Il tempo e lo spazio
Nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium, in effetti, il Santo Padre aveva indicato uno dei suoi principî-guida: la priorità del tempo sullo spazio. Con le sue parole:
Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.
[…]
Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga. Il Signore stesso nella sua vita terrena fece intendere molte volte ai suoi discepoli che vi erano cose che non potevano ancora comprendere e che era necessario attendere lo Spirito Santo (cfr Gv 16,12-13). La parabola del grano e della zizzania (cfr Mt 13, 24-30) descrive un aspetto importante dell’evangelizzazione, che consiste nel mostrare come il nemico può occupare lo spazio del Regno e causare danno con la zizzania, ma è vinto dalla bontà del grano che si manifesta con il tempo.
Evangelii Gaudium 223.225
Le ho sentite risuonare in un passaggio del libro-intervista con Dominique Wolton anticipato da Figaro Magazine (anticipazioni che ho tradotto per Aleteia):
È una cosa chiara e positiva [Amoris lætitia, N.d.R.], che alcuni dalle tendenze troppo tradizionaliste combattono dicendo che non è quella la vera dottrina. Quanto alle famiglie ferite, dico che nel capitolo VIII ci sono quattro criteri: accogliere, accompagnare, discernere le situazioni e integrare. E questo non è una norma fissa: apre una strada, un cammino di comunicazione. Mi hanno subito chiesto: «Ma si può dare la comunione ai divorziati?». Rispondo: «Parlate col divorziato, parlate con la divorziata, accogliete, accompagnate, integrate, discernete!». Ahimè, noi preti siamo abituati alle norme fisse. Alle regole di ferro. Ed è difficile, per noi, questo «accompagnare sul cammino, integrare, discernere, dire del bene». Ma la mia proposta è questa.
In effetti sintetizzare con l’espressione “caso per caso” risulta odioso nella sua estrema ambiguità: non può significare una cosa ingiusta come “a quelli sì e a questi no” (difatti a quanto leggiamo i sacerdoti, in parte comprensibilmente, richiedono delle norme chiare e da applicare ugualmente su tutti1Il che però porta in sé la radice dell’ingiustizia, che è “unicuique suum tribuere”, non “omnibus idem impartire”.): la questione però muta quando si considera che l’oggi è il momento in cui bisogna portare la buona notizia – la quale è sempre il Mistero, cioè il fatto che Dio prende l’iniziativa di venire a cercarci così come siamo, per puro e gratuito amore –, non necessariamente quello in cui si devono svelare tutte le esigenze comportate dal corrispondere alla redenzione. Soprattutto perché a nessun livello l’opera della salvezza può prescindere dalla libertà umana, e specialmente perché il primo soggetto della missione della Chiesa è Dio, che agisce ordinariamente mediante i suoi ministri ma anche (sempre) immediatamente nelle coscienze dei fedeli. Come diceva Giovanni Paolo II nel 1986:
Al culmine della missione messianica di Gesù, lo Spirito Santo diventa presente nel mistero pasquale in tutta la sua soggettività divina: come colui che deve ora continuare l’opera salvifica, radicata nel sacrificio della Croce. Senza dubbio quest’opera viene affidata da Gesù ad uomini: agli apostoli, alla Chiesa. Tuttavia, in questi uomini e per mezzo di essi, lo Spirito Santo rimane il trascendente soggetto protagonista della realizzazione di tale opera nello spirito dell’uomo e nella storia del mondo: l’invisibile e, al tempo stesso, onnipresente Paraclito! Lo Spirito che «soffia dove vuole».
