L’aborto ha un problema: nonostante si continui pervicacemente a mettere la sabbia sotto il tappeto, c’è un caso (che si presenta ahimé in percentuali non trascurabili) in cui la teoria del presunto diritto alla soppressione di un essere vivente non ancora ritenuto pienamente umano si scontra con la dura realtà della vita che lotta per affermare se stessa, alla faccia di tutte le nostre imbellettate teorie.
Esiste un relazione dal titolo “Aborto tardivo e infanticidio neonatale in Europa”, compilata dal centro europeo per la legge e la giustizia (ECLJ) in cui viene proposta all’attenzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE) una petizione affinché vengano affrontate e risolte questioni gravissime che riguardano i bambini nati vivi a seguito di aborti. La relazione mette il dito nella piaga di alcune cocenti contraddizioni: quando un bambino è nato prematuramente, si fa di tutto per salvarlo. Se questo non è possibile, comunque gli si forniscono cure confortevoli e il suo processo vitale è sostenuto fino alla morte inevitabile. Le cure palliative neonatali sono diffuse ed efficacemente utilizzate in moltissimi ospedali.
Se il bambino in questione, però, è nato vivo a seguito di un aborto “malriuscito” (dal punto di vista dell’intento infanticida, ovviamente), tutto questo meccanismo rodato di sostegno e cura non parte.
Nel 2005, il British Journal of Obstetrics and Gynecology ha pubblicato le conclusioni del dottor Shantala Vadeyar, ricercatore presso l’ospedale St. Mary (Manchester), che afferma che bambini a 18 settimane sono sopravvissuti, per un certo tempo, all’esterno dell’utero dopo un aborto. Il dottor Vadeyar ha rivelato che nel Nord Ovest tra il 1996 e il 2001 almeno 31 bambini sopravvissero a tentativi di aborto. Nel 2007, uno studio pubblicato sul British Journal di ostetricia e ginecologia hanno concluso che circa un aborto su 30 oltre le 16 settimane di gravidanza porta alla nascita un bambino vivente. A 23 settimane il livello dei bambini nati è arrivato al 9,7%. Secondo le osteriche svedesi, la cifra potrebbe arrivare anche al 25%.
I dati dagli ospedali in Inghilterra e Galles nel 2005 rivelano che: 66 su 2235 decessi neonatali notificati in Inghilterra e Galles sono stati a seguito di cessazione legale della gravidanza, ovvero nati che hanno mostrato segni di vita e morti durante il periodo neonatale. 16 sono nati a 22 settimane di gestazione o più tardi e la morte si è verificata tra 1 e 270 minuti dopo la nascita (media: 66 minuti). I restanti 50 feti sono nati prima delle 22 settimane di gestazione e la morte si è verificata tra 0 e 615 minuti dopo la nascita (media: 55 minuti). In altre parole, uno di questi bambini è morto senza assistenza dopo 10 ore.
Il direttore del CEMACH Richard Congdon ha affermato che l’iniezione letale non era stata somministrata nei 16 casi in cui si è verificato l’aborto dopo 22 settimane di gravidanza perché la morte era “inevitabile”.
A volte la pietà o il disgusto induce qualcuno a terminare l’agonia con un’iniezione o addirittura col soffocamento. Il destino di questi piccoli corpi è il bidone dei rifiuti organici.
Lasciare i bambini a morire senza alcun trattamento, o attivamente ucciderli, semplicemente perché non sono desiderati è inumano e contrario ai diritti fondamentali. Secondo il diritto europeo, tutti gli esseri umani nati vivi hanno il medesimo diritto alla vita, all’integrità fisica e al trattamento e alla cura necessari, indipendentemente dalle circostanze della loro nascita.
La petizione però è caduta nel vuoto e, per paura di smuovere la contraddizione insita nella concezione di aborto quale diritto della donna, si evita di affrontare la questione anche solo dal punto di vista meramente tecnico, producendo delle procedure mediche chiare e condivise che tengano conto del fatto che questi bambini soffrono e che non si lascia morire così nemmeno una bestia.
Affermiamo che gli animali devono essere trattati come gli uomini, che hanno diritto a non soffrire, a non essere usati come cavie, a non essere maltrattati, e poi i cuccioli d’uomo restano abbandonati in stanze fredde a crepare nell’agonia. Nemmeno la pietà di un’anestesia è loro concessa.
Anche quando l’aborto riesce, il problema del dolore del feto resta intatto: il metodo più usato per eseguire aborti tardivi è chiamato “dilatazione-evacuazione”, dove la cervice è dilatata per rimuovere il bambino con pinze chirurgiche, procedura molto dolorosa. Il bambino viene spesso estratto in pezzi. Come prassi, l’analgesia o l’uccisione del feto non vengono praticati prima della procedura di estrazione. Medici inseriscono forcipi che afferrano arti e tirano. Se si strappa qualcosa, amen. Non si sentono con le orecchie le grida, chiuse dentro ventri che dovrebbero essere culle e sono bare, ma col cuore le sentiamo bene.
Nel rapporto presentato ci sono le testimonianze dirette di ostetriche, che raccontano allucinate esperienze che non dimenticheranno.
La signora Siv Bertilsson racconta:
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