Durante quella sfilata radicale in salsa d’ingiustizia che è il processo milanese a Marco Cappato – indagato ai sensi dell’art. 580 del codice penale per il reato di aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani – stiamo vedendo di tutto. Ieri, in particolare, si sono toccati picchi di surrealismo che non sarebbero dispiaciuti a drammaturghi dell’assurdo come Eugène Ionesco.
Ve lo immaginate un procuratore che si mette a fare l’avvocato difensore? Ci si arriva a stento, ma al pm Tiziana Siciliano è riuscito questo mirabolante gioco di prestigio:
Mi rifiuto di essere l’avvocato dell’accusa: io rappresento lo Stato, e lo Stato è anche Marco Cappato.
Il gioco delle tre carte, del resto, era cominciato da mesi, se si pensa che a maggio scorso la Siciliano aveva spiegato:
Le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile e/o indegna dal malato stesso.
Il GIP non fu dello stesso parere (guarda un po’), e ieri il pm è tornato alla carica chiedendo l’assoluzione per Cappato (!) o in alternativa un rinvio degli atti alla Consulta, per rivedere l’art. 580 del C.D.P. Sicché, ricapitolando, la Procura ci spiega che lo Stato va ravvisato nella persona di un delinquente reo confesso, frattanto si trasforma in avvocato difensore dell’imputato e chiede che a essere messo sotto processo sia l’ordinamento vigente italiano – nel quale, ci par di capire, non si dovrebbe ravvisare lo Stato (quello che il pm afferma di rappresentare).
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Se ne possono trarre diverse considerazioni, anche piuttosto banali:
- Esiste un problema della magistratura, in Italia, che si produce in ingerenze ormai scoperte e svergognate nel potere legislativo;
- Tiziana Siciliano è un magistrato palesemente politicizzato, né desterebbe meraviglia se Emma Bonino se la portasse in Parlamento a marzo (il fatto è che lei aveva chiesto 10 posti sicuri, mentre per il prezzo pattuito il Pd, che le ha ceduto il simbolo risparmiandole l’impresa per lei impossibile di presentare candidati e raccogliere firme, glie ne può dare “solo 4”, quindi chissà se per la Siciliano ci sarà posto…);
- La stessa Siciliano ha mostrato una particolare predilezione per i processi ad alta esposizione mediatica (o sarà un caso che sia stata pm in tutto il “Rubygate”?): quest’attitudine a invadere il “quarto potere”, oltre che il secondo, dovrebbe essere oggetto di una riflessione a parte, ma qui la possiamo rubricare come corollario del punto precedente.
A parte questo, i prodigi della neolingua e delle narrazioni orwelliane – quelle per cui il linguaggio plasma e informa la realtà, invece di descriverla – non si sono fermati, perché la Siciliano si è lanciata in due digressioni “letterarie” a dir poco capovolte.
La prima è stata sul celeberrimo Se questo è un uomo di Primo Levi. La poesia è stata citata per inferire che DJ Fabo non fosse un uomo: il che basta da sé a mostrare quanto fosse vaga e aleatoria la reminiscenza liceale da cui la citazione è stata malamente tolta.
La seconda, che qui c’interessa di più, è quella su san Thomas More, dove i livelli di mistificazione sono stati tanto eclatanti che se quelle stesse cose le avesse dette una studentessa di filosofia all’esame di Moderna si sarebbe guadagnata all’istante una bocciatura con “sghignazzo accademico”:
[…] per le sue idee, simili a quelle di Fabiani e di Cappato, venne giustiziato, 500 anni fa, per poi essere beatificato nel 1935. Speriamo che non si voglia far lo stesso per Cappato.
Dunque, nell’ordine abbiamo:
- Thomas More fu un radicale;
- Fu giustiziato per la sua elaborazione teorica notoriamente radicale;
- La sua beatificazione (quattro secoli dopo, ma comunque quasi un secolo fa…) implica che anche le forze che resistono oggi alle idee radicali sono destinate a tornare sui loro passi, presto o tardi.
./Veramente san Tommaso Moro era a favore dell’eutanasia__files/aV6u4MS4m6I.html
Molto opportunamente Lucia Scozzoli ha sottolineato, che quella citazione è stata apposta in chiusa di requisitoria
per chiamare in causa la Chiesa in un modo qualunque e sostenere implicitamente che essa, se già non è d’accordo con l’eutanasia, potrebbe comunque diventarlo.
