale, si è tenuta nel mio paesello della campagna forlivese l’inaugurazione di un busto bronzeo, opera di Angelo Ranzi, raffigurante don Gaetano Lugaresi, parroco di San Martino in Villafranca dal ’42 al ’75 (anno della mia nascita).
Il busto è stato realizzato per desiderio di una persona, Valerio Sansovini, che non è un frequentatore abituale della chiesa: diciamo che ci mette piede solo se invitato a qualche cerimonia. E il comitato di quartiere si è occupato di raccogliere i fondi e coordinare le attività di progettazione, realizzazione e installazione di tutte le componenti. Insomma, il parroco è stato messo al corrente della cosa a decisione già presa. Ed è un fatto curioso, perché qua da noi, in mezzo ai peschi, dove passano due autobus al giorno e tutte le vie secondarie hanno il nome di ex parroci, non si muove foglia che il prete non voglia, o per lo meno i parrocchiani attivi sono sempre stati, finora, il fulcro e il motore di quasi tutte le iniziative.
Ma don Lugaresi piace anche fuori dal cono d’ombra del campanile e il suo ricordo suscita un moto di intima commozione in moltissimi, segno che fu uomo di oggettivo valore.
Era un prete burbero e buono, come andava a quei tempi: non lesinava scappellotti a chi li meritava, ma anche era concretamente vicino a chi ne aveva bisogno. L’epoca in cui esercitò il suo ministero fu una delle più dure per il nostro territorio: la seconda guerra mondiale finì come una rete a strascico sulle nostre terre, grattando il fondo delle ultime risorse dei poveri e mostrando gli artigli di un’inaudita crudeltà tipica della bestia morente.
Nel ’44 un gruppo di SS, in fuga da Roma liberata, (quello stesso gruppo responsabile della strage delle Fosse Ardeatine), arrivò a Forlì a scatenare una resistenza a forza di eccidi e assassinii di tutti gli oppositori al regime fascista e nazista. Forlì, patria del Duce, doveva essere difesa ad ogni costo, doveva essere baluardo inespugnabile, avamposto della riconquista. E così queste SS si misero a dare la caccia ai partigiani, in particolar modo al colonnello Cecere, che era capo della Brigata Garibaldi. Il 9 agosto del 1944, nella canonica di San Martino in Villafranca, si tenne una riunione segreta di partigiani, per organizzare la fuga di Cecere, che era in grave pericolo. Ma le SS circondarono la canonica e arrestarono tutti, parroco compreso.
Don Lugaresi fu imprigionato, interrogato, torturato, picchiato fino a far rompere un frustino. Dopo quasi un mese di torture, Cecere fu trucidato il 5 settembre, assieme ad altri diciassette prigionieri, in quella che è ricordata, a Forlì, come la “strage dell’aeroporto”. Lugaresi fu lasciato libero perché il vescovo andò ad implorare per lui, garantendo che lo avrebbe rinchiuso nella parrocchia di Santa Lucia in centro, lontano da ogni possibile contatto con forze partigiane.
Ma già ad ottobre don Lugaresi era tornato al paese, a vivere in prima persona l’indicibile strazio degli ultimi mesi di guerra, con i bombardamenti continui degli alleati che rasero al suolo tutto, chiesa e canonica comprese, mentre i tedeschi si nascondevano nelle case dei contadini. I segni delle torture erano nella sua carne così profondi che quando morì, 30 anni dopo, li aveva ancora ben visibili. Ma c’erano tante persone da aiutare, non poteva indugiare su di sé. La campagna brulicava di gente affamata, dalle città pericolosissime e senza cibo erano tutti fuggiti, nei casolari di campagna stavano stipate decine di persone per fabbricato. Ad ogni allarme aereo, tutti scappavano nei rifugi improvvisati, buchi nel terreno coperti dai pagliai, o sottoscala rinforzati, muniti di pale e picozze per scavarsi una via di fuga in caso di crollo.
Don Lugaresi ogni giorno percorreva il paese a piedi, a contare i morti della notte, a confortare i superstiti, a farsi vicino alla sua gente stremata.
Quando finalmente la linea Gotica crollò, per l’arrivo degli inglesi, i tedeschi si incamminarono per la via Emilia, abbandonando le campagne, il 13 novembre del 1944, ed iniziò il lungo e faticoso cammino di ricostruzione e rinascita di un popolo che si era scoperto diviso, tra rossi e neri, e che aveva pagato un tributo altissimo in vite umane, oltre che in beni materiali.
È forse anche per questo che Forlì è una terra così antifascista, nel senso che ama fregiarsi di questo appellativo, ormai forse anacronistico, per descrivere il proprio spirito di sincero disgusto per un regime che ha distrutto qui molto più che altrove, che ha ferito il cuore di troppe famiglie. Qui dentro la stessa casa potevano esserci il partigiano, fuggito sulle colline, che poi incendiava le trebbiatrici dei contadini, per non rendere disponibile il grano alle truppe tedesche (ma anche alla popolazione), e lo spione che denunciava i traditori e li faceva catturare ed ammazzare.
Qui, però, c’è anche un comunista che fa costruire un busto ad un prete, per ricordarci che c’è una bella differenza tra la dialettica democratica di opinioni politiche contrastanti e le mostruosità indicibili che i regimi totalitari sono stati capaci di produrre. La guerra fu per Forlì e per l’Italia intera una sciagura mostruosa, che non deve tornare. In questo senso, è giusto essere antifascisti, è d’obbligo. Dispiace tanto che le parole vengano oggi così svilite, nell’uso propagandistico che se ne fa, depauperando il linguaggio di significato e rendendo sempre più difficile descrivere quella sensazione di nausea che sale dal fondo dello stomaco ad ogni forlivese di fronte a certi simboli ostentatamente patriottici che evocano antichi fasci.
PS: la mia mamma è nata il 1o maggio del 1945, un bel simbolo di rinascita, non c’è che dire.
Peccato che quelle stesse terre hanno poi conosciuto, nuove atrocità, giustizie sommarie, sanguinose vendette e soprusi, operate da coloro che si dicevano (o erano) “partigiani”.
A dimostrare che esiste un’unica e vera Liberazione per l’Uomo.. quella operata da Cristo nella conversione a Dio del proprio vivere passato, presente e futuro.
Nessun’altra “bandiera”, idea o ideologia, mette al riparo l’Uomo dal divenire carnefice di se stesso e dei suoi simili, quando l’azione del Maligno si scatena.