Tra Lutero e il Modernismo
Né si può dire che la riformulazione ad usum demolitivum sia l’unica traccia di un certo (invero recente) modo di intendere la custodia della Dottrina della Fede: nella terza parte del temerario documento (che con involontaria comicità un illustre firmatario ha definito “un atto di devozione”) gli estensori espongono le due radici della mala pianta di Amoris lætitia – il modernismo e la riforma luterana. Una sezione tanto ridondante quanto fuori luogo, visto che nulla rivela1Mettono le mani avanti, nella nota 25: «In questa sezione, i firmatari non intendono descrivere principalmente il pensiero di Martin Lutero, materia di cui non tutti hanno la medesima competenza, quanto piuttosto descrivere alcune false nozioni del matrimonio, della giustificazione e della legge che sembrano aver ispirato Amoris laetitia». La temerarietà e la banalità di certo riduzionismo fatto con reminiscenze liceali sono tanto più insopportabili in quanto si trovano ipocritamente ammantate di questi usi dei verba putandi. se non il parterre culturale dei suddetti estensori: si tratta infatti di anime affannate la cui coscienza ecclesiale è rimasta incastrata, per diversi motivi, tra la seconda metà del XVI secolo e i primi lustri del XX. Sono evidentemente persone incapaci di concepire che la Chiesa esista prima e dopo questo lasso temporale, che sussista misticamente, spiritualmente e culturalmente entro e oltre gli angusti confini dell’Europa centrale, i quali non arrivano che occasionalmente sotto i Pirenei e ancora meno spesso considerano i cristiani ad est del Danubio2Consiglio vivamente di leggere l’intervista di mons. Giuseppe Lorizio su Avvenire: è voce senz’altro più autorevole della mia e di questa risulta perciò meno presuntuosa quando illustra la fuffa di cui è intessuto il documento (consiglio invece di saltare a piè pari gli zelanti guaiti dell’ormai insopportabile Luciano Moia, tutto proteso a squittire chiacchiere alla moda).: la cosa ha dell’incredibile, ma in alcuni scritti “maturati” in siffatta humus ho dovuto leggere perfino di strabilianti correnti carsiche che unirebbero invisibilmente la riforma luterana al nazismo.
Chi scrive di «una simpatia senza precedenti» di Papa Francesco per Lutero dimentica forse (o conta che gli altri dimentichino…) le allocuzioni di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sull’agostiniano tedesco: soprattutto in quelle dell’immediato predecessore, che volentieri indugiò sul radicale bisogno di “un Dio misericordioso” del riformatore sassone, si trova il supporto teoretico alle esternazioni di Papa Francesco. E va pure annotato che tra gli ultimi tre papi Francesco è stato l’unico che, ospite in terra protestante, ha osato proferire le parole: «I veri riformatori della Chiesa sono i santi»3Lo disse anche Benedetto XVI, il 13 gennaio 2010, ma in Piazza San Pietro. Forse involontariamente, quel giorno Papa Francesco citò un vecchio editoriale de La Civiltà Cattolica, ove si leggeva: «Certamente anche i cristiani devono lavorare al rinnovamento della Chiesa, impegnandovi tutte le proprie energie: essa ha bisogno di rinnovarsi e di purificarsi continuamente – Ecclesia semper purificanda poenitentiam et renovationem continuo prosequitur, afferma la Lumen gentium (n. 8) – ed ogni cristiano ha il dovere di portare il suo modesto contributo, secondo i propri carismi, all’opera di rinnovamento. Ma il suo sarà un contributo valido a due condizioni: che non si creda un “salvatore” della Chiesa (ce ne sono ormai troppi!) e che cominci l’opera di riforma e di purificazione della Chiesa da se stesso (anch’egli è Chiesa), sforzandosi di conformarsi al Vangelo prima di esigere che lo facciano gli altri; contestando se stesso prima di contestare gli altri. Così hanno fatto i veri riformatori della Chiesa: i santi. Altri che hanno preteso di riformarla senza essere santi l’hanno solo lacerata e ferita, lasciandola semiviva, come l’uomo della parabola del Samaritano, caduto nelle mani dei briganti» (Gioia e fierezza di appartenere alla Chiesa, in La Civiltà Cattolica 3/III 1969). Questo vale senza dubbio per Lutero, che però riposa nel suo XVI secolo, e vale per tutti noi – da Papa Francesco fino ai temerarî estensori e firmatarî di questa ipocrita “correctio filialis”.. Quanto alla “scandalosa” statua di Lutero, a dire il vero quel giorno pensai che doveva costituire un problema più per i luterani che per i cattolici…