Il testo incriminato
Ma veniamo dunque a Thomas More, che come tutti sanno morì decapitato per ordine di Enrico VIII, già defensor Ecclesiæ, perché a somiglianza di Giovanni Battista non aveva chinato il capo davanti alle follie del re, il quale esigeva un impossibile scioglimento del suo matrimonio valido e che, protestando contro Clemente VII, diede origine alla confessione anglicana. Nel suo Utopia, in effetti, Thomas More scriveva:
I malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e il vitto; anzi alleviano gl’incurabili con l’assisterli, con la conversazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è onorevole; altrimenti chi si dà morte per motivi non giusti agli occhi dei sacerdoti e del senato, non lo ritengono degno di esser seppellito o cremato, ma viene ignominiosamente gettato senza tomba in qualche pantano.
Thomas More, Utopia, 97–98
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A parte il fatto che chiunque dovrebbe cogliere dalle formule enfatiche l’ironia soggiacente al passo, è la comprensione dell’intero impianto dell’opera a fungere da disambiguazione: “Utopia” è, letteralmente, l’isola che non c’è, il non-luogo, il suo Principe si chiama Ademo (= “senza popolo”), il suo fiume si chiama Anidro (= “senza acqua”), la sua città si chiama Amauroto (= “evanescente”).
In realtà, l’accezione positiva del termine “utopia” è tutta novecentesca: prima indicava semplicemente l’assurdo a cui si condannano le “buone intenzioni” quando non sono guidate dalla retta ragione.
Per non parlare della luce della fede, che non compare esplicitamente in Utopia – ai cittadini del principe senza-popolo è richiesto un bagaglio dogmatico minimo, simile a quello delle prime logge massoniche –: nella sua opera, ad esempio, More ammette volentieri il divorzio. Sarebbe davvero difficile spiegare come mai lo stesso More – per obbedire alla propria coscienza, alla propria retta ragione illuminata dalla fede – abbia esposto sé stesso all’infamante accusa di alto tradimento, nonché alla pena capitale che ipso iure ne conseguiva, e l’amatissima figlia Margaret a diventare orfana in modo tanto orrendo e ignominioso (vedere la testa del proprio padre esposta per settimane in città dev’essere cosa dai cui strascichi neanche gli analisti di Woody Allen potranno guarirti)… ebbene, sarebbe difficile spiegare come mai un uomo affronti tutto questo per non accettare l’illegittimità della pretesa del re in merito al proprio matrimonio.
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La critica di settore
Ancora convinti che in Utopia si debba rintracciare tout court il pensiero di More? Allora leggiamo cosa ne pensano quelli del Thomas More Institute, che ogni giorno mangiano pane e Thomas More:
Non è corretto dire che Thomas More fosse di per sé favorevole all’eutanasia. Utopia è un mondo fittizio: le pratiche sull’isola immaginaria ci sono descritte da Raphael Hythlodaeus, il cui nome significa “fornitore di non-sense” – cosa non rassicurante. È vero, Raphael racconta dell’eutanasia a Utopia, ma nel primo libro, mentre discute a casa del cardinale Morton della pena di morte, rigetta il suicidio: «Dio ci ha negato il diritto di prendere non solo la vita altrui, ma anche la nostra propria». Gli utopiani sembrano condividere molte idee con i filosofi pre-cristiani del mondo antico: gli stoici accettavano il suicidio, come Plotino, ma a condizioni molto restrittive. More colloca l’idea dell’eutanasia nel contesto della religione puramente naturale seguita dagli utopiani, ma il cristianesimo deve ancora incidere nel loro mondo. Non sembra ci sia ragione di supporre che More volesse allontanarsi dalla prospettiva della retta fede cristiana (come in Eb 12, 5-13), che cioè la sofferenza abbia virtualmente il potere di trasformare le persone, e il fatto che nel 1501 lo stesso More desse lezioni sul De Civitate Dei di sant’Agostino lascia intendere che lo stesso abbia recepito gli argomenti lì dati contro il suicidio (libro I, capitoli 20-22). È quindi improbabile che More fosse a favore dell’eutanasia: la procedura immaginaria descritta in Utopia, cioè in un contesto non cristiano, mostra semplice compassione per i malati terminali.
