Il viso paffuto e delicato di Alfie ci ha rubato il cuore. Ora che è morto ci accompagna un misto di dolore e rabbia, e la preghiera fatica a farsi strada. Ma non deve essere abbandonata. Per la sua famiglia ma anche perché cambi questo sistema luciferino che ha condannato un bimbo a morte e che presto individuerà altre vittime sacrificali. Questa storia, però, ha avuto anche un altro protagonista: Thomas Evans. Per i cristiani, come sottolinea il proemio della Gaudium et Spes, «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Così siamo rimasti incantati dal coraggio di questo giovane inglese. Il viso smagrito del papà di Alfie, i suoi occhi sofferti, la sua determinazione… tutto in lui ci ha parlato di una forza fuori dal comune. Nel fratello in umanità (e di fede) Thomas abbiamo visto il riflesso più bello di quella creatura che Dio ha rimirato, al vertice della Creazione, come “cosa molto buona”.
Sono profondamente toccato dalla morte del piccolo Alfie. Oggi prego specialmente per i suoi genitori, mentre Dio Padre lo accoglie nel suo tenero abbraccio.
— Papa Francesco (@Pontifex_it) April 28, 2018
Su quale terreno è fiorito questo giovane inglese? La domanda è stata meditata a lungo nel cuore e forse non ha ancora trovato una risposta. La giovane età non spiega tutto. Una volta i giovani partivano lancia in resta per conquistare il mondo, sposando battaglie, accogliendo ideali, coltivando vittorie con tenacia e pazienza. Oggi sono differenti. Molti di loro hanno occhi inespressivi, passioni mediocri, la tendenza ad isolarsi in un mondo irreale e vacuo. Papa Francesco li ha messi in guardia dalla divano-felicità, che li intrappola in una comodità senza valori:
Mi piace chiamarla la paralisi che nasce quando si confonde la felicità con un divano, un canapè. Sì, credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri. Un divano, come quelli che ci sono adesso, moderni, con massaggi per dormire inclusi, che ci garantiscano ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi e passare ore di fronte al computer. Un divano contro ogni tipo di dolore e timore. Un divano che ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci. La “divano-felicità” / “kanapa-szczęście” è probabilmente la paralisi silenziosa che ci può rovinare di più, che può rovinare di più la gioventù. «E perché succede questo, Padre?». Perché a poco a poco, senza rendercene conto, ci troviamo addormentati, ci troviamo imbambolati e intontiti. L’altro ieri parlavo dei giovani che vanno in pensione a 20 anni; oggi parlo dei giovani addormentati, imbambolati, intontiti, mentre altri – forse i più vivi, ma non i più buoni – decidono il futuro per noi.
Cracovia, Veglia di preghiera con i giovani, GMG 30 Luglio 2016
Nemmeno la paternità spiega tutto. Sessant’anni fa o anche più indietro, Thomas Evans avrebbe potuto essere la regola, insieme a tanti giovani padri, esemplari come lui, segnati dalla fatica del vivere ma anche dalla maturità, pronti a tutelare le loro famiglie ma anche a dargli una guida autorevole. Oggi Thomas Evans è una delle non molte eccezioni. Tanti giovani padri attuali sono compagni più che guide per i loro figli. Pronti ad assecondarli in tutto, specialmente quando questi rimangono figli unici. La paternità e la maternità non saranno mai scontate né lo sono mai state – chi pensa che essere padre e madre sia facile sbaglia – ma l’attualità ci rivela che i genitori vivono i loro ruoli con una difficoltà superiore al passato (per questo motivo, più che colpevolizzarli occorrerebbe aiutarli). Intervenendo ad una trasmissione televisiva Paolo Crepet ha spiegato:
Noi non abbiamo più figli, ma piccoli Budda a cui noi siamo devoti, per cui possono fare tutto. Scelgono dove andare a mangiare, in quale parco giochi. Siamo diventati genitori che dicono sempre di si. Ma questo è sbagliato.
Qual è il motivo? Forse, coltivando la “mistica del figlio”, i giovani padri e le madri nutrono la speranza di elevarsi verso le vette di un riconoscimento sociale attraverso i successi e le conquiste dei loro nati, oggi più che mai, in una cultura che ci vuole tutti vincenti, realizzati, perfetti. Per questo motivo spesso li difendono oltre l’indifendibile: una cattiva azione attribuita al figlio non è più avvertita come una falla dell’educazione, da poter tappare con un pomeriggio in più sui libri e un’uscita in meno, per ripartire. È, invece, paragonabile all’affondamento del Titanic. Un’imperfezione nel figlio, oggi, è un dramma per molti genitori.
