Quei #prolife degli Elfi di Tolkien si consumano d’amore

Dare la vita fino a consumarsi

La spiegazione che Tolkien dà – meglio, comincia a dare – discende dallo stato di corruzione in cui Arda, il Mondo Creato, versa fin dalla creazione (il dato cosmologico originale del mito). Poiché ad essa lo spirito, fëa degli Elfi è legato fino alla Fine dei Giorni, contrariamente a quello degli Uomini che alla morte si dipartono dal mondo, essi sono naturalmente immortali, ovvero inseparabili dal mondo. Ma essendo il corpo, hröa, fatto della medesima sostanza del Mondo, quantunque anch’esso in origine destinato per essere incorrotto, è coinvolto nella corruzione del mondo: pur longevo quanto Arda, esso può guastarsi e guastarsi irrimediabilmente (gli Elfi non patiscono alcuna malattia, ma una ferita e un grande dolore possono separarli dal corpo). Tra spirito e corpo, fëa e hröa c’è una coesione radicale che è precisamente la vita naturale ed innaturale degli Elfi, ma essi rimangono due elementi distinti la cui separazione definisce innaturalmente la morte elfica. E poiché il fëa incorrotto contrariamente al hröa si preserva nella forza vitale, nel farlo sopravanza, consumandolo, il hröa corrotto lungo tutta la vita: nel procedere delle Ere, gli Elfi sbiadiscono nel corpo per effetto di tale consunzione fino a che il hröa persiste come mera memoria dello spirito e gli Elfi appaiono così invisibili agli occhi dei mortali, a meno che non dimorino in Aman, l’Occidente Beato dove il dominio dei Valar conserva la Creazione dalla corruzione.

In Laws and Customs siamo solo al principio di questa riflessione e per presentarla debitamente bisognerebbe, come accennato in principio, discutere tutti i testi del periodo l’uno comparato all’altro. Ma già qui affiora l’elemento che rende ancora più preziosi i “giorni dei figli” nella vita degli Eldar. Infatti, che siano in Aman o altrove, in nessun’altra opera si consumano e riversano, cedendola, la propria forza vitale quanto nella generazione (ed ancora più nella gestazione), in modo incomparabile rispetto a quanto avviene per i figli mortali. Gli Elfi in senso letterale danno la propria vita, consumandosi gioiosamente per i figli nel generarli e custodirli. Perciò è bene che sia la giovinezza, quando il corpo corruttibile non è consunto dall’esuberanza dello spirito incorrotto, il tempo della loro generazione e perciò i più tra gli Eldar non generano che pochi figli. Il desiderio si placa dunque secondo la facoltà del corpo.

Jenny Dolfen, Fëanoreans – Family Picture. Vi sono raffigurati i primi 5 figli di Fëanor in una virtuale (e inesatta) giovinezza contemporanea e la sua sposa Nerdanel.

Quanto a Míriel, ella prima di dipartirsi dichiarò ch’avrebbe avuta forza per molti, ma che Fëanor l’aveva consumata interamente: altri quattro figli Finwë condivise con la sua nuova sposa. Sicché dall’incontro trai due uno fu generato, Fëanor, che con la sua sposa è il solo che si ricordi ad averne avuti addirittura sette. La storia di Finwë e Míriel troverà linfa rinnovata e sarà prontamente riscritta, ampliando e approfondendo gli elementi che costituiscono l’“immortalità” degli Elfi ridisegnata, dopo altre sezioni del trattato in cui si parla della rinascita (un’idea poi abbandonata), della morte come separazione e il suo effetto sul matrimonio. Ad introduzione dell’ipotesi della rinascita, Tolkien presenta due versioni della tradizione elfica circa la provenienza del fëa. Se sul corpo, il hröa, c’era concordia che fosse risultato dell’unione dei genitori e da essi conferito ai figli, con la conoscenza e convivenza coi Valar cominciò un grande dibattimento in merito alla provenienza del fëa, se cioè provenisse direttamente da Eru, o se l’Uno avesse affidato anche la generazione in spirito all’unione dei genitori. La seconda opinione è la più arcaica e quand’anche ebbero ricevuto istruzione dai Valar, non tutti gli Eldar si convinsero della prima perché vedevano marcate le rimembranza tra genitori e figli e non tutte riconducibili all’eredità corporale. Così, essa fu gradualmente mitigata ed integrata nella prima, quella che in parte si potrebbe considerare “rivelata”1Il mio amico e autorità internazionale in merito alla teologia nell’opera di Tolkien, Claudio Testi, in alcune conversazioni mi ha confidato di non ritenere che si possa parlare di contributi “rivelati” nella teologia degli Elfi o degli Uomini in Tolkien. Certamente la base della riflessione teologica interna all’opera di Tolkien è di tipo naturale, la stessa cognizione di Eru sia negli Elfi che negli Uomini precede l’incontro dei primi coi Valar e dei secondi con gli Elfi. Ma la trasmissione della dottrina, anche solo storicamente, segue una gerarchia e i Valar stessi arrivano a consigliarsi con Eru durante la Storia degli Eldar (il caso esemplare è proprio quello che apre questo articolo), comunicando alcuni contenuti veritativi che come tali sono accettati dalla tradizione Eldarin e ne fondano la sapienza. ed è qui che il concepito diventa un soggetto esistenzialmente attivo e si affaccia anche ad essere un soggetto di diritto (naturale perciò costitutivo):