E pure sant’Agostino, nella più ambiziosa e vasta delle sue opere (cioè quel De Civitate Dei che fu oggetto delle lezioni di More nel 1501), si confrontava col retaggio dell’antichità pagana e con la sua proposta per la casa comune. Questo dunque diceva il Vescovo di Ippona:
Coloro che si sono uccisi, se forse sono da ammirare per grandezza d’animo, non sono da lodare per rettitudine di giudizio. E se si esamina attentamente la ragione, non si dovrà considerare neanche grandezza d’animo se qualcuno si uccide perché non è capace di sopportare le varie difficoltà o i peccati altrui. Piuttosto si giudica come carattere debole quello che non può tollerare la difficile soggezione della propria sensibilità o la stolta opinione del volgo. Si deve considerare animo più nobile quello che riesce a tollerare piuttosto che a fuggire la vita di stento e a disprezzare alla chiara luce della coscienza il giudizio degli uomini e soprattutto della massa che il più delle volte è avvolto nella foschia dell’errore. E per questo se si deve ritenere un atto di coraggio quando un uomo si dà la morte, si riscontra che ebbe questa grandezza d’animo piuttosto Teombroto. Dicono che letto il libro di Platone, in cui questi ha disputato dell’immortalità dell’anima, si gettò da un muro e così da questa vita andò a quella che reputava migliore. Non lo sovrastava nessun caso vero o falso di sventura o di diceria tale che, non potendolo sopportare, si dovesse uccidere. A scegliere la morte e spezzare i dolci legami alla vita gli bastò la sola grandezza d’animo. Tuttavia lo stesso Platone, che aveva letto, poteva insegnargli che fu un gesto più di coraggio che di onestà. Questi infatti l’avrebbe fatto certamente per singolare preferenza e anche comandato, se in base all’idea che ebbe dell’immortalità dell’anima non avesse giudicato che non si deve fare, anzi che si deve proibire.
Ma, dicono, molti si sono uccisi per non cadere in mano dei nemici. Adesso non stiamo discutendo se è avvenuto ma se doveva avvenire. La retta ragione si deve anteporre anche agli esempi. Con essa possono concordare anche gli esempi, ma quelli che sono tanto più degni di imitazione quanto più segnalati per religiosità. Non l’han fatto i patriarchi, non i profeti, non gli Apostoli. Lo stesso Cristo Signore, quando consigliò quest’ultimi, se soffrivano persecuzione, di fuggire di città in città, poteva consigliarli di uccidersi per non cadere in mano dei persecutori. E se egli non ha né comandato né consigliato che uscissero in questo modo dalla vita i suoi, ai quali, una volta usciti, aveva promesso di preparare una dimora nell’eternità, qualunque sia l’esempio che propongono i pagani i quali non conoscono Dio, è chiaro che non è lecito seguirlo da coloro che adorano l’unico vero Dio.
Aug., ciu I, 22
Che altro aggiungere, ora che abbiamo mostrato testi alla mano quanto vergognosamente sia stato strumentalizzato contro la Chiesa uno statista che per la fedeltà ad Essa si avvicinò nel martirio al Precursore di Cristo? Eh, questi magistrati… Forse non aveva torto Shakespeare (citazione per citazione…) a dire:
La prima cosa da fare
William Shakespeare, Enrico VI, 2, 4, 2
è uccidere tutti gli avvocati.
E cosa importa, in fondo, che a dirlo fosse il personaggio di Dick, macellaio al seguito dell’arruffapopoli Jack Cade? Anche Cade tentava di sedurre le folle promuovendo una società di persone assolutamente libere di fare tutto ciò che volessero (purché lo riconoscessero per signore…), una società contemporaneamente libera e uguale, priva di povertà e di proprietà privata. Una vera utopia! E Shakespeare è perfino meno sornione di More nel far capire da che parte si ponga di fronte a certe proposte radicali.
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Dunque non è vero, lo so, che Shakespeare incitasse alla mattanza dei magistrati, ma se oggi i magistrati incitano alla mattanza delle folle e approfittano tanto vergognosamente della comune ignoranza da far credere che Thomas More fosse a favore dell’eutanasia… Tiziana Siciliano non potrà lamentarsi se facciamo circolare quel distico del Bardo Immortale.
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