Se i fatti, come sembra, corrispondono alla denuncia presentata dagli studenti, si tratta di un atteggiamento assolutamente improprio e censurabile. L’università è uno spazio di convivenza pacifica e rispettosa di opinioni, culture e fedi religiose. L’Università non è luogo di gesti divisivi, né, tantomeno, di imposizione e se ciò è avvenuto nel nostro ateneo non può essere accettato dal rettore, che rappresenta l’ateneo stesso nella sua interezza e nella pluralità delle sue espressioni, che ne costituiscono la ricchezza e la distintività. Valori assolutamente da conservare, difendere, rafforzare ed è a nome dell’intero ateneo che chiedo scusa a tutti coloro che sono stati feriti nella sensibilità e nella fiducia verso l’Università.
Con queste parole il rettore dell’università di Macerata, Francesco Adornato, è intervenuto sul caso della professoressa Clara Ferranti, ricercatrice di Glottologia e Linguistica, che il 13 ottobre, centenario dell’apparizione della Madonna di Fatima, avrebbe interrotto la lezione che stava tenendo ad un centinaio di studenti, alle 17:30 in punto, per invitare chi voleva ad unirsi a lei per pregare per la pace con un’Ave Maria.
Un’Ave Maria di meno di un minuto. Un oltraggio, pare.
A dire il vero gli studenti lì per lì non hanno fiatato: chi ha ritenuto di farlo, ha recitato, gli altri sono stati in silenzio. Poi la lezione è ripresa seguendo il suo corso. Nessuna protesta, nessun clamore, nessuna uscita coreografica.
Però, come siamo ormai abituati, il malcontento che non si ha il coraggio di manifestare davanti ai diretti interessati, si va a vomitarlo sui social. E così qualche studente al termine dalla lezione ha raccontato sul web l’accaduto con toni seccati. Da suggerimento nasce proponimento ed ecco pronta la protesta formale al rettore, la cui risposta è un capolavoro di opportunismo a metà tra la vigliaccheria e la rabbia. O più probabilmente il risultato di entrambe le cose: «L’Università non è luogo di gesti divisivi».
Quando l’ho letta, mi è scappata una risata fragorosa, tanto che il vicino di posto nell’autobus è sobbalzato.
Per cotanto rettore è divisivo ogni gesto o opinione che non sia condivisa dall’ateneo nella sua “interezza e pluralità di espressioni”, cioè che non faccia parte di quel massimo comune divisore della varietà degli studenti. Ma esiste un comune divisore superiore a uno? Scusate la metafora matematica stringente, ma mi pare esattamente il punto chiave del problema odierno: la diversità, chiamata a parole “ricchezza”, è in realtà un orpello pesantissimo, nel momento in cui si decide di non considerarla in aggiunta al preesistente substrato culturale, bensì in competizione. Ciò che si può pubblicamente dire, manifestare, insegnare deve essere condiviso non più dalla maggioranza (e anche il concetto di maggioranza, in ambito culturale, è fuori luogo, perché le innovazioni del pensiero son sempre partite da minoranze sparute o addirittura singole genialità), bensì dalla totalità. La totalità è davvero tanta roba, soprattutto quando è così diversificata. Non so se esiste ancora qualcosa che condividiamo tutti, forse siamo destinati al mutismo e al grigiore indistinto di un anonimato di stato.
Oggi è un’Ave Maria, ieri era il crocifisso nelle aule (scommetto che a Macerata non ce n’è più traccia), domani sarà l’inno di Mameli. O un crocifisso al collo. O una maglietta di Che Guevara o del duce.
Il rettore ha chiesto addirittura scusa a chi si è sentito ferito nella sua sensibilità. Sensibilità? E come si misura, questa ferita alla sensibilità? C’è un sensibilometro? Dovremmo inventarlo, temo. Che un’Ave Maria ferisca è una novità assoluta: finora al massimo aveva lasciato indifferenti. Dura così poco che non fa in tempo nemmeno ad annoiare o infastidire chi non trova in quelle parole alcun significato.
