Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: – Qui di chi è? –, sentiva rispondersi: – Di Mazzarò –. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – Di Mazzarò –. […] Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia.
La mia memoria così spesso m’abbandona che alle volte non ricordo a metà mattina quel che ho mangiato a colazione e della mia (ormai lontana) gioventù non ho che qualche istantanea sbiadita e alcune parole che ondeggiano nella mente, caparbie e resistenti al tempo, incuranti di essere fuori luogo e senz’altro fuori contesto.
Tra quelle parole scolastiche che abitano la mia memoria rada c’è la descrizione che Verga fa di Mazzarò nella novella “La roba”, il che è una cosa assai curiosa: avevo 16 anni quando l’insegnante mi costrinse a leggere di Mazzarò, che pareva fosse disteso tutto grande quanto era grande la terra e che gli si camminasse sulla pancia. Quell’immagine m’è rimasta appiccicata addosso, in attesa che arrivasse qualcosa a completarne il messaggio, come una melodia suonata solo a metà.
E l’altra metà l’ho trovata oggi, decine di anni dopo, in uno di quegli incontri mentali che fanno sparire la dimensione del tempo, incollando nel medesimo istante cose che appartengono a universi lontani.
Nella chiesa della mia parrocchia è sorto, domenica dopo domenica, il presepio, composto da sagome scure di cartone che proiettano la loro ombra sul un telo illuminato, mentre una stella cometa d’argento riempie il cielo azzurro. I parrocchiani che hanno avuto l’idea del “presepe in itinere” sono partiti senza avere ben chiaro dove arrivare e ad ogni appuntamento domenicale han procurato un pezzo in più, da far aggiungere dai bambini del catechismo. Di fonte a questo presepe senza un progetto, hanno ascoltato i consigli e le impressioni di tutti e si son lasciati ispirare. E così oggi han montato un pavimento incredibile: la mappa stampata da google maps del nostro paese, con i nomi delle vie, il verde degli alberi, il giallo dei campi, il bruno dei tetti. Sopra ci hanno piazzato le sagome della scena della natività, e in alto hanno attaccato una scritta:
Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
Isaia 55,9
Ed io mi sono commossa, perché ho sentito un click dentro, come un’intuizione, o una rivelazione, non saprei spiegare, qualcosa che aveva a che fare con la novella di Verga.
Mazzarò era un ricco, che possedeva ettari ed ettari di terra, che amava la sua roba con amore viscerale, per essa quasi non mangiava e non dormiva. Accumulare era il suo unico scopo nella vita e aveva allungato il suo potere ovunque, tanto che pareva lungo disteso sui campi, calpestato da contadini e viandanti.
In quell’essere “calpestato” sta già tutto il paradosso di un possesso che ha in sé anche il suo limite: ti pare tanto di aver potere, quando in realtà sei posseduto da ciò che possiedi e pure giustamente compatito (e calpestato) da chi forse invidia il denaro ma non certo la vita di un simile ricco. La libertà estrema, quandanche dura, del contadino che ara la terra come arasse la pancia di Mazzarò somiglia alla libertà di quel bambino che oggi nasce nella povertà di un ricovero di fortuna.
Quelle statuine poggiate sopra le nostre case, invece che sul solito fondo di muschio e sabbia, hanno un significato più pregnante, sono un monito profondo ed un invito a cambiare piano di osservazione: il povero sovrasta il ricco, l’indifeso sovrasta il prepotente, lo sconfitto sovrasta il vincitore. Ma la terra calpestata è la nostra, i cognomi che riecheggiano a chi domanda sono i nostri, gli avari attaccati alle cose come fossero, le cose, la salvezza – siamo noi.
Di fronte a quel presepe così graffiante, alcuni miei compaesani hanno esclamato: «Dobbiamo mettere le indicazioni delle nostre case, i nostri nomi!»
Ed ecco all’improvviso siamo entrati tutti nel presepe, usciti dalla mappa, attraverso i tetti delle nostre abitazioni, come i pastori si son destati all’annuncio degli angeli, hanno lasciato le greggi e sono andati ad adorare il Salvatore su due piedi, senza tante storie. Invece che farci calpestare dagli eventi, siamo emersi ad un piano superiore, lasciando a terra le nostre cose pesanti.
Eravamo assiepati attorno al presepe con un entusiasmo bambino, così felici di riconoscerci partecipi, di sentirci direttamente invitati ad un evento magnifico. Tutti ad additare i particolari e ben attenti a poggiare la natività su un campo verde, per non far torto a nessuno concedendo il privilegio di ospitare siffatta famiglia in una casa specifica.
E chi è fuori dalla mappa? Mettiamo i cartellini coi nomi sulle strade: sono coloro che son partiti da lontano, ma sono quasi arrivati.
Uscendo dalla chiesa, ho alzato lo sguardo al cielo terso, di un azzurro intenso e luminoso, come sospesa a mezz’aria invece che banalmente coi piedi poggiati sulla terra, spaesata di fronte all’idea maestosa di essere nel luogo in cui nasce Gesù, di essere il luogo in cui nasce Gesù. Un conto è saperlo in modo scolastico, un altro è capirlo. La differenza è la gratitudine e la gioia.
Buon Natale.
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