Thomas non è nemmeno un prodotto della società in cui viviamo, né inglese né occidentale. Abbiamo letto una riuscita radiografia della cultura inglese come radice del male a causa del nascere e dello svilupparsi, in terra di Albione, delle idee eugenetiche. L’Inghilterra ci ha inquietato molto in questi ultimi anni: se la Chiesa locale ne è l’espressione, l’incomprensibile comportamento dei pastori cattolici inglesi è un segno più che inquietante della deriva vissuta. Tuttavia, è inutile nascondersi dietro un dito: molti stati, insieme all’Inghilterra, hanno abbracciato o sono tentati di abbracciare questa antropologia al ribasso, questa cultura dello scarto. Dove non c’è più spazio per i deboli e per i malati, che siano cronici, in stati vegetativi o terminali. Dove non c’è più posto – diremmo – per la realtà, con la sua bellezza incompiuta, schiacciata dall’utopia dell’uomo perfetto. Ma sappiamo che non è tutta la verità: il “best interest” delle creature rese più fragili da patologie o da incidenti è in realtà il paravento dietro il quale si nasconde l’attenzione maniacale per l’aspetto economico. Thomas – sperando di salvare il figlio – ha detto che Alfie appartiene all’Italia: questo ci rende orgogliosi per la partecipazione che abbiamo mostrato. La cittadinanza italiana per Alfie ci dice come sia ancora possibile che la politica presti attenzione alle questioni etiche. Noi, però, sappiamo bene che le DAT sono già una realtà e se non c’è una poderosa inversione di marcia non sarà che il primo passo verso l’eutanasia esplicita. L’Italia è già contagiata dal virus infernale della cultura dello scarto: il concetto di “vita futile” (per usare l’odiosa espressione di un giudice inglese) è già stato seminato.
Thomas però ci dà speranza.
Ci ha raccontato un altro modo di essere giovane, di essere padre, di essere nella società. «I genitori non si rassegnano», ha detto Mariella Enoc, in questi giorni, all’uscita dall’Alder Hey Hospital dove era andata a portare la vicinanza del Santo Padre. Thomas ci ha insegnato, insieme alla sua Kate, – con quel suo battersi senza tregua per strappare il loro bambino alle fameliche zanne di una cultura che uccide – che non ci si può mai rassegnare ad essere giovani spalmati su un divano, padri in crisi di identità, cittadini che coltivano idee eugenetiche. Perché il rischio è che finiamo deprivati del diritto di curare noi stessi. O del diritto di provvedere ai nostri cari per vederseli morire soffocati “in grembo”, come suggeriva il protocollo ospedaliero dell’ospedale inglese, spaventoso nella sua finta compassione. Non abbiamo alcuna certezza su quale “terreno” sia maturato questo frutto buono che ha nome Thomas Evans. Forse, semplicemente, da una famiglia che si professa cattolica e, pur senza vessilli e grandi impegni ecclesiali, gli ha dato la linfa che ha nutrito il suo coraggio. Giovanni Marcotullio ha scritto che è «gente semplice e buona. Troppo per piacere a Mr. Justice».
Thomas ci ha raccontato anche un altro modo di essere cristiano. Da una lettera, abbiamo appreso che il padre di Alfie è battezzato e cresimato. Forse – chissà – non c’è molto più di questo. Ma la difesa a spada tratta dell’esistenza del suo bambino non è stata una professione di fede nel Signore della vita? Thomas ci ha costretto a fare i conti con la nostra fede senza scossoni. La sua vicenda ci ha posto alcune domande: quanto siamo disposti ad investire in energie e determinazione per quello in cui crediamo? E saremmo capaci, se le circostanze dovessero chiamarci a farlo, di difendere appassionatamente la fede cristiana che professiamo? E di tutelare il nostro prossimo? E, ancora, possiamo dirci più cristiani di altri solo perché abbiamo un “curriculum” ecclesiale più nutrito?
Non sappiamo come Tom – chiamiamolo come fosse un amico, perché ci è diventato familiare – si comporterà nei prossimi anni. Non possiamo fare alcuna previsione sull’evolversi della sua vita. Ma il suo presente ci ha trafitti. Perché, come giovane padre e cittadino, in questi pochi mesi è stato quello che siamo chiamati ad essere tutti: espressione di un’umanità vera, nobile, bella, eroica. Che si batte per la vita e per la cura dei più deboli, rischiando. Solo così potremo essere anche genuinamente cristiani.
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