Per fortuna a venirci in soccorso è stato il vescovo di Macerata, monsignor Nazzareno Marconi, che dalle colonne del bollettino diocesano ha fatto pervenire a tutti anche le sue scuse grondanti ironia:
La storia dei 25 secondi di interruzione di una lezione, per dire un’Ave Maria per la pace, con la reazione che ha scatenato ci interroga profondamente come credenti.
Gli stessi 25 secondi usati per dire una battuta, cosa che molti docenti fanno spesso, non avrebbero creato problemi.
Chiediamo scusa come credenti per aver destabilizzato la serenità di un’Università, ma il problema è la nostra poca fede. Chi dice almeno 50 Avemarie al giorno, cioè un rosario, tanti, molto più di quelli che vanno a Messa la domenica, non capisce tutta questa agitazione.
È che a dirne tante di Avemarie si comincia a pensare che valgano poco, che di fatto siano innocue. Che non creino problemi. Grazie perciò di cuore a chi ha protestato, a chi ci ha ricordato che la preghiera è una forza, una potenza che può mettere paura a qualcuno.
Grazie a chi crede più di noi credenti che quelle poche parole smuovano i monti e i cuori tanto da sconvolgere la loro vita. Grazie a chi ci ricorda che dire Ave Maria è salutare una donna morta 2000 anni fa credendo che è viva, in grado di pregare per noi e di operare per rendere la nostra vita più buona e vicina a Dio, tanto da aiutarci ad affrontare serenamente la morte.
Grazie fratelli non credenti e anticlericali perché ci avete ricordato quali tesori possediamo senza apprezzarne adeguatamente il valore e l’importanza.
Fratel Ettore Boschini, il famoso frate camilliano che aprì il rifugio della stazione di Milano per i senza tetto, faceva recitare Ave Maria a tutti gli ospiti, che fossero cristiani o meno. Nell’irruenza del suo apostolato immanente, liquidava le questioni teologiche con “Maria è la mamma di tutti, anche dei musulmani o degli atei”, e delle sensibilità urtate se ne fregava alla grande. Anzi, quelle sensibilità, calpestate dalla miseria e dell’emarginazione, le curava. Anche don Oreste Benzi, quando agganciava qualche prostituta sulla strada, esordiva con un poco politically correct “tu ami Gesù?”, secco, sparato nei denti. E la prima cosa che faceva, subito dopo “ciao” era pregare e far pregare, ma nessuna si è sentita accolta e amata come da don Oreste e la sua opera benefica.
Un’Ave Maria non è un esorcismo, non è il malocchio, una fattura o chissà cos’altro. È una preghiera di invocazione della benevolenza, è un gesto d’amore. Non può fare male a nessuno, non è previsto che faccia male a nessuno. Che uno sia credente o meno, sentirsi feriti per essere costretti ad assistere alla recita di un’Ave Maria è quanto di più paradossale e assurdo si possa immaginare.
Il problema sostanziale è che, sono pronta a scommetterci, tra gli animatori della protesta non c’è nemmeno un musulmano: si tratta dei soliti anticlericali esacerbati e inaciditi il cui divertimento massimo è l’ingiuria e l’ignominia alla Chiesa, ai suoi gesti e ai suoi ministri. Non mi stupirei nemmeno se costoro avessero pure l’abitudine di bestemmiare senza accortezza alcuna di urtare la sensibilità di credenti nei paraggi, credenti in quel Dio in cui loro non credono ma lo bestemmiano lo stesso.
La bestemmia dell’ateo è una dichiarazione di fede unita alla manifestazione di odio e ribellione. Parimenti lo è questa reazione scomposta e spropositata a 25 secondi di preghiera.
La risposta isterica del rettore assomiglia allo strepito del vampiro colpito dal primo raggio dell’alba o, più propriamente, al demonio raggiunto da uno sbruffo di acqua santa.
Siamo in attesa delle sanzioni disciplinari che pioveranno sulla povera docente, purtroppo la fede a costo zero in Italia è finita da un pezzo. Bisogna preoccuparsi di non urtare la sensibilità di ciascuno, tranne che dei cristiani, naturalmente: a loro, non solo si calpesta la sensibilità, ma pure la carriera.
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