Voglio dire che ho visto più volte, anche in questi ultimi anni, “coppie irregolari” (divorziati risposati con figli a carico, magari da entrambe le unioni) in cui entrambi i membri o uno solo dei due venivano sedotti dal Maestro Interiore, il quale incessantemente attraeva a conversione. Per le confidenze che ho ricevuto da alcune di queste persone ho potuto vedere che davvero ci sono stati sacerdoti pazienti e fiduciosi che hanno anzitutto accolto, poi accompagnato quelle persone. «E poi che cosa è successo?», mi si chiederà: «Glie l’ha data la comunione o no?». No, per quanto ho potuto sapere e vedere: i sacerdoti le stanno ancora accompagnando. «E dove?», domanderà forse qualcuno. Nel solo posto dove occorre essere guidati: nel Regno di Dio, che è in mezzo a noi e ci chiama “da sé” (Mc 4,28) a conversione. Difatti quelle persone attraversano momenti di forte e dolce crisi, individuale e di coppia, perché mano a mano è il Signore a imporre alla coscienza che rettamente lo cerca le esigenze della sua sequela2Ma d’altronde, per chi non è così? Quale cristiano adempie la legge tanto perfettamente da non essere ogni giorno educato dal Maestro interiore a una più perfetta carità, a una fede più retta, a una speranza più certa? Alle volte, a sentirci parlare, si ha l’impressione che una volta che si siano “sistemate certe cose” la strada fili liscia e senza intoppi, e che chi quelle cose le ha “sistemate” possa parlare da un altro piano con chi invece non le ha “sistemate”…. E ho visto alcune tra quelle persone che arrivavano a scegliere la continenza, come chiede la Familiaris Consortio, “da sé”, proprio come germoglia il seme nella terra nel racconto marciano della parabola del seminatore.
Immagino le obiezioni, riassumibili in due principali:
- E se non ci arrivano tutti?
- E se i preti danno loro la comunione senza tante storie per levarsi il pensiero e sentirsi “buoni” e “aperti”?
Rispondo così:
- Ma arrivare dove? A barrare tutte le caselle? Di che? Di quale schema preconcetto? Ciascuno arriva dove può arrivare, e solo Dio sa quanto ci è stato dato e quanti interessi maturi in noi, nella nostra vita, la sua grazia: che noialtri si pretenda di standardizzare i “requisiti minimi di salvezza” è insieme ridicolo e blasfemo. L’essenziale è che tutti camminino, che nessuno si adagi.
- Tali sacerdoti sono i cattivi pastori di cui Ezechiele e Agostino insieme in questi giorni duramente ci parlano:
-
Mi risuonano alla mente le parole dell’Apostolo che dice: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna» [2 Tm 4, 2]. Per chi “a tempo opportuno” e per chi “a tempo non opportuno”? Certamente a tempo opportuno, per chi vuole; a tempo inopportuno, per chi non vuole. Sono proprio importuno e oso dirtelo: Tu vuoi smarrirti, tu vuoi perderti, io invece non lo voglio.
Alla fin fine non lo vuole colui che mi incute timore. Qualora io lo volessi, ecco che cosa mi direbbe, ecco quale rimprovero mi rivolgerebbe: «Non avete riportato le disperse, non siete andati in cerca delle smarrite». Devo forse avere più timore di te che di lui? «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo» [2 Cor 5, 10].
Riporterò quindi la pecora dispersa, andrò in cerca di quella smarrita; che tu voglia o no, lo farò. Anche se nella mia ricerca sarò lacerato dai rovi della selva, mi caccerò nei luoghi più stretti, cercherò per tutte le siepi, percorrerò ogni luogo, finché mi sosteranno quelle forze che il timore di Dio mi infonde. Riporterò la pecora dispersa, andrò in cerca di quella smarrita. Se non vuoi il fastidio di dovermi sopportare, non sperderti, non smarrirti: è troppo poco se io mi contento di affliggermi nel vederti smarrita o sperduta.
Temo che, trascurando te, abbia ad uccidere anche chi è forte. Senti infatti che cosa viene dopo: «E le pecore grasse le avete ammazzate» [cf. Ez 34, 3]. Se trascurerò la pecora smarrita, la pecora che si perde, anche quella che è forte si sentirà trascinata ad andar vagando e a perdersi3Aug., s. 46, 14-15.. - È verità di fede rivelata che costoro dovranno rispondere di tutte le persone che avranno indotto in errore con le loro facilonerie piacione, anche nel (probabile) caso in cui le persone da loro mandate in rovina non fossero in stato di errore invincibile.
