La “convinzione” e la “certezza” ad orologeria: collegialità ed irriverenza
In tutti i casi, questa difformità di certo non può essere ricevuta con favore, sollevando inevitabilmente forti dubbi sulla buonafede di chi stende questi comunicati. Se infatti è «grazie all’assistenza» della cappellania che le critiche sono da ritenersi «infondate» e proprio l’assistenza della cappellania nei confronti della famiglia è così pesantemente adombrata, come possiamo condividere la convinzione dei Vescovi quand’essa proviene dalla stessa opera, specialmente se si limita a considerare le istanze dell’ospedale?
In altri termini, come si può invocare l’autodenuncia di parzialità – volontaria o effettiva, a seconda di a quale comunicato dobbiamo credere – come una garanzia di credito ben riposto? Solo presupponendo il totale discredito dell’altra parte in causa ovviamente, la famiglia (e siamo già a due bastonate su Thomas e Kate, già troppe per la carota della preghiera).
È utile guardare alle tempistiche con cui è stato pubblicato questo secondo comunicato, riassumendo brevemente la giornata di ieri. Dell’udienza privata di Thomas si viene a sapere tramite La Nuova Bussola Quotidiana mentr’è in corso, tra le 9 e le 9.20. Oltre che dalla NBQ, i contenuti dell’udienza vengono diffusi da metà mattina fino all’una, progressivamente, dai media vaticani, quindi dalle agenzie internazionali cattoliche e dai pochi giornalisti italiani che aggiungono quanto hanno ascoltato nella conferenza stampa di Thomas nella piazza della Basilica di San Pietro (con affermazioni non perfettamente collimanti tra i vari report). All’1 italiana il quadro sulle questioni fondamentali è chiaro: il Papa ha rinnovato e rinforzato l’impegno per aprire un canale diplomatico per trasferire Alfie e la sua famiglia al Bambin Gesù.
Il comunicato della CBCEW viene diffuso alle 14.30 inglesi, alle 15.30 italiane, subito ripreso dal Catholic Herald in un aggiornamento del reportage sull’incontro in Vaticano (tanta rapidità si deve probabilmente ad una segnalazione diretta dell’organo alla stampa). Passano cioè 2h e mezzo tra l’emersione di un quadro chiaro della presa di posizione del Santo Padre e della Segreteria di Stato e la diramazione del comunicato della CBCEW, anche se è facile che le informazioni fondamentali dell’udienza siano arrivate prima ai Vescovi Inglesi e poi pubblicate dalla stampa. Che il comunicato sia stato steso almeno in parte dopo l’udienza (o comunque dopo che i vescovi anglo-gallesi hanno saputo dell’intenzione del Papa in ambito diplomatico) è evidente dalla menzione del Bambin Gesù, non più inteso come dalle sentenze – dal comunicato particolare recepite testualmente, a prescindere dalla loro esattezza – una consulenza o una disponibilità passiva, ma quasi provocato ad esporsi in sede giudiziaria (come se fosse stato concesso, ma di questo parliamo più sotto).
I Vescovi Inglesi non si erano pronunciati dopo la sentenza del 20 febbraio, né l’hanno fatto subito dopo la sentenza di lunedì in Appello, non una parola pubblica dall’arcivescovo McMahon, nulla su iniziativa del pres. della CBCEW, l’Arcivescovo di Westminster card. Vincent Nichols e nemmeno una semplice nota firmata dal Segretario Generale, il Rev. Christopher Thomas: si muovono pubblicamente solo ieri, solo dopo l’intervento della Santa Sede. Un vero e proprio placcaggio mirato che vorrebbe mitigare l’effetto della determinazione con cui la Segreteria di Stato si è impegnata a muoversi, tentando di collocare, di fronte all’opinione pubblica britannica, le notizie da Roma in un contesto marginale tramite supposti difetti di cognizione in Vaticano della reale situazione in quel di Liverpool. Qui s’inserisce il secondo elemento di raffronto con il comunicato particolare dell’arcidiocesi di Liverpool, ricevuto nella sera di venerdì, ovvero qualche ora dopo che Thomas Evans aveva rilanciato, accolto il ricorso in Appello, il suo personale appello al Papa. Con analogo tempismo dagli eventi vaticani interviene la dichiarazione dell’episcopato riunito, clonando di fatto lo schema del precedente privato e trasferendo sul piano pubblico.