Poiché tutti gli Eldar, avendone coscienza in loro stessi, parlano di quanta forza abbian lasciato, sia nella mente che nel corpo, nei loro figli durante la gestazione e la generazione. Perciò sostengono che il fëa, sebbene ingenerato, attinga nutrimento dai genitori prima della nascita: direttamente dal fëa della madre finché lo serba e nutre nel hröa, e per mediazione ma nella stessa misura dal padre, il cui fëa è congiunto in unione con quello materno e lo sostiene.
È per questa ragione che tutti i genitori desideravano dimorare insieme nell’anno dell’attesa e consideravano la separazione in quel tempo come un lutto ed una ferita, che priva il bimbo di una certa parte della sua paternità. «Poiché» dicono «sebbene l’unione dei fëar dei coniugati non sia spezzata dalla distanza dello spazio, eppure nelle creature che vivono come spiriti incorporati un fëa entra pienamente in comunione con un fëa solo quando i corpi risiedono insieme»2MR 220..

La convivenza di madre e padre trova il suo primo valore fondante nel diritto naturale del figlio di partecipare dell’unione genitoriale anche durante la gravidanza, il diritto di godere della cura paterna in particolare. Non si può che condividere l’opinione di Christopher Tolkien per cui il saggio intero costituisce per il padre:

una dichiarazione esaustiva (seppur talvolta oscura ed accattivante nella sua oscurità) del suo pensiero circa aspetti fondamentali della natura dei Quendi, a distinguerli dagli Uomini3MR 210..

Infatti il testo è chiaramente scritto secondo una prospettiva “umanica” 4Il neologismo “umanico” è talvolta impiegato in Italia per tradurre l’Inglese “mannish”, che Tolkien utilizza come “proprio degli Uomini in quanto popolo”. La distinzione è importante perché, come si vede, “umano” [tr. di “human”] nella mitologia tolkieniana è riferibile tanto agli Uomini, quanto agli Elfi (e volendo si potrebbe estendere con alcune precisazioni anche per Nani ed Hobbit)., come nota sempre Christopher. Nella seconda versione Tolkien attribuisce almeno un preambolo ed un commento a chiusura del trattato direttamente ad Ælfwine, il navigatore anglosassone alto-medievale che riscopre la Strada Diritta per le Terre Beate d’Occidente e riceve dagli Elfi l’antica tradizione del Silmarillion che poi, nella trasmissione fittizia, giungerà allo stesso Tolkien. Tuttavia anche il testo pre-esistente che Ælfwine correda riceve la sapienza elfica come qualcosa che parla di altro da sé. Nella mitopoiesi tolkieniana il problema del tramandarsi dei racconti e delle tradizioni, la prospettiva su di essi dei redattori ed autori (fittizi) e dei due popoli, Elfi e Uomini, assume sempre maggior rilievo. Le vicende del Silmarillion sono in genere (e a buon diritto) descritte come “elfocentriche” anche dallo stesso Tolkien, ma con l’ultima maturità i testi non sono più intesi come storie di Elfi per Elfi, bensì frutto di dialoghi e dispute, convergenze e divergenze, confronti e mediazioni, una polifonia in cui si integrano in modo complesso i punti di vista soprattutto di Eldar e Edain, gli Uomini amici degli Eldar. Negli ultimi anni, Tolkien addirittura propenderà per l’idea che quasi nessuno dei molti testi e racconti da lui composti sarebbe potuto provenire dalla diretta penna degli Eldar, senza la mediazione della prospettiva Uomini su di essa5Cfr., oltre alla sezione Myths Transformed del medesimo volume, la lettera #245 a Rhona Beare del 25 giugno 1963 e #325 a Roger Lancelyn Green del 17 luglio 1971 in Lettere 1914-1973.. Anche in questo approccio Laws and Costums è pioneristico.