Ma soprattutto, chi mai si sognerebbe in effetti di fare il contrario? Immaginatevi di essere un sacerdote seduto in confessionale (è vero, per certi versi una rarità…) e di vedervi arrivare un uomo confuso e turbato che vi racconta di vivere questo dissidio. Chi mai risponderebbe: «Figliolo, per l’assoluzione e per la comunione ti posso aiutare, ma tu prima torna a casa a dividere i letti»? È tutto sbagliato: quell’uomo in quel frangente non ha bisogno né di assoluzione né di comunione, bensì di consolazione, di ammonimento e di incoraggiamento. Ha bisogno del padre e del maestro, non del giudice (poi sarà lui a chiedere del giudice): il prete che però rispondesse “ma certo, figliolo, adesso con Papa Francesco è cambiato tutto!” commetterebbe un errore pastorale (e dottrinale!) uguale e contrario a quello del prete che dicesse “finché non rompi il tuo oggettivo concubinato non ci muoviamo di un passo”. Perché è lo stesso? Perché entrambi tendono a conquistare lo spazio della vita del fedele invece di avviare il processo della sua conversione prestandosi a mediare un incontro di grazia che necessariamente richiederà il suo tempo4Cristo per primo, stabilendo i paradigmi della missione e dell’annuncio del Regno, diceva “vieni e seguimi” e “devo venire a pranzo da te”, non “smetti di frodare” e “restituisci il maltolto, strozzino”.. Entrambi hanno fretta di “archiviare il caso”, mentre non a caso Agostino indugiava sui faticosi dettagli del recupero della pecora smarrita. E più era smarrita, più tempo ci vorrà, sembrerebbe.
Note
↑1 | Il che però porta in sé la radice dell’ingiustizia, che è “unicuique suum tribuere”, non “omnibus idem impartire”. |
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↑2 | Ma d’altronde, per chi non è così? Quale cristiano adempie la legge tanto perfettamente da non essere ogni giorno educato dal Maestro interiore a una più perfetta carità, a una fede più retta, a una speranza più certa? Alle volte, a sentirci parlare, si ha l’impressione che una volta che si siano “sistemate certe cose” la strada fili liscia e senza intoppi, e che chi quelle cose le ha “sistemate” possa parlare da un altro piano con chi invece non le ha “sistemate”… |
↑3 | Aug., s. 46, 14-15. |
↑4 | Cristo per primo, stabilendo i paradigmi della missione e dell’annuncio del Regno, diceva “vieni e seguimi” e “devo venire a pranzo da te”, non “smetti di frodare” e “restituisci il maltolto, strozzino”. |
Anche qui non mi lascia incollare l’estratto di Ratzinger, credo a causa della lunghezza del testo! Riporto dunque la sintesi:
Da “Teologia della Liturgia”, Volume XI dell’Opera Omnia, pagg. 422-424
“La tesi secondo cui l’Eucaristia apostolica si ricollega alla quotidiana comunità conviviale di Gesù con i suoi discepoli […] viene in ampi circoli radicalizzata nel senso che […] si fa derivare l’Eucaristia più o meno esclusivamente dai pasti che Gesù consumava con i peccatori.
“In tali posizioni si fa coincidere l’Eucaristia secondo l’intenzione di Gesù con una dottrina della giustificazione rigidamente luterana, come dottrina della grazia concessa al peccatore. Se infine i pasti con i peccatori vengono ammessi come unico elemento sicuro della tradizione del Gesù storico, si ha per risultato una riduzione dell’intera cristologia e teologia su questo punto.
“Ma da ciò segue poi un’idea dell’Eucaristia che non ha più nulla in comune con la tradizione della Chiesa primitiva. Mentre Paolo definisce l’accostarsi all’Eucaristia in stato di peccato come un mangiare e bere “la propria condanna” (cf. 1 Cor 11, 29) e protegge l’Eucaristia dall’abuso mediante l’anatema (cf. 1 Cor 16, 22), appare qui addirittura come essenza dell’Eucaristia che essa venga offerta a tutti senza alcuna distinzione e condizione preliminare. Essa viene interpretata come il segno della grazia incondizionata di Dio, che come tale viene offerta immediatamente anche ai peccatori, anzi, anche ai non credenti, una posizione che, comunque, ha ormai ben poco in comune anche con la concezione che Lutero aveva dell’Eucaristia.