Non stupisce che (a oggi) l’unico vescovo ad aver firmato questo documento sia Bernard Fellay, il Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X (i lefebvriani): il presule svizzero è rientrato dalla scomunica in cui era incorso nel 1988 per un gesto di clemenza e di distensione voluto da Benedetto XVI, il quale tuttavia ricordava al vescovo la necessità di accogliere il deposito del Vaticano II per completare la reintegrazione. Francesco ha prorogato la sospensione dalla censura ecclesiastica malgrado la stolida inerzia della FSSPX di fronte ai documenti conciliari: addirittura Fellay ha raccontato durante una predica che mons. Pozzo avrebbe ormai sollevato con ufficiosa ufficialità i lefebvriani dall’obbligo di sottoscrivere il Vaticano II. Questa è gente strana che rapina con la sinistra dal piatto della clemenza, tanto vituperata, mentre al contempo lo allontana con la destra. Colpisce (e duole) che a simili nomi si accostino anche quelli di studiosi moderati e intelligenti, come mons. Antonio Livi. Ma tant’è: in questi giorni di veleni può capitare che si perda la bussola.
Una precisazione sull’Eucaristia
Si potrà obiettare che il parallelismo tra il caso ipotizzato da Francesco e quello indicato da Benedetto XVI non regge per un ulteriore motivo (oltre al fatto che quello è Magistero e questo no, perlomeno non in senso stretto): il Papa Emerito non accennò neanche lontanamente alla possibilità di dare la comunione al prostituto della sua ipotesi. Vero. A questo punto però urgono due osservazioni.
La Comunione ai divorziati
La proposizione 7 della “correctio filialis” è tre volte falsa:
Nostro Signore Gesù Cristo vuole che la Chiesa abbandoni la sua perenne disciplina di rifiutare l’Eucaristia ai divorziati risposati e di rifiutare l’assoluzione ai divorziati risposati che non manifestano la contrizione per il loro stato di vita e un fermo proposito di emendarsi.
- Essa è falsa anzitutto in quanto Nostro Signore non vuole che le sue perle siano date a peccatori impenitenti (vale anche per i temerarî correttori del Papa);
- Essa è falsa in seguito in quanto mai Papa Francesco ha formalizzato una simile sciocchezza;
- Essa è falsa infine in quanto la disciplina di cui si parla non è affatto “perenne” [“perantiqua”, dice il testo latino, cioè antichissima], né può esserlo, per la semplice ragione che il matrimonio civile è un istituto napoleonico.
E perché questo non sembri un sofisma lo esprimo con le parole di un tradizionalista sopra le righe come Ariel S. Levi di Gualdo, che nel suo divertissement “Cum magna tristitia”, fingendosi il futuro Clemente XV, scriveva appunto:
La prudente scelta di non concedere la Santissima Eucaristia ai divorziati risposati non è un elemento dogmatico della fede cattolica ma una disciplina normativa adottata dal Magistero della Chiesa in ossequio alla morale insegnata e trasmessa dalla Santa tradizione cattolica. Dunque, per il potere a Noi conferito da Cristo Signore, di Nostra autorità potremmo modificare questa disciplina normativa […].
Al di là delle logomachie su cosa possa significare “perantiquus” (il diritto canonico riconosce “immemorabili” le consuetudini già quando sono centenarie), bisogna ricordare che la ragione fondamentale, sul piano teologico, sulla quale si fonda la suddetta disciplina è semplicemente che il sacramento eucaristico è il fondamento mistico della sacramentalità del matrimonio, e non ne abbiamo maturato un altro con cui sostituirlo. Ciò significa che:
- Poiché solo per l’analogia tra Cristo e la Chiesa – il cui vincolo è l’Eucaristia (cf. Eph 5,25-32 nonché Ecclesia de Eucharistia) – un uomo e una donna possono effettivamente unirsi “in unam carnem”;
- Resta tuttora teologicamente incomprensibile come si possa accedere al sacramento eucaristico una volta che in virtù del sacramento matrimoniale ci si sia vincolati ad accedere alla mensa del Signore con e per il coniuge e nel coniugio e si spezzi questo vincolo di per sé indissolubile;
- E resta quindi formidabile l’ammonimento dell’Apostolo sul fatto che «chi mangia e beve indegnamente il corpo del Signore mangia e beve la propria condanna» (cf. 1Cor 11,23-29).
