La prima cosa che colpisce della mostra allestita al Palazzo delle esposizioni in Roma è la fila: vero che sono andato nel primo sabato dall’apertura della mostra, e che io stesso avevo segnato la data sul mio calendario da un mese buono, ma le prenotazioni sono già tutte piene fino a metà novembre… si sarebbe forse facili profeti a ipotizzare che – salvo sorprese – la mostra non chiuderà i battenti il 20 gennaio 2019.
È precisamente la percezione contraria a quella che ebbi recandomi in Vaticano, nel “braccio di Carlo Magno”, alla mostra sull’evangelizzazione della Corea: lì si raccontava una storia enormemente più gigantesca di questa, eppure le sale erano così vuote che per qualche istante arrivando temetti che l’esposizione fosse chiusa. La constatazione che si ha uscendo dalla mostra sui 30 anni della Pixar – «però dài, la gente ai musei ci va pure!» – ci ricolma quindi di una sensazione agrodolce in cui si individuano facilmente due fattori: da una parte la capacità di costruire una straordinaria e poliedrica κοινή narrativa; dall’altra l’incapacità di farlo.
Una narrazione epica contemporanea
La coda ricordava quella ai Musei Vaticani, e a differenza di quella non era composta perlopiù da turisti stranieri, bensì da romani o da gente dei dintorni che veniva a spendere il proprio sabato pomeriggio lì. Molti i bambini, sì1A proposito: sappiate che carrozzine e passeggini possono saltare la fila accedendo dall’ingresso in Via Milano 13., e facilmente si sarebbe tentati di immaginarsi i genitori trascinati dai figli su e giù per le attrazioni di un parco giochi. In realtà genitori e figli si richiamavano spesso a vicenda, da una sala all’altra, a rivedere i bozzetti, i calchi in resina, le prove colore di questo o quel personaggio.
Con formula logora potremmo affermare che la mostra “piace a grandi e piccini”… e non diremmo una falsità, ma non avremmo neppure sfiorato la questione del motivo: anche tralasciando i corti, che pure sono filologicamente importantissimi, i lungometraggi Pixar sono ormai 20, e sebbene vi siano alcuni titoli che hanno “funzionato meno” di altri – difficile dire che Arlo sia diventato popolare quanto Woody, o che WALL•E abbia raccolto il successo di Up! – nessuna sala della mostra lascia indifferente il visitatore. A mio avviso questo accade perché Pixar si è costruita addosso quell’apoteosi che ai grandi marchi multinazionali tocca quando si affermano stabilmente come parte della vita delle persone. E questo tanto più esponenzialmente quanto più intimamente della Nutella e della Coca Cola – le pubblicità di simili prodotti giocano sul fattore affettivo immensamente più di quelle di altri – una produttrice cinematografica “di settore” incide sulle coscienze (esprimendole e formandole al contempo).
Insomma, i quarantenni alla mostra ora in allestimento a Roma sembravano foraggiati a Pixar molto più dei loro figli: al limite avevano accumulato una lacuna che andava grossomodo da Monster & Co. a WALL•E. Ma l’aver o meno fruito di più “servizi” da parte della Pixar non può spiegare del tutto il motivo dell’affezione verso di essa. Anche una storia, una soltanto, raccontata bene, ti può cambiare la vita, perché gli archetipi dell’inconscio collettivo sono tali che ogni storia ben narrata, a guardarla con l’attenzione, è una parafrasi dell’unica storia, quella di qualcuno che cresce seguendo la scia dei propri desiderî e confrontandosi con alcuni grandi poli costanti: i genitori, i figli, il mondo, i nemici, gli altri… e quel “tu” lirico a cui s’indirizza ogni coscienza almeno nei momenti in cui riflette su sé stessa, quel “tu” nel quale i credenti riconoscono un Dio.
La “trinità” della Pixar
È l’insieme di questi pochi e costanti ingredienti a decretare il successo di un lungometraggio. Se lo si chiede a loro, agli artisti della Pixar, la ricetta si riassume in una triade di attenzioni “individue ma consustanziali”: il personaggio, la storia, il mondo. La mostra lo dichiara fin dalla prima sala: un grande personaggio è animato da grandi desiderî e pensieri, vive grandi azioni e grandi passioni. Quanto più esso è concepito a tutto tondo – e dunque non limitatamente all’economia del racconto, ma supponendo una ben più vasta e completa storia – tanto più il suo mondo sarà il nostro, ovvero saprà interrogare e spiegare ciò che tutti (spettatori e autori) viviamo. Non diversamente sono nate le grandi epiche del nostro mondo – dai poemi omerici all’Eneide alla Commedia –, e volentieri riporto le parole con cui Maria Grazia Mattei ha illustrato in cosa un simile processo sia tanto speciale:
Grazie a Pixar, il digitale passa dall’essere strumento a diventare medium per raccontare storie. Di più: si realizza la sintesi fra saperi diversissimi e apparentemente distanti come informatica, grafica, pittura, scultura, ingegneria e storytelling, immaginata, sognata dai pionieri della Cultura Digitale a partire dagli anni Sessanta.
Maria Grazia Mattei, Pixar, il futuro del cinema in Ead. & Elyse Klaidman (edd.), Pixar. 30 anni di animazione, Roma 2018, 14
La Rinascenza del lavoro di bottega
Bisognerebbe fare una digressione sullo specifico apporto del genio narrativo Disney: dal 2006, anno dell’acquisizione di Pixar da parte del colosso dell’animazione, si nota un innegabile incremento quantitativo (13 film in 12 anni contro 7 in 20) e qualitativo della produzione – penso che il genio disneyano si avverta forte, benché penalizzato da alcune scelte, in WALL•E, e finalmente prorompente nel recente Coco. Bisognerebbe soffermarsi molto su codesto aspetto, ma non è questa la sede opportuna.
Note
↑1 | A proposito: sappiate che carrozzine e passeggini possono saltare la fila accedendo dall’ingresso in Via Milano 13. |
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