Le femmitriste della Boldrini leggano “Il Dio delle donne” della Muraro

Questo libro è così: illogico, incomprensibile, eppure dice cose che sapevo già, tutte quante, in ordine sparso, abbandonate in angoli polverosi del mio razionalismo forzato, voluto, scelto, come se capire Dio fosse l’unica via per affrontare la vita (e la fede). Con sollievo ho scoperto che ciò che non so non è necessariamente imparabile, che non è difetto di scienza e conoscenza, ma è un muoversi in un piano dell’altrove, in un linguaggio in lingua materna,

la prima che impariamo a parlare, vicina al confine dove il bisogno di mangiare passa in bisogno di comunicare, vicina alle soglie fra la parola e il silenzio e al commercio tra i corpi e le idee; essa soltanto (o la matematica più astratta, quella dello zero) riesce a tenere testa all’impossibilità logica di parlare di un assente così assente com’è un altro che non trova posto fra le cose dette o dicibili.

Di immagine in immagine, si parla di Dio, l’amante di queste mistiche medievali incomprese, in modi inauditi:

Festa grande alla scoperta che ci sono più inizi, non siamo obbligati a cominciare da Io, e che il confine della nostra solitudine adulta e razionale è diventato di colpo, per magia, come la frontiera della Svizzera ai tempi del contrabbando di sigarette e zucchero: permeabile ai commerci illegali di chi è nel bisogno.

Il bisogno è la chiave, la mancanza è il mezzo. Nella cultura degli uomini si pretende che la libertà cominci con la negazione di ciò che non è libertà, o semplicemente da se stessa. Si è teorizzato con coerenza che la libertà proceda anche contro la vita, perché questo astrattismo è slegato dalla sostanza relazionale del vivere. Ma questa non è l’esperienza femminile: per una donna, infatti, la relazione con la madre si intreccia con la propria identità e con la possibilità (potenza) di diventare madre e in questo intreccio il flusso continuo della vita si traduce in un rapporto interpersonale tra due donne, cioè in biografia e storia. Non c’è soluzione di continuità fra dipendenza e autonomia, fra bisognosità e dignità, fra vulnerabilità e autoaffermazione: la libertà è sempre preceduta da un dono, quello della vita e della parola.

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La libertà vera ha a che fare con la gratitudine: essa custodisce la memoria di ciò che l’ha preceduta e ne discioglie la negatività distruttiva di rivendicazioni contro i suoi ostacoli.

La gratitudine è un sentimento che si impara in braccio alla madre e che una madre riversa con sovrabbondanza sul figlio, beandosi dei suoi semplici sorrisi e considerando la sua sazietà una ricompensa.

“Grazie che dormi”, “grazie che mangi”, “grazie che sei in salute”, “grazie che ridi”, “grazie che ci sei”. Queste sono le litanie della gratitudine che un cuore di madre snocciola di fronte alla sua creatura, specchiate nella gratitudine del figlio che considera la presenza della madre il suo paradiso.

Anche nel linguaggio femminile c’è un qualcosa di soprannaturale: nella tipica retorica di una certa reticenza femminile, quella che vuol dire ma non sa cosa dire, si nasconde sullo sfondo un parlare per non dire niente affinché l’impossibile-a-dirsi, risuonando nelle parole come in uno strumento cavo, si renda udibile. Un’intuizione che turba e smuove un grumo di parole che partono senza avere un filo da seguire, un obiettivo da centrare, e disegnano un quadro lasciandosi trascinare dalla corrente di un non-pensiero proprio che però le trascende.

Capisco questo concetto, è il mio: di fronte ad un foglio bianco ed un tema, io scrivo, pregando una chiarezza che non ho, sperando una logicità che resta sempre una chimera. E mentre le parole escono, prende forma un pensiero, che non è mio neanche dopo averlo fissato, e non sarà mio mai. Io non sono nessun pensiero: io sono mancanza che vuole essere riempita e per questo cerca.

Bisogna imparare a stare nella sospensione in cui sta il desiderio, che cambia la finitezza della propria natura umana in mancanza e la mancanza in relazione con, in richiamo dell’Altro, in preghiera.

Bellissimo è il racconto della favola mitologica della nascita di Eros, che la Muraro riporta:

Gli dei avevano appena festeggiato la nascita di Afrodite con un grande banchetto e alle porte della sala giunse un essere umano, ossia un escluso da quel divino consesso, un umano che era una donna, di nome Carestia o Miseria (in greco, Penia), per rimediare qualcosa da mangiare. Adocchiò uno degli dei, Poros (sì, come i pori della pelle), figlio di Metis. Il dio era ubriaco e si sdraiò in giardino. La donna pensò: io sono una aporia (ossia non ho niente di quello che è e ha Poros), se almeno avessi un figlio da lui. E ci riuscì, approfittando dello stato in cui si trovava il dio. Da qui viene che l’amore sia sempre dietro a mendicare, sempre bisognoso e desideroso, sempre in caccia, sempre in attesa. Ma che, al tempo stesso, non sia mai a corto di espedienti o privo di risorse, mai perduto, mai rassegnato, sempre disposto a darsi da fare.

La donna affamata ruba all’uomo distratto una discendenza e la ruba anche a Dio, la estorce con la tenacia del suo desiderio e la scaltrezza senza scrupoli della sua inventiva. Questo è l’amore di una donna: una povertà che è il motore primo di ogni sua energia.

Chi è donna sa che questo è vero, con un’esattezza chirurgica, molto più precisa di ogni diagnosi psichiatrica o profilo psicologico possibile. La scoperta della radice ontologica del proprio essere, che si manifesta così spesso in una spuma rabbiosa in superficie e che la mascolinizzazione della donna vorrebbe relegare a parossismo macchiettistico, restituisce dignità all’essere donna autenticamente, anche e soprattutto in quelle fragilità intrinseche che tutti chiamano difetti e invece sono impronte di un Creatore, vie maestre da percorrere, fili da riprendere e seguire.

Essere se stesse, in un modo totalmente nuovo eppure antico. E potente.

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