Se tutto è andato bene lo si deve anche all’estrema cura che ciascuno degli organizzatori, ognuno nel suo ruolo, ha messo nella preparazione di questo campo, dalle riflessioni, ai giochi, alla cucina. Ma la buona riuscita del campo è stata possibile anche grazie alla lunga esperienza maturata nel tempo da questa comunità, esperienza che vogliamo qui condividere attraverso le parole di Fernando Spadaccia, che negli ultimi anni ha ricoperto il ruolo di Direttore dell’oratorio della nostra parrocchia, e che ha accolto l’invito ad essere intervistato per i nostri lettori.
Fernando, per quanti anni hai coordinato il gruppo dell’oratorio? Cosa ti ha spinto ad accettare questa sfida quando ti è stata proposta?
Ho svolto l’incarico di direttore negli ultimi tre anni, ma sono entrato nell’oratorio come animatore nel 2013. Avevo appena finito un ciclo di due anni come catechista di Cresima e l’allora parroco, Don Marco Simeone, durante il campetto finale mi disse a bruciapelo: «Ti piacerebbe continuare a seguire ‘sti ragazzi? No, perché all’oratorio servirebbe una mano…». La prima reazione è stata di paura. Paura di ricominciare, di un impegno eccessivo, di calarmi in una realtà nuova, di trascurare la famiglia, il lavoro, di rimettermi in discussione, di prendere una responsabilità più grande di me… insomma ma ‘sto calice deve passa’ proprio da me?
Quando alle mie ragionevolissime considerazioni il parroco (e si sa che i preti ne sanno una più del diavolo… per fortuna!) rispose “Io ci vedrei proprio te…”, è cambiato tutto. Mi sono sentito “chiamato”, in quel modo a cui si può rispondere solo con “… sia fatta la tua volontà!”, come diciamo sempre nel Padre nostro, perché lo diciamo convinti, giusto?
Insomma quello che mi ha spinto (è la parola giusta… sono un volontario “spintaneo”!) è stato il sentirmi chiamato: quando accade i timori rimangono, ma fidandoti e affidandoti sai che Qualcuno ti darà esattamente quello che ti serve per vivere al meglio la tua risposta.
Com’è nata la struttura del campo estivo? Mi riferisco ad esempio alla definizione delle diverse tipologie di attività e dell’alternanza dei tempi dedicati ad esse, ma, soprattutto, quello che più mi ha colpito e che ho trovato particolarmente efficace è stata la distinzione tra i gruppi di servizio, trasversali per età, e i gruppi di fascia, tra coetanei, che lavoravano sulle attività di riflessione.
La struttura del campo deriva dal progetto educativo e dal percorso fatto durante l’anno. Una cosa che mi ha colpito entrando all’oratorio sono state le risposte degli animatori, cioè degli educatori dell’oratorio, alla domanda: “Cos’è l’Oratorio?”. Io chiedevo per capire, ma le risposte che ricevevo non mi aiutavano poiché tendevano a descrivere quello che si faceva più che il fine per cui veniva fatto e il percorso per raggiungerlo. In piena confusione decisi allora di mettere in pratica il motto “vivere, amare e poi capire”, immergendomi negli incontri e nelle attività, ma soprattutto nelle relazioni con gli altri. Dopo due anni (meglio tardi che mai… è che mi piace tanto vivere ed amare, che ce posso fa’?), con l’amato assistente don Marco Seminara, arrivammo finalmente a “capire”, che avevamo bisogno di definire un nuovo progetto educativo per i nostri ragazzi. Fu un lavoro impegnativo ma bellissimo, a cui parteciparono tutti gli animatori e anche il parroco. Il progetto educativo, che ci siamo impegnati a rivedere ogni 3-5 anni, è parte integrante dello Statuto dell’oratorio e definisce che l’oratorio è innanzitutto una comunità, di persone che tendono tutte verso un unico scopo: accogliere, seguire e servire Gesù. Ai ragazzi dai 14 ai 20 anni viene proposto un cammino organizzato in 3 fasce, in base a età e tematiche proposte: la prima fascia (I-II superiori) è dedicata alla “scoperta di se stessi e del Creato”; la seconda (III-IV superiori) sviluppa i temi “amore e servizio”; la terza (V sup.- I università) offre un percorso di tipo vocazionale. Il campo è il momento in cui i ragazzi portano a compimento il cammino fatto nel corso dell’anno secondo le peculiarità di fascia, in cui condividono e si scambiano emozioni ed esperienze, in cui passano da una fascia all’altra, lasciando una testimonianza del percorso fatto a tutta la comunità. Il tutto ovviamente condito da attività comunitarie (passeggiate, gite, ecc.) e per gruppi trasversali (gruppi di servizio, giochi, ecc.), pensate per favorire la socializzazione oltre la propria fascia, senza dimenticare i momenti di riflessione personale (Deserto, adorazione, ecc.). Metti tutto questo in un frullatore, insieme a circa 100 tra ragazzi e animatori, aggiungi un prete (non di più, altrimenti è indigesto…) e versa la miscela in un posto naturalisticamente bello e ameno… ecco servito il campo dell’oratorio!