Quindi non è amministrando sacrilegamente i sacramenti a peccatori impenitenti che li si aiuterà in ordine al loro fine ultimo, che è la salvezza eterna (e non un mero segno di integrazione nella società ecclesiale).
Ricevere “degnamente” il “panis angelorum”
A questo punto la seconda osservazione: chi è “degno” del corpo di Cristo? Poiché la materia è vastissima e spazia dal lassismo più sfrenato al giansenismo più rigido, mi pare utile (in luogo di produrmi in una comunque incompleta rassegna) riportare stralci di una bellissima pagina del giovane Joseph Ratzinger, che nel 1960 così parlò al convegno dell’Opera cattolica di formazione religiosa, a Leverkusen:
L’Eucaristia culmina nella Comunione, vuole essere ricevuta. Se riflettiamo, emerge un ulteriore elemento. Che cosa accade in realtà nella Santa Comunione? Tutti i comunicanti mangiano l’unico e medesimo pane, Cristo, il Signore. Mangiano all’unica mensa di Dio, nella quale non c’è alcuna differenza, nella quale l’imprenditore e il lavoratore, il tedesco e il francese, il dotto e l’incolto hanno tutti lo stesso rango. Se vogliono appartenere a Dio, appartengono all’unica mensa: l’Eucaristia li raccoglie tutti in un unico convivio. E, come detto, in comune non c’è solo la mensa, ma quello che essi mangiano; sul serio è assolutamente la stessa e medesima cosa: mangiano tutti Cristo, perché come uomini sono tutti uniti spiritualmente alla medesima realtà fondamentale di Cristo, tutti entrano per così dire in un unico spazio spirituale che è Cristo.
In un momento di rapimento spirituale Agostino credette di udire la voce del Signore che gli diceva: «Io sono il pane dei forti. Mangiami. Non sarai tu però a trasformare me in te, come accade per il cibo comune, ma io trasformerò te in me». Significa che, nella normale alimentazione, l’uomo è più forte del cibo. Egli lo mangia, nel processo digestivo esso viene scomposto e (in ciò che gli è utile) assimilato al corpo, trasformato in sostanze proprie dell’organismo, diviene un pezzo di noi stessi, trasformato nella sostanza del nostro corpo. Nell’Eucaristia, il nutrimento, vale a dire Cristo, è più forte ed è più di noi. Così che il senso di questo nutrimento è esattamente opposto: esso vuole trasformare noi, assimilarci a Cristo, così che possiamo uscire da noi stessi, giungere oltre noi e divenire come Cristo. Ma questo significa di conseguenza che tutti i comunicanti, con la Comunione, vengono tratti fuori da sé e assimilati all’unico cibo, vale a dire alla realtà spirituale di Cristo. Questo a sua volta vuol dire che essi vengono anche fusi tra loro. Vengono tutti tratti fuori da se stessi e condotti in un unico centro. I Padri dicono: essi diventano (o dovrebbero diventare) “corpo di Cristo”. Ed è questo l’autentico senso della Santa Comunione: che i comunicanti divengano tra loro una cosa sola per mezzo dell’uniformarsi all’unico Cristo. Il senso primario della Comunione non è l’incontro del singolo con il suo Dio – per questo ci sarebbero anche altre vie – ma proprio la fusione dei singoli tra loro per mezzo di Cristo. Per sua natura la Comunione è il sacramento della fraternità cristiana.
Questo mi sembra di straordinaria importanza per quel che riguarda la concreta ricezione della Comunione. Già nelle nostre preghiere dopo la Comunione dovremmo prendere sempre di nuovo coscienza che abbiamo ricevuto il sacramento della fraternità e dovremmo cercare di comprendere quale impegno ci impone. Dovremmo così ridivenire consapevoli molto più fortemente del fatto che il cattolicesimo non afferma solo un legame verticale del singolo con Cristo e con il Padre, e nemmeno solo un legame con il supremo vertice gerarchico, il Papa, ma che appartiene essenzialmente alla natura del cattolicesimo anche il legame orizzontale, il legame dei comunicanti e delle comunità eucaristiche fra loro.
