A tal proposito Claudio Messora ha pubblicizzato con enfasi sul suo sito byoblu.com il libro di un’economista, Ilaria Bifarini: “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una bocconiana redenta)”1Di Claudio Messora si veda anche quest’ottimo sussidio [aggiornato al 15 dicembre]: è l’intervento di Chamath Palihapitiya, ex vice-direttore con delega alla crescita degli utenti su Facebook: spiega lucidamente le dinamiche che producono la dipendenza da social e la correlata alienazione sociale..
In questo testo, e nell’intervista di Messora, la Bifarini ripercorre la storia dell’evoluzione del pensiero economico e politico che ad un certo punto, agli inizi del ‘900, è andato a prendere in prestito gli strumenti della psicanalisi per addomesticare la terribile bestia costituita dalle masse. Da allora fino ad oggi le élite si sono sempre più abbeverate ai sacri testi di personaggi come Le Bon (e il suo “Psicologia delle folle”), Bernays (“Propaganda: the public mind in the making”), Milton Friedman, George Stigler, Aaron Director (con la loro Mont Pelerin Society), con l’esplicito scopo di condurre l’opinione pubblica dove volevano loro, e cioè ad obiettivi funzionali alla preservazione del loro potere, non certo per il bene comune.
Messora, come un novello Morpheus, cerca di risvegliare coscienze (sui temi economici e politici a lui cari), distribuendo pillole che fermano il cuore a chi le ingoia e che fanno risvegliare in amare consapevolezze sui giochi di potere che si consumano nelle sacre stanze di Bruxelles. Il finto mondo dei social lo ostacola come può, impedendo l’indicizzazione dei suoi video, vietandogli l’uso di piattaforme in cui si guadagni con la pubblicità, manipolando i misteriosi algoritmi di ricerca che conducono la gente ad aprire un contenuto piuttosto che un altro.
Facebook può essere luogo di riscossa della verità, quando lo si usa come mezzo di divulgazione di contenuti giornalisticamente seri o eticamente impegnativi (e ce ne sono davvero tanti, questo è giusto dirlo), ma non è stato creato per questo e le affermazioni di Park ce lo confermano: sui social, secondo i fondatori e gli attuali gestori, siamo i benvenuti se vogliamo cicalecciare, parlottare di gossip o anche vomitare tutto lo spettro di emozioni che magari reprimiamo in ufficio, dalla commozione senza dignità e ritegno alla rabbia violenta, dal vittimismo lagnoso all’aggressività feroce e volgare. Nel mezzo, qualcuno cerca di “rimanere se stesso”, o propagandare la “disputa felice”, come se i social fossero una libera piazza virtuale, un posto come un altro in cui realizzare un confronto.
Ma i social esaltano gli esaltati, tollerano i miti, espellono i coraggiosi che dicono la verità. Forse, proprio come in Matrix, ha senso restarci solo per cercare di condurre fuori la gente, condurla fuori dall’ignoranza e dalla inconsapevolezza, dal giro ristretto di amici di cui si vedono i post, dall’aria asfittica di quelle solite quattro opinioni che ci sono gradite e che l’algoritmo ci ripropone all’infinito, per nutrire il nostro spasmodico bisogno di conferme.
Il confronto umano vero ha una caratteristica che lo contraddistinguerà sempre da ogni piazza virtuale: non posso scegliere gli interlocutori, né bannare chi mi sta indigesto. Al lavoro, ho i colleghi che ho; a scuola, ho i compagni e gli insegnanti che mi sono capitati; in famiglia pure, ho i figli e i fratelli che la vita mi ha donato, non posso scegliere nessuno di costoro. Pure in fila alla cassa del supermercato mi trovo con chi capita; al bancone del bar; in palestra allo stesso orario. La vera tolleranza si nutre di faticosa convivenza coatta, di ascolto spesso involontario, di mediazioni obbligatorie per arrivare alla sera delle nostre giornate. Nel mondo social, invece, ci gonfiamo di autostima fittizia, scambiandoci like tra simili per opinioni espresse in dieci righe, ci sentiamo chissà chi perché qualcuno ha cuorato una foto, ci crediamo dei mattacchioni insuperabili per una battuta azzeccata che collezioni 30 visualizzazioni.
Per leggere un post di 10 righe, ci vogliono 60 secondi: cosa vale l’opinione che un estraneo può essersi fatta di me in un minuto di lettura? Davvero l’esaltazione per il suo like è moneta spendibile nel mondo del reale? Veramente il mio cervello produce dopamina per un click? Sì, la produce, come per l’ingestione di una droga. Ma non è roba salutare, e soprattutto non dura e non mi aiuta nelle relazioni vere. Sempre che mi interessino: infatti è in aumento vertiginoso il numero dei giovani (e meno giovani) che preferiscono rinchiudersi in camera a chattare piuttosto che uscire ad incontrare gente in carne ed ossa, e la diffusione macroscopica dei social e di tutti i mezzi informatici permette a qualcuno proprio di vivere fuori dal mondo reale, connesso h24 sull’immagine virtuale del mondo. Qui dentro è vero solo ciò che voglio credere e troverò sempre un articolo, una ricerca, un gruppo che mi dia ragione e metta in fuga tutti i miei dubbi, su ogni argomento. Ho ragione, quindi sono. Ma, come dice il motto, la ragione si dà ai matti.
Note
↑1 | Di Claudio Messora si veda anche quest’ottimo sussidio [aggiornato al 15 dicembre]: è l’intervento di Chamath Palihapitiya, ex vice-direttore con delega alla crescita degli utenti su Facebook: spiega lucidamente le dinamiche che producono la dipendenza da social e la correlata alienazione sociale. |
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