“Il contrasto con l’intera tradizione eucaristica neotestamentaria in cui cade la tesi radicalizzata ne confuta il punto di partenza: l’Eucaristia cristiana non è stata compresa partendo dai pasti che Gesù ebbe con i peccatori. […] Un indizio contro la derivazione dell’Eucaristia dai pasti con i peccatori è il suo carattere chiuso, che in questo segue il rituale pasquale: come la cena pasquale viene celebrata nella comunità domestica rigorosamente circoscritta, così esistevano anche per l’Eucaristia fin dall’inizio condizioni d’accesso ben stabilite; essa veniva celebrata fin dall’inizio, per così dire, nella comunità domestica di Gesù Cristo, e in questo modo ha costruito la ‘Chiesa'”.
Caro Marcotullio, capisco e apprezzo la sua indignazione di cattolico a vedere il Papa censurato come eretico. Ma mi sembra che nella sua lunga difesa di Francesco lei non centri il nocciolo del problema. Bergoglio è eretico? Non saprei dire, e qualunque cosa dicessi non sarebbe che una opinione. Nel “liberi tutti” teologico che è seguito al Vaticano II è difficile dire che cosa sia ortodosso e che cosa sia eretico. E lo stesso Bergoglio non si è trattenuto dal citare il caso di Antonio Rosmini, a dimostrazione di come la Chiesa cambi opinione, e chi prima era considerato eretico poi viene beatificato. Ma se non è chiaro che cosa sia ortodosso e che cosa eretico, allora la stessa figura del Papa perde senso: non parlando più a nome della giusta dottrina, come definita nel passato dai concili, allora la sua diventa una opinione tra le altre, alla quale altri possono opporre la loro. Questa era già la situazione della Chiesa prima di Bergoglio, basti pensare ai forti dissensi nei confronti di Benedetto XVI, Ma con lui è esplosa in pieno. Non c’è più “Roma locuta, causa soluta”. E qualunque esercizio del potere pontificio può passare per autoritaria imposizione di una opinione sulle altre. Nel frattempo, non possiamo far altro che esercitare la nostra ragione, che san Tommaso d’Aquino segnalava come l’elemento comune necessario in qualunque disputa, di cristiani tra loro e con gli ebrei o con chi non è né cristiano né ebreo. E pregare.
Non c’è mai stato “Roma locuta, causa finita”: Agostino lo diceva – come sempre lo dicevano nell’area di Cartagine (generalmente bizzosa e poco propensa a prendere ordini da Roma) – quando Roma gli dava ragione. Quando non gli dava ragione anche lui tempestava di lettere i Papi, fino a quando – diremmo per ridere – non li prendeva per sfinimento. E san Bernardo? E Bellarmino? Potremmo citare centinaia di casi analoghi. Il punto è che questo delicatissimo esercizio di verità si può fare solo nella più limpida carità (difatti quelli che ho citato sono santi, come anche Rosmini: Fellay no). E se di carità se ne intravede ancora molta nei Dubia (almeno fino alla loro pubblicazione) questo testo invece – imbastito male e compilato peggio – non lascia trasparire che malcelato livore.
Sono lieto che hai avuto modo, pur sofferto, di stendere due righe su questa dei 62. In merito di AL ne parlai su La Croce Quotidiano. Il vero problema rimane il discernimento delle situazioni. Dolentemente pochi sono i sacerdoti che sono in grado di poterlo compiere correttamente. Perché il discernimento necessita di sapienza, di grazia di stato “slegata” e non rattrappita, di vita fraterna robusta e del “tempo superiore allo spazio”. Per tale motivo tale documento in alcune sue parti a me appare profetico oltre che palindromo, come correttamente dici, ma sicuramente non è un documento semaforo. E, nel contempo, sicuramente non è documento slegabile da Humanæ Vitæ e da Familiaris Consortio. Qui la riflessione di diverso tempo addietro. https://www.ilcattolico.it/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/alcune-note-difficili-intorno-all-esortazione-amoris-laetitia.html
Grazie Giovanni Marcotullio.