Negli anni avete avuto modo di osservare cosa funzionava e cosa no nel campo. Di solito si dice che prima di imbarcarsi in una nuova avventura è importante imparare cosa “non fare”, poi tutto il resto. Se dovessi confrontarti con degli educatori o con un neo parroco che sono alle prese per la prima volta con l’organizzazione di un campo per adolescenti, cosa consiglieresti loro assolutamente di non fare?
Più che consigli miei, poiché una delle carte vincenti per la messa a punto di questa “architettura” è stata l’integrazione tra figure diverse come età ed esperienze, provenienti anche da cammini differenti tra loro (scout, oratorio, azione cattolica, ecc…), provo a condividere i principali rischi da evitare, di cui abbiamo fatto esperienza insieme.
La prima cosa è non aver paura di puntare in alto: ma voi proporreste a dei ragazzi adolescenti, quelli che conoscete nella vostra vita di tutti i giorni, di passare la giornata pregando mattina e sera, partecipando all’Eucaristia e se ci scappa di fare anche qualche ora di deserto o adorazione? Quello che abbiamo sperimentato nei nostri campi estivi è che… si può fare! L’importante nella proposta è non confondere il contenuto con il contenitore: il contenuto è Gesù… in questo non possiamo giocare al ribasso, neanche per le nostre paure, non saremmo dei buoni educatori cristiani. Il contenitore, ovvero le modalità attraverso cui far passare il contenuto, invece può e deve essere adattato. I ragazzi sono assolutamente affascinati da Gesù, li attira, li “chiama” proprio… a noi il compito di accompagnarli, adattando percorsi, attività e modi di fare.
Il secondo elemento è quello di non pensare semplicemente di gestire un gruppo di adolescenti dall’alto, con ordine e disciplina… non ce la potete fare!
Don Benzi diceva che l’amore si trasmette per “trapianto vitale”: è fondamentale che gli educatori vivano il Vangelo e si “compromettano” con i ragazzi, facendo le cose insieme a loro, con l’entusiasmo, il trasporto e quel pizzico di sana pazzia di chi si sente “salvato”. Il nostro don che interpreta il Maestro Yoda di Star Wars nel lancio di un gioco è un esempio calzante… che non dimenticherò più, anche se mi procura degli incubi nel sonno!
L’ultimo rischio da evitare è infine quello di non cadere nella tentazione di pensare di essere noi gli artefici del progetto educativo con i ragazzi. Uno slogan da ripeterci continuamente è: “Dio esiste, ma non sono io!”. Il progetto è Suo, noi possiamo diventarne gli strumenti per realizzarlo, ammesso che poniamo attenzione nel seguire la giusta direzione che continuamente Egli ci indica. Se invece guidiamo i ragazzi secondo le nostre attese e le nostre pretese, rischiamo di fare un’esperienza perfetta dal punto di vista organizzativo, ma con nessun moto dell’anima e dello spirito: il classico caso di operazione riuscita e paziente deceduto. Come sappiamo spesso le Sue vie non sono le nostre vie, i Suoi tempi non sono i nostri tempi. È necessario rimanere costantemente e umilmente in ascolto per non cadere in questa tentazione. A questo scopo nella comunità animatori ci siamo abituati a dedicare dei momenti durante l’anno al discernimento personale e comunitario… aiuta molto.
Si dice che oggi sia più difficile coinvolgere gli adolescenti in un cammino di fede rispetto a quanto si riuscisse a fare anni fa. Secondo te è così? A tuo parere, quali sono le ragioni che hanno fatto sì che negli ultimi anni la nostra parrocchia abbia vissuto un’esperienza in controtendenza rispetto ad anni passati o ad altre realtà?
La maggiore difficoltà non dipende dai ragazzi ma da noi: è più difficile coinvolgere gli adolescenti in un cammino di fede se noi approcciamo i ragazzi di oggi come se fossero quelli di ieri. Oggi i ragazzi tendono molto di più a virtualizzare i rapporti e vivono in una società che li spinge ad una “veloce superficialità”. Ma proprio per questo hanno un bisogno disperato di un cammino di fede e di una comunità di riferimento. Hanno fame di Gesù, anche se non lo ammetteranno mai. In questo senso forse è addirittura più facile coinvolgerli, ma risulta molto più difficile aiutarli a dare continuità al loro cammino. Si tratta di contrastare la logica del mordi e fuggi e rafforzare la volontà di prendere in mano la propria vita e indirizzarla secondo le giuste priorità, piuttosto che farsi trasportare superficialmente. In un certo senso sembra quasi che i ragazzi di oggi si neghino la possibilità di essere felici veramente.
