Come ogni anno, è arrivato il momento delle decorazioni natalizie: albero e presepe da allestire, luci colorate da disporre dentro e fuori, atmosfera da costruire, copiando un po’ dalle vetrine dei negozi.
Io cerco sempre di proporre qualche nuovo stile: che so, presepe di carta, di lego, di pongo, ma i figli mi bocciano ogni progetto, preferendo di gran lunga il solito, ripetuto con maniacale precisione.
Quest’anno mi assisteva nell’arduo compito la figlia di mezzo, la quale, ad un certo punto, ha sentito forte la tentazione di abbandonarmi a favore di una merenda sul divano e i videogiochi. Allora, conscia del suo dovere/piacere di addobbare, che però tardava a darle le soddisfazioni che sperava, si è accesa come Edi con Archimede ed ha infilato nello stereo un bel cd di canzoni natalizie. E si è fatta subito l’atmosfera giusta per riprendere il lavoro, anzi, per l’entusiasmo ha attaccato palline, fiocchetti e fiorellini di carta non solo sull’albero, ma pure nelle camere da letto di tutti.
Dopodiché mi ha posto una domanda, senza peraltro attendere la risposta: «Perché la musica cambia così tanto le nostre emozioni?».
Certo la musica stuzzica i nostri ricordi meglio di qualunque altro stimolo, va a frugare dritta dentro l’inconscio tirando su le esperienze emotive del passato e ricollegandosi ad esse. Però è vero pure che ascoltatori diversi senza background comune giudichino nello stesso modo – allegra o triste, serena o angosciosa, consonante o dissonante, ecc. – una medesima musica ascoltata per la prima volta. Quindi nel suo linguaggio c’è qualcosa di oggettivo, almeno per l’uomo: essa in una certa misura parla a qualcosa di noi in quanto esseri umani, indifferentemente dal sesso, esperienza, conoscenze, scolarità, censo, educazione musicale, gusti, tendenze, ecc.
Visto che sono a volte poetica ma più spesso ingegnere, ho fatto una breve ricerca su internet («toglietele l’internet!» – sta gridando mio marito dal divano), ed ho trovato un interessante articolo pubblicato sul sito scienzaeconoscenza.it di cui riporto qualche significativo stralcio:
Gli effetti emotivi della musica sono prodotti, con meccanismi diversi, dalle note e dal ritmo. Gli effetti del ritmo sono semplici, e dipendono essenzialmente dalla velocità (in termini musicali il “tempo”) della musica. […] Tempi inferiori a 60 battiti al minuto hanno effetto tranquillizzante, che sotto i 30-40 diventa addirittura rattristante/deprimente, tanto da essere utilizzato per marce funebri. Al contrario, da 80-90 battiti al minuto in su l’effetto è attivante. La musica da discoteca si situa tipicamente da 120 in su, con una “fascia bassa”, da 107 a 120, per una disco dance “tranquilla”. Perché questi valori, e non altri? Perché l’attività cardiaca umana normale, in veglia a riposo, si aggira fra i 60 e gli 80 battiti per minuto, tipicamente 70-72. La frequenza cardiaca di una mamma ha effetto sullo stato d’animo del bambino che tiene abbracciato al petto, e che ode il cuore di lei. Il bambino è tranquillizzato da frequenze normali, o lievemente più lente, che gli comunicano che la mamma sta bene ed è tranquilla, o addirittura dorme, e tutto va bene. Frequenze più alte indicano che la mamma è all’erta, o in ansia, e il bambino risponde con analoga attivazione. Questa risposta emotiva alla frequenza di suoni ritmati, in particolare quando ricordano il suono dei battiti del cuore come i tamburi, il contrabbasso e il basso elettrico, ce la portiamo appresso per tutta la vita.