[…]
A partire da qui è andata sviluppandosi una nuova comprensione della questione relativa alla frequenza della Santa Comunione. La Comunione non è un premio per chi è particolarmente virtuoso (chi, in questo caso, potrebbe riceverla senza essere un fariseo?), ma è invece il pane del pellegrino che Dio ci porge in questo mondo, che ci porge dentro la nostra debolezza. Essa è il nostro “sì” alla Chiesa, alla comunità di quanti credono insieme a noi; è la modalità con la quale veramente e di fatto ci uniamo sempre di nuovo alla Chiesa; è quell’avvenimento che di continuo ci chiama fuori da tutte le relazioni puramente terrene e fa reale il Divino-Eterno nella nostra esistenza. Per questo è proprio l’uomo in pericolo ad avere di continuo bisogno di questo attuarsi della sua fede, per mezzo del quale egli vive la comunità di fede in modo veramente concreto. Lo sguardo alla Comunione domenicale deve essere di continuo per lui un’esortazione a essere “comunicante” nella sua vita quotidiana: vale a dire a vivere come cristiano; infatti, nella Chiesa antica, essere cristiano equivaleva a essere “comunicante”, a essere uno che partecipava alla comunità del corpo del Signore che è la Chiesa. Dal fatto che la Chiesa è comunità eucaristica – e che, di conseguenza, essere cristiano ed essere “comunicante” è la stessa cosa –, che essere cristiano consiste semplicemente nella partecipazione al Corpo del Signore (circostanza, questa, dalla quale tutto il resto deriva), da questo fatto risulta anche la norma per la frequenza della Comunione: per la persona che lavora – e che dunque difficilmente può comunicarsi giornalmente – la Comunione domenicale dovrebbe rappresentare la norma, mentre la Confessione, a seconda della disposizione, potrà essere sufficiente praticarla mensilmente o addirittura trimestralmente. Affermare che non sarebbe possibile per il normale cristiano vivere senza cadere in peccato mortale così a lungo è un’asserzione che significa, a un tempo, avere una considerazione troppo bassa del normale cristiano e una considerazione falsamente elevata del peccato mortale. Un cristiano che si sforza sinceramente di vivere come cristiano non vive in stato di peccato mortale, peccato questo che non accade incidentalmente e marginalmente: qualcosa che accade incidentalmente, proprio per questo non è peccato mortale. Credo che, qui dovremmo veramente mostrare più coraggio e più fede. L’intero nostro cristianesimo potrebbe un po’ cambiare volto se fosse di nuovo evidente che essere cristiano ed essere “comunicante” è la stessa e identica cosa.
Vadano a leggersi tutto il volume 7/I degli Scritti sul Concilio di Ratzinger, i 62 e i loro simpatizzanti, e si divertano a contare lì i “cedimenti al luteranesimo” del futuro Benedetto XVI. Noi cattolici invece ci nutriremo di questo e di altri insegnamenti volti a magnificare la costanza del Magistero. In realtà sbaglia chi dice che «l’Eucaristia non è “il pane dei forti”», perché sant’Agostino afferma il contrario e lo fa riecheggiando la Scrittura; l’Eucaristia è il “pane dei forti”, sì, e bisogna “crescere” un tantino per e prima di accostarvisi (così come a un lattante non si dà cibo solido – si ricorderà che l’analogia affonda le radici in san Paolo: cf. 1Cor 3,2). Essa però non è il cibo dei perfetti, benché sia chiamato tipologicamente “pane degli angeli”. La quadratura del cerchio l’ha prodotta san Tommaso d’Aquino, che nel comporre l’innologia e l’eucologia del Corpus Domini scrisse:
factus cibus viatorum:
vere panis filiorum,
non mittendus canibus.
divenuto cibo dei viandanti:
è veramente il pane dei figli,
non dev’essere dato ai cani.
L’Angelico ha detto tutto: per la grazia di Dio la fonte di ogni perfezione è stata disposta come sostentamento degli imperfetti; questo è tuttavia il cibo dei figli e non si può dare a chi vive schiavo del peccato. E viceversa.
