Monica Lewinsky, l’ex-stagista più nota al mondo, in un lungo scritto sull’edizione americana di Vanity Fair, ha preso coscienza di essere vicina moralmente alle istanze della campagna #MeToo. L’acquisizione di consapevolezza è nata da una riflessione: c’era un evidente sproporzione tra lei e l’allora capo della Casa Bianca, Bill Clinton. Lui era il Presidente, lei solo una stagista. Lui ha abusato del suo potere, lei ne ha subito il fascino (e le conseguenze). Questa lettura – secondo la Lewinsky – rimette in discussione il concetto di consenso. Era davvero un consenso tra pari? Nel lungo scritto è palpitante l’amaro ricordo di tutto quel bailamme politico-giudiziario- mediatico in cui fu coinvolta. Rispetto, dunque, la sua sofferenza: la donna si mantiene sul crinale del dubbio, non è in cerca di comodi alibi, rivelandosi onesta intellettualmente. Assecondando il pensiero della Lewinsky, però, ogni donna che si trova a concedersi consensualmente ad un uomo più potente di lei, potrebbe poi sostenere che l’atto sessuale è stato una molestia perché esiste uno squilibrio di ruoli e di potere.
La campagna #MeToo è stata per tanti versi importante. Se gli uomini smettessero di ricattare sessualmente le donne e quest’ultime divenissero consapevoli del valore autentico (e non certo in termini monetari) del loro corpo sarebbe tutto di guadagnato. Eppure, ancora oggi – a distanza di tempo – certe letture riduttive del femminile, imprigionato nel ruolo di vittima sacrificale, continuano a non convincermi. Non sono l’unica: altre donne, famose e non, hanno espresso alcune perplessità. Antonella Clerici, qualche giorno fa, sull’ultimo Telesette ha fatto una serie di distinzioni interessanti:
Ci sono molestie e molestie. Sono gravissime se a trovarcisi in mezzo sono donne normali per le quali c’è in gioco il loro sostentamento. Quelle “lavorative” nel mondo dello spettacolo, che penso siano capitate a tutte, bisogna saperle gestire magari evitando situazioni a rischio. Purtroppo ci sono uomini cretini e altri mascalzoni (che nel nostro ambiente si conoscono) e non è che ci si debba per forza concedere per avere un lavoro. Ho sempre pensato che i talenti, quando ci sono, vengono fuori. Diverso è se qualcuno ti salta addosso.
L’altro giorno ho ripreso in mano il primo libro della Bibbia, Genesi, seguendo un suggerimento felice per una lettura quaresimale. Mi sono trovata, come altre volte, davanti ad un materiale incandescente, che poco si accorda con il desiderio quasi infantile di sfogliare la Bibbia in cerca di santini rassicuranti. Gli uomini che incontriamo nel primo libro (ma anche nel resto del testo sacro) sono ricchi di contraddizioni, in grado di sorprenderci, ma anche di deluderci. Molti di loro camminano con Dio, secondo una felice espressione biblica, ma non sono esenti da quelle cadute umanissime che ben conosciamo perché sono le nostre. Anche le donne in Genesi sono come gli uomini. La fatidica obiezione che la Bibbia è stata scritta da uomini si rivela una foglia di fico: perché dovremmo accettare solo la parte di incoerenze e di miserie al maschile e fingere che le donne siano altro solo perché non sono state raccontate da una voce femminile? Ognuna, nel suo cuore, sa quanto sia simile ad Eva, a Sara, a Rebecca…
La Bibbia non propone soluzioni facili per comprendere le situazioni di oggi. Anzi, ci pone di fronte a qualcosa che, a volte, non vorremmo vedere. Suggerirei di rileggere, ad esempio, la complicata relazione tra Giacobbe e le sue due mogli (che sono sorelle): Lia e Rachele. Lasciamo da parte le interpretazioni dei Padri della Chiesa che vedono nella prima la Sinagoga e nella seconda la Chiesa. Se rimaniamo alla lettera del testo, Genesi ci offre il ritratto di due donne dalla personalità forte e una vicenda in chiaroscuro.
