Se un simile odio fosse producibile immediatamente, nell’uomo, egli sarebbe perciò capace di quella volizione spirituale tipica del peccato angelico, che per quanto ci è dato comprendere (e la Tradizione costantemente ce lo insegna) è imperdonabile proprio in quanto irrevocabile. In Lucifero non si dà la possibilità di aver “visto male” il fine, “valutato imperfettamente” i mezzi. In senso strettissimo, il peccato mortale è questo. Certo anche gli uomini sono capaci di peccati che uccidano le virtù teologali, ovvero che scaccino Dio fuori dai confini della libertà umana. Le condizioni di possibilità prossime di tali peccati – quella remota rimanendo sempre il libero arbitrio – si costruiscono con l’accumulo di una serie di habitus che in complesso inclina più o meno decisamente verso l’una o l’altra parte. È ciò che i moralisti hanno chiamato “opzione fondamentale”, e che taluni hanno travisato facendone una sorta di singolo atto della volontà che – non si è mai capito bene come – dovrebbe sovrastare tutti gli altri atti. A tal proposito e in tal senso Giovanni Paolo II condannava una simile accezione di “opzione fondamentale”:
Parimenti, si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» – come oggi si suol dire – contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell’amore di Dio verso l’umanità e tutta la creazione: l’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L’orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l’«opzione fondamentale», intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale.
Ibid.
L’opzione fondamentale, rettamente intesa, è invece una Übereinstimmung morale della persona, cioè un accordo degli atti che, quando giunga a essere “intonato” (s’intende fin dalla più tenera età, quando la persona diventa gradualmente capace di atti umani), non potrà che essere “maggiore” o “minore”. Ogni singolo atto, anche minuscolo, costruisce o sfalda, in un verso o nell’altro, l’opzione fondamentale; viceversa, la sua qualità varia sostanzialmente la valutazione morale del singolo atto. Un’imperfezione è cosa a cui una religiosa dovrà fare attenzione, guardandosene come da un vero e proprio peccato, mentre è cosa che in una persona di ordinaria vita spirituale viene considerata quasi solo in momenti di scrupolo; imprecare contro un figlio è un peccato indegno della dignità paterna, ma se è un padre manesco che si sforza di contenere la sua ira (che è un vizio) nei limiti delle parole si deve considerare in modo relativamente positivo tale protensione. E incoraggiarla accompagnandola. La coscienza si risveglia o si assopisce mano a mano che la cura la libera dai detriti del peccato o che l’incuria ve la lascia sepolta: così non solo si diventa più insensibili al male commesso, ma gradualmente ci si fa più apertamente crudeli, più indifferenti e infine più ostili ai fini ultimi – e l’esistenza stessa di gruppi satanisti ci mostra che l’uomo può farsi capace, tramite molti peccati gravi, che diventano mortali e si accumulano, di odiare apertamente Dio.
Con ciò non intendiamo che solo questo stadio estremo del degrado spirituale configuri il peccato mortale, ma se il peccato veniale è quello che «non costituisce materia necessaria di confessione» e che «viene estinto già dai sacramentali» non possiamo negare che ci sia un’ampia gamma di grigî che trascina fino agli abissi del male: mille e mille volte facciamo un male (oppure omettiamo un bene) sapendo e non sapendo dell’implicita aversio a Deo, volendo e non volendo la necessaria conversio ad creaturam. In questa lunga via di transizione sta il tormento dell’uomo peccatore che può pentirsi e redimersi: «Vedo il bene che voglio e faccio il male che non voglio» (cf. Rom 7,19). Con ogni singolo atto – in pensieri, parole, opere e omissioni… – la coscienza si raffina o si ottunde, cioè si avvia verso la felicità e verso il Paradiso o verso la disperazione e l’Inferno.