Condivido ciò che hai scritto con lo spirito e con la mente e con il cuore parola per parola (a parte quelle troppo “alte” per la mia scarsa cultura teologica, che però condivido lo stesso … sulla fiducia!).
Devo confessare che, ogni volta che leggo qualche commento (critico) su Amoris Laetitia, mi viene in mente una regola sull’interpretazione teologica, che mi ha colpita moltissimo, enunciata da te (citando… non mi ricordo chi…), in una bellissima trasmissione su Sant’Ireneo, a Radio Maria.
È una affermazione che ho sentito profondamente vera e mia.
Ovviamente vado a memoria (il che non è una garanzia) cercando di riportarla nel modo più letterale possibile, e mi perdonerai se sbaglierò, ma più o meno il senso suonava così: “Nulla può essere letto e interpretato, se non in totale unione con tutte le Scritture, tutto il Magistero, tutta la Dottrina, tutto il Catechismo”.
Io l’ho sentita subito mia, perché da avvocato, conosco molto bene la pratica della “citazione estrapolativa” che pretende, da una frasetta, di indicare il senso ultimo di una sentenza (nel mio caso), di un Vangelo, di un Catechismo o di un’Esortazione (in teologia)…
E il senso che ne ho tratto, da esegeta giuridica (che segue la regola di nomofilachia per cui, se una norma può essere interpretata in modo costituzionalmente legittimo, ma anche in modo costituzionalmente illegittimo, la prima interpretazione è quella giusta da preferirsi e la seconda deve essere scartata e rigettata), è che ogni parola in materia di Fede deve essere sempre interpretata in unione con la Scrittura, il Magistero, la Dottrina e il Catechismo, alla luce del senso dottrinariamente corretto che se ne può trarre.
Mentre invece, se una interpretazione può olezzare di eresia, allora deve escludersi che possa essere quella voluta da chi ha pronunciato o scritto quella parola.
Seguendo tale metodo, l’errore non è di chi ha scritto l’Amoris Laetitia, ma di chi la legge e la interpreta in maniera scorretta, attribuendole senso, fini, e odori che non le sono propri, perché contrastanti con tutto quello che la precede e la segue.
Ed ecco che ritrovo tutto ciò nella tua chiosa:
“Io penso, in conclusione, che sia compito di tutti i teologi e degli studiosi, laici o chierici, l’approfondire il dettato dell’esortazione apostolica ricevendola anzitutto con il «devoto ossequio dell’intelletto e della volontà» (cosa che non sembra venga fatta sempre, da costoro…); dandone poi una lettura che sia veramente conforme ai contenuti del Magistero precedente e che quello stesso Magistero illumini e approfondisca nelle sue ragioni e nei suoi fini. Se le conferenze episcopali sbagliano, altri Vescovi hanno il diritto e il dovere sacrosanto di entrare in dialettica con loro, e se serve anche in polemica. Perfino noi laici abbiamo, in misura diversa e proporzionata, questo sacrosanto diritto/dovere. La prima sede, invece, non può essere giudicata da nessuno.”
Il Papa deve essere chiaro quando parla “da Papa” , o peggio, quando scrive. Non sono quindi d’accordo che sia corretto, per un Papa, rimanere nel vago: “il vostro parlare sia sì sì, no no. Il di più viene dal maligno”. Preghiamo perché il Signore illumini questa Chiesa e la guidi fuori della tempesta perfetta che si sta scatenando contro di lei. Sono tempi difficili per la Cristianità ma, soprattutto, per la fede di ciascuno di noi. Che Santa Maria Ausiliatrice ci sia vicina e ci conduca a Cristo. Maria Regina degli Apostoli, prega per noi.