Finché Alfie combatte, noi combattiamo.
Con questa frase Thomas Evans ha risposto e continua a rispondere a tutti coloro che gli domandano come fa, perché lo fa, perché resiste alle immani pressioni che lo circondano.
Non è una frase qualunque, uno slogan: è in effetti l’unico punto di vista corretto con cui affrontare i malati gravi, compresi quelli terminali, sofferenti, senza speranza.
Ho letto sui social paginate di odio contro gli Evans e tutti gli “integralisti cattolici” che si abbarbicano ad un bambino indifeso per fare propaganda (non è chiaro propaganda a cosa), invece di lasciarlo andare, lasciarlo morire (o farlo morire, per loro è uguale), dal momento che è tanto malato, forse sofferente, di certo incosciente, comunque destinato ad una vita grama (qualcuno dice esplicitamente inutile).
Thomas scrolla il capo e dice no: non ci sono aulici motivi, scientifiche pretese, filosofiche motivazioni. Semplicemente quel bambino, il loro bambino, combatte. E finché tiene duro lui, i genitori non possono mollare.
Poi certo c’è la fede, che dà consistenza al cuore nella prova e riempie di motivazioni una battaglia infame; ci sono anche tanti pareri scientifici, tante prove di ingiustizie e negligenze subite. Insomma, ci sono argomenti da dare in pasto al mondo affamato di discussioni, ognuno in cerca di un taglio alla vicenda che sia congeniale a se stesso.
Ma tutto questo resta collaterale al fatto centrale: Alfie combatte. E lo mostra nel suo restare pervicacemente vivo, nel reagire agli stimoli dei genitori, nel respirare per ore quando l’ospedale ha cercato di sospendere la ventilazione mesi fa. È stata proprio quella circostanza a far maturare nei giovani genitori la consapevolezza che ad Alfie delle sperequazioni di giudici e medici non importa nulla, ma vuole solo vivere. Ed in effetti non credo esista un caso al mondo di bambini in età pre scolare che vogliano morire, qualunque sia la loro condizione. La natura umana, prima di venire avvelenata dall’odio (molto più che dal dolore fisico), ha le idee chiarissime in merito e punta alla vita e alla sua preservazione come massima esigenza, priorità assoluta, apice della piramide delle necessità e dei desideri.
Il best interest in gioco chiaramente non è quello di Alfie, ma della struttura sanitaria e giuridica inglese, perché un “interest” che non tiene in nessun conto la volontà intima del soggetto non sta in piedi.
Anche Isaiah Haastrup voleva vivere: ha respirato per 7 ore, dopo che gli è stato sfilato il respiratore. Ha usato i suoi poveri muscoli toracici atrofizzati da mesi di intubazione finché ha avuto forza. Ha annaspato fino all’ultima boccata d’aria. E dire che era paralizzato, con la bocca abbandonata in un rilassamento incontrollato. Avrà respirato per riflesso condizionato? Certo che questi movimenti involontari hanno una potenza incredibile, non c’è che dire. Bisogna proprio impegnarsi per contrastare la voglia di vivere di un corpo, continuiamo ad agitarci come la coda staccata di una lucertola.
Anche Charlie Gard, con i muscoli spolpati dalla sua patologia, materialmente incapace di muoversi, ha respirato da solo per 12 minuti. Dove ha preso la forza?
Cosa sia questo pervicace attaccamento alla vita nessuno ce lo sa spiegare: anzi, proprio gli atei più esagitati, quelli che “la fede è l’oppio dei popoli”, ultra convinti che con l’ultimo respiro se ne vada l’ultima possibilità di esistere in un modo qualunque, sono i più accaniti nell’invocare la terminazione anzitempo dei malati terminali, mostrando una inspiegabile fretta a levare dal pianeta certi individui. Sembra quasi che solo la fede in un aldilà dia senso all’aldiqua, riempia di contenuto un istinto alla sopravvivenza che nasce con noi e che le difficoltà della vita tentano di estirparci in ogni modo dal cuore.
Sono furiosi, certuni, accusando gli Evans di essere dei cocciuti insensibili. Insensibili alla sofferenza del figlio. Lo costringono a vivere.
Thomas dorme sul pavimento per non lasciare solo suo figlio: sarebbe più facile cedere.
Hanno perso la propria vita, al di fuori dalla mura di quell’orribile ospedale, sono circondati solo da personale ostile, la polizia è sulla porta, i giudici parrucconi puntano loro il dito contro: sarebbe più ovvio cedere.
Non hanno prospettive di cura, visto che non hanno nemmeno una diagnosi. Dopo mesi e mesi di sedazione e cure approssimative o sbagliate, che si possano rimediare i danni cerebrali è assai difficile. Sarebbe più sensato cedere.
Ma Alfie combatte e quei due giovani lo vedono. E allora non importa dove si va, né per quanto tempo ancora, né con quali mezzi. Alfie, incosciente e immobile, guida la famiglia. Un paradosso incomprensibile.
Essi sembrano gli unici che, invece di guardare se stessi e la propria stanchezza (o il proprio cinismo ateo, o i costi delle terapie, o l’onorabilità del sistema sanitario inglese, o l’opportunità diplomatica, o “quello che farei io se fossi…”), continuano a guardare Alfie.
La moglie di Vincent Lambert sta conducendo una battaglia legale infinita per far morire il marito per sospensione di alimentazione e idratazione, sostenendo che, quando “era ancora lui”, non avrebbe mai voluto vivere così. Non guarda a come è ora, a chi è ora.
Il confine tra accanimento e cura, al di là di tutte le spiegazioni bioetiche e mediche che si possono fare con cognizione di causa (o anche senza, talvolta), si vede solo guardando il malato, anzi, la persona malata, che abbiamo davanti, in quel momento, non in un passato che fu o in un futuro che non sarà, guardandola per davvero, ascoltando i suoi segnali, gesti, sospiri, ascoltando per capire, aperti sempre davanti all’insondabile ignoto che ciascuno resta, in qualunque condizione si trovi.
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