E dunque il battito del cuore di nostra madre ci è scritto dentro, talmente in profondità, da determinare la nostra reazione emotiva alla musica, rattristandoci, rilassandoci, attivandoci, caricandoci a seconda della frequenza a cui il nostro orecchio si è formato.
Per quanto riguarda gli effetti emotivi delle note, invece, la spiegazione è un po’ più tecnica e complessa, ma vale davvero la pena fare lo sforzo di seguire il ragionamento:
Una nota musicale è un suono di frequenza definita: ad esempio un suono a 262 oscillazioni al secondo è un Do, uno a 440 è un La. Una frequenza doppia dà la medesima nota, ma più acuta; una frequenza dimezzata ancora la medesima nota, ma più grave. L’intervallo di frequenze fra una nota e la stessa nota a frequenza doppia è detto ottava, e contiene tutte le note intermedie. Un punto cruciale per spiegare parte degli effetti emotivi dei suoni è che, come osservato fin dall’antichità, due o più note diverse suonate insieme o una dopo l’altra ci piacciono tanto più (le troviamo più “consonanti”) quanto più è semplice il rapporto fra le loro frequenze. Se dividiamo l’intervallo di un’ottava in modo da avere sette note che siano il più equidistanti possibile, ma le cui frequenze stiano anche con la prima nel rapporto più semplice possibile, abbiamo, dalla prima alla settima nota, i seguenti rapporti: 1/1, 9/8, 5/4, 4/3, 3/2, 5/3, 15/8 (e l’ottava è ovviamente a 2/1). Note così disposte costituiscono la cosiddetta scala naturale. È facile constatare che i rapporti più semplici corrispondono alle minori somme tra numeratore e denominatore nelle dette frazioni. Il rapporto più semplice di tutti è 3/2, cioè quello fra la nota fondamentale e la quinta, pertanto detto intervallo “di quinta”. La fondamentale e la quinta sono le due note che, se suonate insieme o una subito dopo l’altra, sentiamo più consonanti (esempi: Do-Sol, Mi-Si, Sol- Re). Il rapporto che si situa secondo nella scala delle consonanze è quello di quarta, 4/3 (Do-Fa, Mi-La, Sol-Do). È interessante a questo punto notare che la maggioranza delle canzoni popolari di successo “facili” e orecchiabili, è costruita proprio sui tre accordi le cui fondamentali stanno fra loro in rapporto di quinta e di quarta (es. Do, Sol e Fa; Mi, Si e La; La, Mi e Re; ecc.). Se passiamo a tre note suonate insieme (“accordo”) […] il risultato migliore possibile l’abbiamo prendendo come nota intermedia non la quarta, ma la terza (esempi: Do-Mi-Sol, Fa-La-Do, Sol-Si-Re). In questo caso infatti […] i tre rapporti sono 5/4, 4/3 e ancora 5/4. Così l’accordo più gradevole di tre note è quello “fondamentale + terza + quinta”, e tale triade rappresenta l’accordo per antonomasia.
Dunque la semplicità pare scritta dentro di noi. Forse ciò dipende dal fatto che i suoni più terrificanti in natura, come il boato di una frana, il ruggito di un animale feroce o il rombo di un tuono, sono sovrabbondanti di armoniche, in rapporto tra loro del tutto casuale. Noi chiamiamo questi suoni “dissonanti” e ci suonano male perché ci evocano situazioni pericolose e assolutamente da evitare. Al contrario, l’ordine semplice e lineare della musica ci tranquillizza, perché la natura coi suoi disastri non è in grado di produrne di simili.
Gli animali non cantano salvo poche eccezioni, come alcune specie di uccelli che gorgheggiano amabilmente. Certo i loro fischi leggiadri suscitano la nostra ammirazione, soprattutto per la loro acutezza e l’agilità con cui passano da una nota all’altra, ma oggettivamente non si può definire musicale il loro canto. Più che altro ci incanta il timbro, non certo la melodia. Cantare (e suonare) è prerogativa prettamente umana.
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