La comunione, poi, non è una mera questione di idoneità individuale di fronte a Cristo (lo ha spiegato Ratzinger da par suo): essa è l’essenza del cristianesimo in quanto trasforma ogni cristiano e l’intera comunità nel corpo di Cristo, ma questo implica che ogni comunicante prenda l’impegno concreto a protendersi verso quello stato di unione. Quel medesimo che è strettamente analogato all’unione sponsale ed intima tra marito e moglie. Ecco perché i divorziati risposati pongono un problema alla comunità: ma questo significa appunto che se è ancora sincero desiderio di costoro il vivere una vita cristiana la comunità è in obbligo nei loro confronti. Quale obbligo? Ma Papa Francesco l’ha spiegato con chiarezza: accogliere, accompagnare, discernere, integrare. Senza fretta e senza legalismo. Parimenti senza credersi padroni dei sacramenti: da un sacrilegio non deriva grazia né per le coppie in difficoltà né per la comunità.
Note
↑1 | Mettono le mani avanti, nella nota 25: «In questa sezione, i firmatari non intendono descrivere principalmente il pensiero di Martin Lutero, materia di cui non tutti hanno la medesima competenza, quanto piuttosto descrivere alcune false nozioni del matrimonio, della giustificazione e della legge che sembrano aver ispirato Amoris laetitia». La temerarietà e la banalità di certo riduzionismo fatto con reminiscenze liceali sono tanto più insopportabili in quanto si trovano ipocritamente ammantate di questi usi dei verba putandi. |
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↑2 | Consiglio vivamente di leggere l’intervista di mons. Giuseppe Lorizio su Avvenire: è voce senz’altro più autorevole della mia e di questa risulta perciò meno presuntuosa quando illustra la fuffa di cui è intessuto il documento (consiglio invece di saltare a piè pari gli zelanti guaiti dell’ormai insopportabile Luciano Moia, tutto proteso a squittire chiacchiere alla moda). |
↑3 | Lo disse anche Benedetto XVI, il 13 gennaio 2010, ma in Piazza San Pietro. Forse involontariamente, quel giorno Papa Francesco citò un vecchio editoriale de La Civiltà Cattolica, ove si leggeva: «Certamente anche i cristiani devono lavorare al rinnovamento della Chiesa, impegnandovi tutte le proprie energie: essa ha bisogno di rinnovarsi e di purificarsi continuamente – Ecclesia semper purificanda poenitentiam et renovationem continuo prosequitur, afferma la Lumen gentium (n. 8) – ed ogni cristiano ha il dovere di portare il suo modesto contributo, secondo i propri carismi, all’opera di rinnovamento. Ma il suo sarà un contributo valido a due condizioni: che non si creda un “salvatore” della Chiesa (ce ne sono ormai troppi!) e che cominci l’opera di riforma e di purificazione della Chiesa da se stesso (anch’egli è Chiesa), sforzandosi di conformarsi al Vangelo prima di esigere che lo facciano gli altri; contestando se stesso prima di contestare gli altri. Così hanno fatto i veri riformatori della Chiesa: i santi. Altri che hanno preteso di riformarla senza essere santi l’hanno solo lacerata e ferita, lasciandola semiviva, come l’uomo della parabola del Samaritano, caduto nelle mani dei briganti» (Gioia e fierezza di appartenere alla Chiesa, in La Civiltà Cattolica 3/III 1969). Questo vale senza dubbio per Lutero, che però riposa nel suo XVI secolo, e vale per tutti noi – da Papa Francesco fino ai temerarî estensori e firmatarî di questa ipocrita “correctio filialis”. |
Anche qui non mi lascia incollare l’estratto di Ratzinger, credo a causa della lunghezza del testo! Riporto dunque la sintesi:
Da “Teologia della Liturgia”, Volume XI dell’Opera Omnia, pagg. 422-424
“La tesi secondo cui l’Eucaristia apostolica si ricollega alla quotidiana comunità conviviale di Gesù con i suoi discepoli […] viene in ampi circoli radicalizzata nel senso che […] si fa derivare l’Eucaristia più o meno esclusivamente dai pasti che Gesù consumava con i peccatori.
“In tali posizioni si fa coincidere l’Eucaristia secondo l’intenzione di Gesù con una dottrina della giustificazione rigidamente luterana, come dottrina della grazia concessa al peccatore. Se infine i pasti con i peccatori vengono ammessi come unico elemento sicuro della tradizione del Gesù storico, si ha per risultato una riduzione dell’intera cristologia e teologia su questo punto.