Ma una dichiarazione prodotta con tale tempismo come può essere espressione dell’intera Conferenza di Inghilterra e Galles? Per questo avrebbero dovuto consultare rappresentanti dell’episcopato delle 22 diocesi a stretto giro. Quando esattamente? Sicuramente non possono aver tutti espresso un parere sul paragrafo concernente il Bambin Gesù (prodotto, come sopra, concluso in poche ore) mentre la difesa a spada tratta dell’integrità dell’Alder Hey potrebbe essere stata concordata su invito dello stesso Arcivescovo McMahon, ricalcando il penultimo paragrafo conclusivo del comunicato di Liverpool, ma non prima che di essersi assicurato che questo non abbia avuto l’effetto desiderato presso la Santa Sede. Accostando i paragrafi dai due comunicati si legge perfettamente una progressione dal primo, formale e apparentemente descrittivo:
L’Alder Hey Hospital è stato un centro di eccellenza nelle cure pediatriche per più di 100 anni e si prende cura di più di 270mila bambini, giovani e famiglie ogni anno. Non opera isolata e le evidenze cliniche sono raccolte da centri di tutto il mondo.
E il secondo, non puramente assertivo, ma quantomeno esortativo, apparentemente diretto a correggere la poca o nessuna attenzione che si presta ai trascorsi d’eccellenza della struttura.
Siamo convinti che tutti coloro che stanno prendendo decisioni strazianti sul caso di Alfie Evans agiscono con integrità e per il bene di Alfie secondo coscienza. La professionalità e la cura dei bambini gravemente malati mostrati all’ospedale Alder Hey devono [or. is to] essere riconosciuti e affermati.
Alla meglio, i vescovi devono essere stati interpellati su parte del comunicato non prima di Sabato o Domenica, quando al Regina Cœli il Santo Padre ha ricordato Alfie. L’ultima frase citata può però costituire anche un malcelato tentativo di rimprovero alla Santa Sede, quando nel muoversi non ricorda quelli che chi ha scritto il comunicato ritiene essere trascorsi di tributo obbligato, nonostante il caso in esame sia estremamente specifico (ma si potrebbero ricordare numerose accuse di negligenze). Santa Sede che, semmai li riconosce, certo non li afferma. In questo caso sarebbero almeno 2 le frasi di una dichiarazione di non più di 5 paragrafi che non possono in nessun modo essere state sottoposte al vaglio collegiale.
Nulla tuttavia, se un beneficio del dubbio (del cui debito non siamo certi), c’impedisce di pensare che l’intera dichiarazione sia stata prodotta e pubblicata dopo i fatti di ieri mattina, cioè senza che ci sia stata alcuna discussione collegiale e per esclusiva approvazione della presidenza e della segreteria, oltre che ovviamente a supporto dell’arcivescovo McMahon. Così fosse, ci troveremmo di fronte non solo ad un’indebita operazione di ridimensionamento pubblico di un’autorità superiore alla Conferenza – il cui intervento sopperisce alla loro inadempienza – ma anche al reiterarsi del malcostume sempre più frequente per cui pochi membri delle chiese nazionali si fanno portavoce di un’espressione collegiale. Questa dichiarazione, in effetti, non è firmata e non porta i nominativi di presidenti o segretari.
Senza dubbio, però, l’elemento più critico su questo fronte rimane che la Conferenza Episcopale non abbia avvertito la necessità di esprimersi in merito alla vicenda in nessun momento dell’iter giudiziario (o da quando il conflitto tra i medici e la famiglia è noto alla stampa), se non nel momento in cui la Santa Sede si è mossa in difesa della famiglia. E quando si espressa, l’ha fatto con la primaria se non esclusiva preoccupazione di tutelare con la controparte. Una mossa diversa da quella, pur altrettanto tardiva e non priva di ambiguità, che la stessa conferenza mise in atto per Charlie Gard sul finire dello scorso giugno, ove oltre ai riconoscimenti di “integrità” e “ricerca del bene” s’invitava a considerare che
la malattia terminale prolungata fa parte della condizione umana: non dovremmo mai agire con la deliberata intenzione di porre fine alla vita umana, compresa la rimozione dell’alimentazione e dell’idratazione che potrebbe provocare la morte. Dobbiamo, tuttavia qualche volta riconoscere i limiti di ciò che può essere fatto, mentre si agisce sempre umilmente al servizio del malato fino al momento della morte naturale.
Stavolta nessuna affermazione in difesa della vita ha avuto spazio. Perché, dunque? Era soltanto equilibrismo come assaggio del numero da palcoscenico successivo, come Tommaso Scandroglio delineava sempre sulla Bussola?
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