È allora interessante notare che se il redattore ci dice che la denominazione “giorni dei figli” è un frutto della tradizione Eldarin, la distinzione tra generazione e nascita e che tanto nell’una quanto nell’altra sia presente un bambino è una nozione pregressa, che il redattore non si premura di spiegare ma che dà per acquisita nel lettore. Naturale tanto per gli Eldar di cui si racconta, quanto per gli Edain che ne leggono. Infatti, per gli Eldar e gli Edain non c’è dubbio alcuno che essi appartengano alla medesima specie, né per l’autore che le due stirpi rappresentino diversi aspetti dell’Umano6Ibid., Bozza di Lettera #153 a Peter Hastings del settembre 1954 e Lettera #181 a Michael Straight del febbraio 1956.. Essi sono chiamati Eruhíni, i Figli di Eru (o di Ilúvatar nella variante più nota) e, siccome la loro figliolanza ugualmente da Eru procede con l’infusione dei diversi spiriti nei diversi corpi, Mirröanwi, gli Incarnati: è nella fertile unione delle due stirpi che avverrà la liberazione dall’Ombra, nella generazione di figli dell’una e dell’altra insieme.

Nessun dubbio rimane allora anche sul fatto che gli Uomini fedeli, gli Amici degli Eldar, ammirassero e condividessero la concezione della persona e la cultura della vita degli Eldar. Tolkien ci ricorda dal di-dentro di questo metodo polifonico, che quando leggiamo degli Elfi lo facciamo perché ci riguardano, perché essi ci raccontino qualcosa di noi, della nostra vita (se certo non nella totalità) in quell’unità e integrità che ispirano, dal principio alla fine, nell’essere donati e nel donarsi.

Chiunque vorrà condividere la stessa amicizia, può farne a meno?

 


Per approfondire i temi collegati (in Italiano)

Note

Note
1 Il mio amico e autorità internazionale in merito alla teologia nell’opera di Tolkien, Claudio Testi, in alcune conversazioni mi ha confidato di non ritenere che si possa parlare di contributi “rivelati” nella teologia degli Elfi o degli Uomini in Tolkien. Certamente la base della riflessione teologica interna all’opera di Tolkien è di tipo naturale, la stessa cognizione di Eru sia negli Elfi che negli Uomini precede l’incontro dei primi coi Valar e dei secondi con gli Elfi. Ma la trasmissione della dottrina, anche solo storicamente, segue una gerarchia e i Valar stessi arrivano a consigliarsi con Eru durante la Storia degli Eldar (il caso esemplare è proprio quello che apre questo articolo), comunicando alcuni contenuti veritativi che come tali sono accettati dalla tradizione Eldarin e ne fondano la sapienza.
2 MR 220.
3 MR 210.
4 Il neologismo “umanico” è talvolta impiegato in Italia per tradurre l’Inglese “mannish”, che Tolkien utilizza come “proprio degli Uomini in quanto popolo”. La distinzione è importante perché, come si vede, “umano” [tr. di “human”] nella mitologia tolkieniana è riferibile tanto agli Uomini, quanto agli Elfi (e volendo si potrebbe estendere con alcune precisazioni anche per Nani ed Hobbit).
5 Cfr., oltre alla sezione Myths Transformed del medesimo volume, la lettera #245 a Rhona Beare del 25 giugno 1963 e #325 a Roger Lancelyn Green del 17 luglio 1971 in Lettere 1914-1973.
6 Ibid., Bozza di Lettera #153 a Peter Hastings del settembre 1954 e Lettera #181 a Michael Straight del febbraio 1956.

2 commenti

  1. Articolo veramente illuminante, che invita a conoscere più a fondo (e con maggior sottigliezza) l’opera di Tolkien…complimenti!

    • Grazie Elena, il primo scopo è sempre quello di approfondire la compagnia che ci fa l’autore con le sue storie, specialmente quando, mossi da pur nobili scopi, siamo tentati di trattarlo con distrazione, come se dare attenzioni a temi fondamentali come quelli di alcune battaglie ci portasse ad essere meno attenti alle parole che c’ispirano, pur di usarle a nostro vantaggio. In realtà è proprio il contrario, solo quando le facciamo nostre ci affiancano nelle nostre battaglia.

      Tolkien andrebbe considerato davvero nella totalità – o nella maggior completezza possibile – della sua opera (senza timore di esagerare quanto Dante, Shakespeare, Goethe, Dostoevskij, Hugo…), in Italia è più difficile che altrove, ma proprio per questo è quanto mai importante ricordare che le Storie degli Hobbit non sono che un frammento, seppure il più brillante, dell’epica che ha raccontato per quasi 60 anni.

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