“Ma da ciò segue poi un’idea dell’Eucaristia che non ha più nulla in comune con la tradizione della Chiesa primitiva. Mentre Paolo definisce l’accostarsi all’Eucaristia in stato di peccato come un mangiare e bere “la propria condanna” (cf. 1 Cor 11, 29) e protegge l’Eucaristia dall’abuso mediante l’anatema (cf. 1 Cor 16, 22), appare qui addirittura come essenza dell’Eucaristia che essa venga offerta a tutti senza alcuna distinzione e condizione preliminare. Essa viene interpretata come il segno della grazia incondizionata di Dio, che come tale viene offerta immediatamente anche ai peccatori, anzi, anche ai non credenti, una posizione che, comunque, ha ormai ben poco in comune anche con la concezione che Lutero aveva dell’Eucaristia.
“Il contrasto con l’intera tradizione eucaristica neotestamentaria in cui cade la tesi radicalizzata ne confuta il punto di partenza: l’Eucaristia cristiana non è stata compresa partendo dai pasti che Gesù ebbe con i peccatori. […] Un indizio contro la derivazione dell’Eucaristia dai pasti con i peccatori è il suo carattere chiuso, che in questo segue il rituale pasquale: come la cena pasquale viene celebrata nella comunità domestica rigorosamente circoscritta, così esistevano anche per l’Eucaristia fin dall’inizio condizioni d’accesso ben stabilite; essa veniva celebrata fin dall’inizio, per così dire, nella comunità domestica di Gesù Cristo, e in questo modo ha costruito la ‘Chiesa'”.
Caro Marcotullio, capisco e apprezzo la sua indignazione di cattolico a vedere il Papa censurato come eretico. Ma mi sembra che nella sua lunga difesa di Francesco lei non centri il nocciolo del problema. Bergoglio è eretico? Non saprei dire, e qualunque cosa dicessi non sarebbe che una opinione. Nel “liberi tutti” teologico che è seguito al Vaticano II è difficile dire che cosa sia ortodosso e che cosa sia eretico. E lo stesso Bergoglio non si è trattenuto dal citare il caso di Antonio Rosmini, a dimostrazione di come la Chiesa cambi opinione, e chi prima era considerato eretico poi viene beatificato. Ma se non è chiaro che cosa sia ortodosso e che cosa eretico, allora la stessa figura del Papa perde senso: non parlando più a nome della giusta dottrina, come definita nel passato dai concili, allora la sua diventa una opinione tra le altre, alla quale altri possono opporre la loro. Questa era già la situazione della Chiesa prima di Bergoglio, basti pensare ai forti dissensi nei confronti di Benedetto XVI, Ma con lui è esplosa in pieno. Non c’è più “Roma locuta, causa soluta”. E qualunque esercizio del potere pontificio può passare per autoritaria imposizione di una opinione sulle altre. Nel frattempo, non possiamo far altro che esercitare la nostra ragione, che san Tommaso d’Aquino segnalava come l’elemento comune necessario in qualunque disputa, di cristiani tra loro e con gli ebrei o con chi non è né cristiano né ebreo. E pregare.
Non c’è mai stato “Roma locuta, causa finita”: Agostino lo diceva – come sempre lo dicevano nell’area di Cartagine (generalmente bizzosa e poco propensa a prendere ordini da Roma) – quando Roma gli dava ragione. Quando non gli dava ragione anche lui tempestava di lettere i Papi, fino a quando – diremmo per ridere – non li prendeva per sfinimento. E san Bernardo? E Bellarmino? Potremmo citare centinaia di casi analoghi. Il punto è che questo delicatissimo esercizio di verità si può fare solo nella più limpida carità (difatti quelli che ho citato sono santi, come anche Rosmini: Fellay no). E se di carità se ne intravede ancora molta nei Dubia (almeno fino alla loro pubblicazione) questo testo invece – imbastito male e compilato peggio – non lascia trasparire che malcelato livore.
