Non “legare sulle spalle degli uomini carichi insostenibili”
È questo uno dei comandamenti per i confessori: Cristo lo disse e la Chiesa lo scrisse, vent’anni fa anche in un vademecum1Firmato proprio il 12 febbraio 1997.. Si parla proprio de sexto e di Magistero attinente alla famiglia, nelle sue praticissime “ricadute da confessionale”. Vale la pena riportare un passaggio importante:
7. Il sacramento della Riconciliazione richiede, da parte del penitente, il dolore sincero, l’accusa formalmente integra dei peccati mortali e il proposito, con l’aiuto di Dio, di non ricadere mai più. In linea di massima non è necessario che il confessore indaghi sui peccati commessi a causa dell’ignoranza invincibile della loro malizia, o di un errore di giudizio non colpevole [grassetto d.R.]. Per quanto tali peccati non siano imputabili, tuttavia non cessano di essere un male e un disordine. Ciò vale anche per la malizia obiettiva della contraccezione: questa introduce nella vita coniugale degli sposi un’abitudine cattiva. E quindi necessario adoperarsi, nel modo più opportuno, per liberare la coscienza morale da quegli errori(42)che sono in contraddizione con la natura del dono totale della vita coniugale.
Pur tenendo presente che la formazione delle coscienze va fatta soprattutto nella catechesi sia generale che specifica degli sposi, è sempre necessario aiutare i coniugi, anche nel momento del sacramento della Riconciliazione, ad esaminarsi sui doveri specifici della vita coniugale. Qualora il confessore ritenga doveroso interrogare il penitente, lo faccia con discrezione e rispetto.
8. Certamente è da ritenere sempre valido il principio, anche in merito alla castità coniugale, secondo il quale è preferibile lasciare i penitenti in buona fede in caso di errore dovuto ad ignoranza soggettivamente invincibile, quando si preveda che il penitente, pur orientato a vivere nell’ambito della vita di fede, non modificherebbe la propria condotta, anzi passerebbe a peccare formalmente [grassetto d.R.]; tuttavia, anche in questi casi, il confessore deve tendere ad avvicinare sempre più tali penitenti, attraverso la preghiera, il richiamo e l’esortazione alla formazione della coscienza e l’insegnamento della Chiesa, ad accogliere nella propria vita il piano di Dio, anche in quelle esigenze.
9. La « legge della gradualità » pastorale, che non si può confondere con « la gradualità della legge », che pretende di diminuire le sue esigenze, consiste nel chiedere una decisiva rottura col peccato e un progressivo cammino verso la totale unione con la volontà di Dio e con le sue amabili esigenze.(43)
10. Risulta per contro inaccettabile il pretestuoso tentativo di fare della propria debolezza il criterio della verità morale. Sin dal primo annunzio della parola di Gesù, il cristiano si accorge che c’è una « sproporzione » tra la legge morale, naturale ed evangelica, e la capacità dell’uomo. Ugualmente comprende che riconoscere la propria debolezza è la via necessaria e sicura per aprire le porte della misericordia di Dio.(44)
11. A chi, dopo aver peccato gravemente contro la castità coniugale, è pentito e, nonostante le ricadute, mostra di voler lottare per astenersi da nuovi peccati, non sia negata l’assoluzione sacramentale. Il confessore eviterà di dimostrare sfiducia nei confronti sia della grazia di Dio, sia delle disposizioni del penitente, esigendo garanzie assolute, che umanamente sono impossibili, di una futura condotta irreprensibile,(45) e cioè secondo la dottrina approvata e la prassi seguita dai Santi Dottori e confessori circa i penitenti abituali.
A ben vedere, si parla delle medesime questioni che oggi infiammano tanto gli animi2Né si esprime diversamente il Catechismo della Chiesa Cattolica, che al N. 1793 afferma: «Se […] l’ignoranza è invincibile, o il giudizio erroneo è senza responsabilità da parte del soggetto morale, il male commesso dalla persona non può esserle imputato. Nondimeno resta un male, una privazione, un disordine. È quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori».. Mi ricordo di quando un famoso psicoterapeuta disse al mio padre spirituale (un vecchio gesuita cattolico): «Padre, i migliori tra voi sanno da sempre quello che noi andiamo scoprendo da cento anni…». Non c’è bisogno che ogni volta che si parla di elasticità si riaffermi la durezza, e che ogni volta che si affermi la legge della gradualità si condanni la gradualità della legge: ovvero, ce n’è bisogno, sì, ma questa cosa l’ha già fatta il Magistero. E Paolo VI non depose la tiara perché ciascuno di noi se la mettesse in capo…
Quali sono i peccati non mortali che non sono veniali
Questo invece è un punto più delicato, perché di primo acchito sembra contraddire il passo (invero decisivo) dell’esortazione apostolica Reconciliatio et pœnitentia di Giovanni Paolo II, che traccia magistralmente il confine della discussione:
Questa dottrina fondata sul Decalogo e sulla predicazione dell’Antico Testamento, ripresa nel kerigma degli apostoli e appartenente al più antico insegnamento della Chiesa, che la ripete fino ad oggi, ha un preciso riscontro nell’esperienza umana di tutti i tempi. L’uomo sa bene, per esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso la conoscenza e l’amore di Dio in questa vita e verso la perfetta unione con lui nell’eternità, può sostare o distrarsi, senza però abbandonare la via di Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il quale, tuttavia, non dovrà essere attenuato quasi che sia automaticamente qualcosa di trascurabile o un «peccato di poco conto».
Sennonché l’uomo sa pure, per dolorosa esperienza, che con atto consapevole e libero della sua volontà può fare un’inversione di marcia, camminare nel senso opposto al volere di Dio e così allontanarsi da lui («aversio a Deo»), rifiutando la comunione di amore con lui, staccandosi dal principio di vita che è lui, e scegliendo, dunque, la morte.
Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l’alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino («conversio ad creaturam»). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave. L’uomo sente che questa disubbidienza a Dio tronca il collegamento col suo principio vitale: è un peccato mortale, cioè un atto che offende gravemente Dio e finisce col rivolgersi contro l’uomo stesso con un’oscura e potente forza di distruzione.
Durante l’assemblea sinodale è stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali. La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo.
RP 17 passim
Fra la vita e la morte non si dà via di mezzo, e nell’inferno dantesco Paolo e Francesca non sono “meno dannati” di Giuda, Bruto e Cassio. Il punto è un altro, e alla teologia non interessa neppure stabilire “una hit parade del male possibile”, quasi che una cosa meno cattiva di un’altra fosse in sé più buona3Un male relativo sarà sempre un bene relativo, certo, ma proprio in quanto tale sarà necessariamente distante dal bene assoluto, da ciò che davvero è buono in sé.: ciò che però non può non interessare alla teologia è come l’uomo, naturalmente capax Dei, possa diventare capace di odio a ciò che è il proprio Destino ultimo (e quindi di quell’odio a sé stesso che escatologicamente diventa l’inferno).
Note
↑1 | Firmato proprio il 12 febbraio 1997. |
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↑2 | Né si esprime diversamente il Catechismo della Chiesa Cattolica, che al N. 1793 afferma: «Se […] l’ignoranza è invincibile, o il giudizio erroneo è senza responsabilità da parte del soggetto morale, il male commesso dalla persona non può esserle imputato. Nondimeno resta un male, una privazione, un disordine. È quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori». |
↑3 | Un male relativo sarà sempre un bene relativo, certo, ma proprio in quanto tale sarà necessariamente distante dal bene assoluto, da ciò che davvero è buono in sé. |
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