Lo stesso Buttiglione illustra tutto questo in una bella pagina del suo libro, che a questo punto vale la pena riportare:
San Giovanni Paolo II non ha […] mai inteso spingere la polemica contro il soggettivismo nell’etica fino al punto di negare il ruolo della coscienza e l’importanza delle circostanze1Riportiamo qui il passo decisivo di Reconciliatio et Paenitentia, n. 17: «Cogliamo qui il nucleo dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull’esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. È doveroso aggiungere – come è stato anche fatto nel Sinodo – che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave». Sottolineiamo che alcuni peccati «sono intrinsecamente gravi e mortali». Qui il Papa conferma la teoria dell’intrinsece malum. Ha però cura di precisare «quanto alla loro materia». In questo modo precisa che anche nel caso dell’intrinsece malum valgono le circostanze attenuanti soggettive che influiscono sulla piena coscienza e il deliberato consenso, cioè sul lato soggettivo dell’azione. È per questo che specifica che questi atti sono sempre colpa grave «se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà». La teoria dell’intrinsece malum è perfettamente compatibile con il sistema delle attenuanti soggettive. [nota 8 nel libro, N.d.R.]. | La coscienza non crea il valore morale dell’azione, ma semplicemente lo riconosce. La coscienza tuttavia può sbagliarsi nel suo giudizio. Anche se si sbaglia, nondimeno la coscienza dev’essere seguita e chi la segue non è soggettivamente colpevole anche se ciò che fa è ingiusto oggettivamente2San Tommaso, Quæstiones Quodlibetales, q. 17, a. 4. [nota 9 nel libro, N.d.R.]. Le circostanze dell’azione, nella misura in cui influenzano l’intelligenza e la libertà dell’agente, intervengono non a definire la qualifica morale dell’atto, ma il livello di responsabilità dell’agente. Esse possono aggravare o diminuire la responsabilità dell’agente.
Noi dobbiamo sempre giudicare gli atti come buoni o cattivi e dobbiamo lodarli o censurarli di conseguenza. Dobbiamo invece astenerci dal giudicare le persone perché non sappiamo quale fosse il livello di informazione che avevano nel momento dell’azione e non sappiamo a quali limiti e costrizioni fosse sottoposta in quel momento la loro libertà. Solo Dio conosce fino in fondo il segreto della coscienza dell’uomo. Ciascuno deve, tuttavia, adoperarsi per darsi una rappresentazione il più pos-|sibile esatta del proprio stato di coscienza reale e il confessore, con la speciale assistenza dello Spirito Santo, deve accompagnare questo sforzo di chiarificazione. È classica la distinzione fra l’intentio operis (il significato oggettivo dell’atto) e l’intentio operantis (l’intenzione soggettiva dell’agente). La prima ci dice se l’atto sia buono o cattivo. La seconda ci permette di valutare le eventuali circostanze attenuanti o aggravanti. Ancora oggi questa distinzione sta alla base non solo della teologia morale, ma anche del diritto penale.
Rocco Buttiglione, Risposte amichevoli ai critici di Amoris lætitia, 48-50
L’omicidio è sempre male, intrinsece, ma – oltre a tutte le attenuanti considerate dalla legge – il caso di aggressione subita rende lecita la difesa personale fino all’uccisione dell’aggressore… e doverosa la difesa altrui (specie della comunità e dei suoi membri più indifesi) fino a quell’uccisione di molti uomini che ogni soldato virtualmente compie in guerra. È solo un esempio, e un esempio forte, visto che si parla del bene della vita – bene fondamentale, non supremo. La grazia e la fede, invece, sono beni supremi, e le antiche dispute di Cornelio e Cipriano, di Ippolito e Callisto, ci mostrano bene che perfino chi rinneghi formalmente e apertamente Dio può essere gradualmente riammesso nel seno della Chiesa. Ciò che a noi oggi compete non è prolungare la disperata battaglia dei papisti che vorrebbero spiegare il papato ai papi (ogni pontificato conosce formazioni di costoro, distinte eppure convergenti): ciò che ci è richiesto – Müller e Buttiglione indicano uno Holzweg promettente in tal senso – è di elaborare modalità di ricezione omogenea (e non tautologica!) di un testo magisteriale che forze eversive vorrebbero adoperare a mo’ di piede di porco (in tutti i sensi) contro il depositum fidei.
Note
↑1 | Riportiamo qui il passo decisivo di Reconciliatio et Paenitentia, n. 17: «Cogliamo qui il nucleo dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull’esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. È doveroso aggiungere – come è stato anche fatto nel Sinodo – che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave». Sottolineiamo che alcuni peccati «sono intrinsecamente gravi e mortali». Qui il Papa conferma la teoria dell’intrinsece malum. Ha però cura di precisare «quanto alla loro materia». In questo modo precisa che anche nel caso dell’intrinsece malum valgono le circostanze attenuanti soggettive che influiscono sulla piena coscienza e il deliberato consenso, cioè sul lato soggettivo dell’azione. È per questo che specifica che questi atti sono sempre colpa grave «se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà». La teoria dell’intrinsece malum è perfettamente compatibile con il sistema delle attenuanti soggettive. [nota 8 nel libro, N.d.R.] |
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↑2 | San Tommaso, Quæstiones Quodlibetales, q. 17, a. 4. [nota 9 nel libro, N.d.R.] |
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