Erano due anni che non traslocavo. Quasi mi mancava.
No, non sto scherzando, dico sul serio: del resto, se avete creduto alla mia amica Costanza quando scrive che davvero le piace la Coca Cola Light (purtroppo posso confermare: è drammaticamente vero!), allora che cosa non si potrà credere?
A me i traslochi piacciono, in genere, perché tengono spiritualmente attivi: sono una sfacchinata, certo, e per un numero imprecisabile di mesi si va avanti a mangiare gli yogurt col cucchiaio perché «i cucchiaini vediamo di ricordarceli la prossima volta che andiamo»1Ah, i miei traslochi non sono mai stati quelle cose all’americana in cui ti vesti color sabbia, chiami la ditta, ti fermi a prendere un aperitivo lungo la strada e quando arrivi il trasloco è fatto: no, i miei hanno più a che fare con le transumanze, con le migrazioni…; però sei costretto a riaprire quelle scatole che non volevi né buttare né vuotare né guardare, a risfogliare quaderni ed agende, a vedere se davvero il numero del 140esimo anniversario del Corsera è così importante, per la tua vita, come la mattina in cui hai sfidato gli agenti atmosferici per procurartelo (cavolo, non sono un fan di Via Solferino, però la storia è la storia!); sei pure costretto a toccare con mano che la roba che hai è sempre tanto più di quanto pensavi… e forse quelle cose che hai un po’ hanno te.
Ma poi arriva l’imprevisto – che è un’altra cosa bella perché di solito non dipende da te, né direttamente dai tuoi cari – e la vita cambia. Talvolta in poche settimane, a volte anche in pochi giorni o perfino in ore – come è stato stavolta per me: e per la prima volta mi godo la novità di traslocare per una necessità non strettamente mia. Reminiscenza del mondo visto da una culla… in questo guardo mia figlia che cresce e mi pare di farle compagnia nell’essere portato in giro, come san Giuseppe, mentre a sua immagine porto in giro la prole e sua madre.
E dove si va?
Mi sovviene il mio Abercio, il cui nome anni fa mi parve esotico, quando visitando il Museo Pio Cristiano m’imbattei per la prima volta in ciò che resta di lui. Il suo cippo (questo resta) mi era parsa una bizzarria da ricchi non ancora avvezzi all’essenzialità del cristianesimo. In realtà Abercio, che quanto al cristianesimo era perfino vescovo, produsse nel proprio monumento funebre – così pratico, concreto e accurato fin nella diffida finale – qualcosa di enormemente più utile, stabile e necessario di tutto il mio nobile ciarpame. Ho capito che Abercio era importante, e che aveva ragione, perché silenziosamente le sue parole attraversavano diciannove secoli di nebbia e s’imponevano al mio spirito prima ancora che in esso si formulassero le domande: «Ma come starò a Nettuno?», «Chi troverò, in quella città che mai ho visitato?», «E poi non mi piace neanche il pesce…».
Così parlava l’antico vescovo di Ierapoli2L’attuale Pamukkale – sì, il bellissimo sito turistico delle piscine naturali che hanno meritato il nome turco di “castello di cotone”!:
Cittadino di una eletta città, mi sono fatto questo monumento da vivo per avere qui una degna sepoltura per il mio corpo, io di nome Abercio, discepolo del casto pastore che pasce greggi di pecore per monti e per piani; egli ha grandi occhi che guardano dall’alto dovunque. Egli mi insegnò le scritture degne di fede; egli mi mandò a Roma a contemplare la reggia e vedere una regina dalle vesti e dalle calzature d’oro; io vidi colà un popolo che porta un fulgido sigillo. Visitai anche la pianura della Siria e tutte le sue città e, oltre l’Eufrate, Nisibi e dovunque trovai confratelli…, avendo Paolo con me, e la fede mi guidò dovunque e mi dette per cibo il pesce di fonte grandissimo, puro, che la casta vergine suole prendere e porgere a mangiare ogni giorno ai suoi fedeli amici, avendo un eccellente vino che suole donare col pane. Io Abercio ho fatto scrivere queste cose qui, in mia presenza, avendo settantadue anni. Chiunque comprende quel che dico e pensa come me, preghi per Abercio. Che nessuno ponga un altro nel mio sepolcro, altrimenti pagherà 2000 monete d’oro all’erario dei Romani e 1000 alla mia diletta patria.
La multa era salatissima, e colpisce come uno che il “Casto Pastore” ha portato a vedere tutto il mondo, nonché la grande Chiesa di Roma, cominci e finisca il proprio epitaffio col pensiero rivolto ai luoghi natali. Forse però dopo mille trasferimenti, quando ormai si pensa veramente al grande Trasferimento, di cui tutti gli altri sono pallide immagini, riaffiorano davvero allo spirito i primi sensi, le prime luci, le prime voci. E quella prima città, ove si sia ricevuta la patente di apolidi, viene chiamata patria, benché ci si proietti sempre più verso la grande Patria.
Neanche ero arrivato, poi, e già mi era venuta incontro una sorella veramente grande, la cui luce confonde il nostro secolo svergognato: ero diventato concittadino e vicino di casa di santa Maria Goretti…
Entravo nel suo santuario nei giorni in cui la bufera funestava la costa, e le onde mugghianti che dovevano infrangersi vicino alla chiesa, pur senza poterla toccare neanche d’uno schizzo, mi parevano immagine della sua vicenda, ma pure immagine di questo tempo incapace di abitare la bellezza. Così per quel posto santo mi si infondeva in cuore una calma fiduciosa che mi riportava ai sensi di Abercio e mi faceva capace di letture nuove dei nostri giorni.
E poi stamattina ho conosciuto un barbiere fantastico che dal profilo pareva un senatore romano uscito da un albo di Asterix. Quando in bottega è poi entrato un habitué che lo ha salutato chiamandolo per nome – «Tigellino!» – ne ho avuto la certezza: sono a casa.
Note
↑1 | Ah, i miei traslochi non sono mai stati quelle cose all’americana in cui ti vesti color sabbia, chiami la ditta, ti fermi a prendere un aperitivo lungo la strada e quando arrivi il trasloco è fatto: no, i miei hanno più a che fare con le transumanze, con le migrazioni… |
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↑2 | L’attuale Pamukkale – sì, il bellissimo sito turistico delle piscine naturali che hanno meritato il nome turco di “castello di cotone”! |
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