È per questo allora che abbiamo provato a proporre un “cammino verso la felicità”: un percorso a tappe in cui il ragazzo può rielaborare quello che realmente è (un figlio di Dio con corpo, anima e spirito… internet non ti basta per prenderti cura di tutte tre!), inserito nel Creato (natura, famiglia, scuola, amici,…) e chiamato a vivere l’amore e il servizio verso gli altri, cercando di scoprire la propria vocazione. Ogni tappa consente di consolidare una parte del percorso e aiuta i ragazzi a non farsi centrifugare inconsapevolmente dalla realtà: se ho capito che ho un’anima da alimentare con buone emozioni e uno spirito da curare con la preghiera, il fatto di incontrare i miei amici a Messa diventa una cosa per me importante, che mi fa bene, molto più che passare la domenica mattina a fare lo zombie tra il letto e l’ultimo videogioco!
Nella nostra proposta sono state poi fondamentali due cose. La prima è il ruolo che hanno giocato gli educatori: ragazzi fantastici, alle prese con l’università e le prime esperienze di lavoro, ma pronti al servizio e al sacrificio, disposti a mettersi in gioco, a seguire Gesù donandosi, “… date voi stessi da mangiare”. Ragazzi come loro sono una benedizione di cui bisogna prendersi cura, aiutandoli a diventare consapevoli che per primi sono chiamati alla felicità e fornendogli gli strumenti per aiutare a loro volta i ragazzi più giovani nel cammino, diventando per loro “la faccia simpatica di Gesù”.
La seconda è stata amare: amare gli educatori, i ragazzi, le loro famiglie e farli sentire amati, come li ama Dio, in maniera esagerata, inspiegabile, immeritata… Una persona che si sente amata può cambiare radicalmente e aprirsi all’Infinito. Noi siamo fatti a immagine di Dio che è Amore, costituzionalmente abbiamo bisogno di sentirci amati e siamo naturalmente predisposti ad amare. Come dice Sant’Agostino: “Ama, e fa’ ciò che vuoi!».
In questi anni la nostra parrocchia ha lavorato molto affinché si costruisse una vera e propria comunità e sappiamo quanto questa dimensione in particolare ti stia a cuore. Qual è il significato che dai al termine comunità? In che modo la sua costruzione e il suo consolidamento possono avere un impatto positivo sull’educazione e il senso di responsabilità che siamo tutti chiamati ad avere nei confronti dei nostri ragazzi?
Vabbè, con questa domanda ti sei fatta perdonare per aver definito nella prima l’oratorio come un “gruppo”… mi sono morso la lingua, ma poi te ne avrei dette quattro!
Scherzi a parte, è vero che tengo molto alla dimensione comunitaria, anche perché una delle più grandi fatiche del cammino di questi anni è stata proprio quella di trasmettere la gioia di essere comunità. I nostri ragazzi sono abituati alla logica del gruppo: entro e esco a mio piacimento, prendo quello che voglio, dò qualcosa solo se richiesto e magari avendo in cambio. Gruppi sui social, clan nei giochi elettronici, gruppi per feste evento… quando dice bene gruppo temporaneo di studio, ma deve dire proprio bene eh!
Fanno fatica a instaurare una relazione reale (in quelle virtuali sono fenomeni… tanto si possono “bloccare” quando vuoi!) e soprattutto a mantenerla e a coltivarla, anche nei momenti che costa fatica, i più importanti per la crescita.
È per questo che hanno bisogno più che in passato di avere una comunità di riferimento, anche perché quella più prossima, che è la famiglia, oggi è in crisi, e spesso non aiuta a creare modelli relazionali sani, in particolare per quel che riguarda l’affettività.
Si rischia quello che definisco un “autismo relazionale”, che ti fa essere solo anche se hai un milione di contatti, ma che soprattutto impedisce di sviluppare la relazione più importante della vita, quella con il Signore.
La comunità è un antidoto e una cura naturale a questo rischio. Nella comunità incontro gli altri, condivido con loro un cammino, dei principi e anche delle regole da rispettare per il bene mio e degli altri. La comunità, per citare J. Vernier, è “il luogo del perdono e della festa”, ovvero il luogo (fisico! Noi ci diamo un sacco di abbracci… !) dove scopro e accolgo i limiti miei e degli altri e dove posso ringraziare e testimoniare la gioia di amare e sentirmi amato. Ma soprattutto, è nella comunità che io incontro il Signore, perché “dove due o tre sono riuniti nel Mio nome, Io sarò con loro”.
Credo che il campo faccia vivere ai partecipanti l’essenza di tutto quello che mi hai fatto raccontare oggi, e molto di più. Perciò se qualcuno ti chiederà di saperne di più, lo Statuto dell’oratorio con tutti i contenuti è sempre disponibile, ma se vuoi essere sicura che abbia compreso, invitalo a passare una serata di festa con noi: un centinaio di ragazzi che cantano a squarciagola, magari intorno ad un fuoco, gli “trasmetteranno” tutto in un istante!
Provare? No, risponderebbe Yoda… Fare o non fare… Non c’è provare. Ma quando fate, vi possiamo assicurare che ne vale la pena! E che la Forza sia con voi!
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