La storia è nota: Rachele è l’amata, ma Giacobbe – per un inganno del padre di entrambe, Làbano – è costretto prima a sposare la poco interessante Lia («aveva gli occhi smorti»: la Bibbia è elegante e persino la bruttezza diventa poesia) e solo dopo potrà coronare il suo sogno di amore con l’avvenente Rachele. Questa premessa – che non è certo lusinghiera per Giacobbe, il quale sembra interessato solo all’aspetto esteriore e non all’interiorità della donna – apre ad una serie di situazioni che non possiamo definire edificanti. Inizia, infatti, una guerra tra le due: una, Lia, sa, nel suo cuore, che non potrà avere mai l’amore del marito, eppure si gioca il tutto per tutto, mettendo al mondo figli a raffica nel disperato tentativo di legarlo a sé; l’altra, Rachele, ha l’amore di lui ma soffre perché per molto tempo il suo grembo è sterile e quindi teme che la vittoria sulla sorella si riveli, prima o poi, inconsistente… La guerra è durissima, tanto che vengono coinvolte persino le schiave di entrambe, usate per tenere in piedi i matrimoni delle loro padrone. E Giacobbe? L’uomo che ha nel suo curriculum la furbata della sottrazione della primogenitura al fratello Esaù (coadiuvato da una donna: la madre Rebecca), e successivamente anche la lotta (e la vittoria) con Dio, sembra totalmente in balia di questo gineceo. Un esempio lo riscontriamo nell’episodio delle mandragore, che Rebecca acquista da un figlio di Lia al prezzo della concessione di una notte d’amore che la sorella passerà con Giacobbe. La conclusione della vicenda è tra l’esilarante e l’inquietante (Gen 30, 16):
La sera, quando Giacobbe arrivò dalla campagna, Lia gli uscì incontro e gli disse: «Da me devi venire, perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio». Così egli si coricò con lei quella notte.
Emerge dunque un ritratto delle due protagoniste che sconcerta non poco. Qui le femministe potrebbero indignarsi e dire che si tratta di uno scritto evidentemente sessista. Ma solo una lettura di stampo femminista potrebbe non cogliere l’empatia degli autori sacri per le due, esplicitata nei pensieri delle donne, che esprimono – ognuna – il proprio dolore o la riconoscenza al Signore per quanto opera di buono nella propria esistenza. A loro modo, Lia e Rachele sono due donne che vivono la relazione con Dio.
Dante, nel ventisettesimo canto del Purgatorio, le vede belle entrambe e, come alcuni Padri della Chiesa, ritiene l’una simbolo della vita attiva (Lia), l’altra della vita contemplativa (Rachele). Ecco i versi che nobilitano Lia:
giovane e bella in sogno mi parea
donna veder andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea…«Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia; e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda…»
Le due donne, nel testo biblico, non agiscono per capriccio: entrambe hanno le loro motivazioni, anche profonde. L’amore e l’aspirazione alla fecondità, che sono legittimi, guidano i loro passi. Eppure il loro agire spesso non ci sembra retto, sottomesso com’è ad altri sentimenti più meschini. Ma le due donne non ci stupiscono del tutto perché ci somigliano: anche noi, loro sorelle, – pur lontane nel tempo e nella mentalità – abbiamo spesso la tentazione di “giocare sporco”. Di far prevalere scelte ribassate su desideri elevati. Tante volte lo facciamo: quando Oriana Fallaci inviò tutte le lettere di un suo amante alla moglie di lui fu un gesto crudele, ma non estraneo all’agire femminile (e qui non possiamo chiamare in causa nessun agiografo sessista). La donna può essere armonia, accoglienza, bellezza, dolcezza… ma anche il loro contrario, se vuole.
Lia e Rachele, che si assumono la responsabilità delle loro azioni, senza recriminare contro il marito o la società o chissà che altro (eppure potrebbero) a me sembrano tanto più consapevoli della loro identità rispetto a molte di noi oggi. C’è una confusione sul bersaglio che si trova dietro a campagne come #MeToo: il vero nemico non è l’uomo. È il peccato: riguarda tutti, uomini e donne. Riguarda ognuno di noi. Solo che facciamo fatica a capirlo, in questo nostro tempo così deresponsabilizzante.
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