Sono lieto che hai avuto modo, pur sofferto, di stendere due righe su questa dei 62. In merito di AL ne parlai su La Croce Quotidiano. Il vero problema rimane il discernimento delle situazioni. Dolentemente pochi sono i sacerdoti che sono in grado di poterlo compiere correttamente. Perché il discernimento necessita di sapienza, di grazia di stato “slegata” e non rattrappita, di vita fraterna robusta e del “tempo superiore allo spazio”. Per tale motivo tale documento in alcune sue parti a me appare profetico oltre che palindromo, come correttamente dici, ma sicuramente non è un documento semaforo. E, nel contempo, sicuramente non è documento slegabile da Humanæ Vitæ e da Familiaris Consortio. Qui la riflessione di diverso tempo addietro. https://www.ilcattolico.it/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/alcune-note-difficili-intorno-all-esortazione-amoris-laetitia.html
Grazie Giovanni Marcotullio.
Condivido ciò che hai scritto con lo spirito e con la mente e con il cuore parola per parola (a parte quelle troppo “alte” per la mia scarsa cultura teologica, che però condivido lo stesso … sulla fiducia!).
Devo confessare che, ogni volta che leggo qualche commento (critico) su Amoris Laetitia, mi viene in mente una regola sull’interpretazione teologica, che mi ha colpita moltissimo, enunciata da te (citando… non mi ricordo chi…), in una bellissima trasmissione su Sant’Ireneo, a Radio Maria.
È una affermazione che ho sentito profondamente vera e mia.
Ovviamente vado a memoria (il che non è una garanzia) cercando di riportarla nel modo più letterale possibile, e mi perdonerai se sbaglierò, ma più o meno il senso suonava così: “Nulla può essere letto e interpretato, se non in totale unione con tutte le Scritture, tutto il Magistero, tutta la Dottrina, tutto il Catechismo”.
Io l’ho sentita subito mia, perché da avvocato, conosco molto bene la pratica della “citazione estrapolativa” che pretende, da una frasetta, di indicare il senso ultimo di una sentenza (nel mio caso), di un Vangelo, di un Catechismo o di un’Esortazione (in teologia)…
E il senso che ne ho tratto, da esegeta giuridica (che segue la regola di nomofilachia per cui, se una norma può essere interpretata in modo costituzionalmente legittimo, ma anche in modo costituzionalmente illegittimo, la prima interpretazione è quella giusta da preferirsi e la seconda deve essere scartata e rigettata), è che ogni parola in materia di Fede deve essere sempre interpretata in unione con la Scrittura, il Magistero, la Dottrina e il Catechismo, alla luce del senso dottrinariamente corretto che se ne può trarre.
Mentre invece, se una interpretazione può olezzare di eresia, allora deve escludersi che possa essere quella voluta da chi ha pronunciato o scritto quella parola.
Seguendo tale metodo, l’errore non è di chi ha scritto l’Amoris Laetitia, ma di chi la legge e la interpreta in maniera scorretta, attribuendole senso, fini, e odori che non le sono propri, perché contrastanti con tutto quello che la precede e la segue.
Ed ecco che ritrovo tutto ciò nella tua chiosa:
“Io penso, in conclusione, che sia compito di tutti i teologi e degli studiosi, laici o chierici, l’approfondire il dettato dell’esortazione apostolica ricevendola anzitutto con il «devoto ossequio dell’intelletto e della volontà» (cosa che non sembra venga fatta sempre, da costoro…); dandone poi una lettura che sia veramente conforme ai contenuti del Magistero precedente e che quello stesso Magistero illumini e approfondisca nelle sue ragioni e nei suoi fini. Se le conferenze episcopali sbagliano, altri Vescovi hanno il diritto e il dovere sacrosanto di entrare in dialettica con loro, e se serve anche in polemica. Perfino noi laici abbiamo, in misura diversa e proporzionata, questo sacrosanto diritto/dovere. La prima sede, invece, non può essere giudicata da nessuno.”
Il Papa deve essere chiaro quando parla “da Papa” , o peggio, quando scrive. Non sono quindi d’accordo che sia corretto, per un Papa, rimanere nel vago: “il vostro parlare sia sì sì, no no. Il di più viene dal maligno”. Preghiamo perché il Signore illumini questa Chiesa e la guidi fuori della tempesta perfetta che si sta scatenando contro di lei. Sono tempi difficili per la Cristianità ma, soprattutto, per la fede di ciascuno di noi. Che Santa Maria Ausiliatrice ci sia vicina e ci conduca a Cristo. Maria Regina degli Apostoli, prega per noi.