di Claudia Cassano
C’è un proverbio africano che dice: «Se vuoi educare un uomo, educa un bambino. Se vuoi educare un villaggio, educa una donna». Vivere qui nella missione significa anche condividere spazi e tempi con le bambine e le ragazze della casa famiglia. Sono 17, dai 9 ai 21 anni, ma per la malnutrizione in cui sono vissute finora sembrano più piccole, come del resto tutti i bambini qui. Alcune di loro sono orfane di entrambi i genitori, altre solo di uno, ma l’altro non è in grado di prendersi cura di loro per ragioni di salute. Altre hanno una famiglia, ma vivono in villaggi molto lontani, qualcuna anche a più di due ore di distanza a piedi dalla scuola e per questo le suore le ospitano in casa, offrendo loro la possibilità di avere una vita dignitosa e di studiare. Ma allo stesso tempo qui possono mantenere le loro tradizioni e abitudini, continuano per esempio a cucinare i loro piatti tipici, come il funje, che assomiglia vagamente a una nostra polenta, fatto di farina di mais e maioca e per tritare le verdure le pestano con un lungo bastone di legno dentro un vaso dello stesso materiale. Non è stato difficile conquistarci a vicenda, tra donne ci si intende e quando ci si mettono di mezzo romanticismo, ricerca della bellezza e vanità, il gioco è fatto. Quando posso, con loro faccio i compiti, guardo i cartoni animati e quelle terribili telenovelas brasiliane dove tutti piangono sempre, mi dedico a un po’ di sano spetteguless e da quando hanno scoperto come funziona il mio cellulare mi chiedono in continuazione di fotografarle mentre si mettono in posizioni da fotomodelle per poi riguardarsi mille volte. Ogni fine settimana si riuniscono tutte nel jango, il patio in bamboo che sta nel giardino della casa e qui inizia un pazientissimo lavoro che dura ore e ore per domare i loro capelli ricci e crespi e pettinarli con acconciature fatte di tante treccine legate da nastrini colorati. Il tutto per essere pronte per la grande messa della domenica. Ovviamente non ho resistito e me le sono fatte fare anch’io e stamattina sono andata a messa pettinata come loro e con un panno tutto colorato come gonna.
Le sento spesso cantare, ridere, litigare tra loro, le vedo abbracciarsi e aiutarsi a vicenda, rincorrersi, giocare come tutte le bambine. Quelle fino a 13 anni sono le più vivaci, bambine appunto. Eppure potrebbero ritrovarsi con una gravidanza da un giorno all’altro, perché questa è la tradizione, soprattutto nelle zone rurali – questo e unicamente questo il ruolo di una donna: fare figli ed educarli, e quelle tra loro che si ritrovano ad essere mamme-bambine devono naturalmente rinunciare a studiare per occuparsi dei figli e quindi ritornano nei villaggi. Una volta lì, molte si riadattano alla vita rurale, vanno a prendere l’acqua al fiume, cucinano, fanno altri figli, la loro opinione non è tenuta in considerazione, non hanno alcuna influenza sulle decisioni della famiglia e della comunità e devono accettare che il marito possa avere più mogli – sì, anche se sono cristiane. Alcune magari ritornano con un livello di istruzione maggiore e questo da una generazione all’altra può trasmettere il valore dell’educazione e della cultura, ma è un processo molto lento che si scontra con le aspettative della comunità. Qualcuna invece resta affascinata da quello che conosce e decide, quando ne ha la possibilità, di continuare a studiare, rimandare di qualche anno la maternità, sognando di poter contribuire a fare qualcosa di più grande per la sua gente e per il suo paese, come diventare insegnante.
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