Ho trovato illuminante questa lettera di Charles de Foucauld, che visionai dapprima dovendone tradurre una parte per Aleteia. Proprio per condividere questo documento, interessante dal punto di vista storico, politico, ecclesiale e sociale, e non avendo riscontrato che altri l’avessero già fatto, ne pubblico una traduzione integrale con testo a fronte.
Ci sarà di che riflettere, e molto, guardando in retrospettiva ai 101 anni che ci separano dalla stesura del testo epistolare: vi si parla della Grande Guerra, da poco iniziata, dell’evangelizzazione e dell’integrazione, dei flussi migratorî che dall’Africa portavano in Europa e di quelli che dall’Europa portavano in America. Quest’uomo sperduto in mezzo ai tuareg ci manda un grande affresco epocale. Dal sapore profetico.
Il lettore contemporaneo potrà restare perfino scioccato da certe espressioni: non solo si parla di missione senza il minimo problema ad ammettere che il fine proprio dell’attività missionaria sia offrire ai popoli pagani l’occasione di conoscere il cristianesimo e di aderirvi; ma si parla pure di politica, e con toni che non nascondono affatto la stima che l’imperialismo francese fosse qualcosa di buono, un’opera da finalizzare anche al Regno di Dio.
Questo stupirà certo soltanto chi pensi di conoscere Charles de Foucauld, beatificato da Benedetto XVI nel novembre 2015, per la sola preghiera “Padre mio, mi abbandono a Te”: il giovane Charles si era trasferito in Algeria in qualità di soldato, e nell’esercito aveva saputo incanalare le proprie doti nella disciplina richiesta. Lì aveva acquistato la capacità di fare analisi politiche e militari con il necessario cinismo richiesto dalla materia stessa, oltre che una destrezza tattica e amministrativa che, sebbene non siano rare tra i santi, spesso lo sono nella considerazione dei cattolici.
Così come la grave crisi migratoria dei nostri giorni – il tema che più nettamente viene allo spirito leggendo la lettera del beato – mette in difficoltà la stessa comunità dei credenti, nel suo insieme, perché scopre a nudo la refrattarietà di buona parte del popolo italiano (ed europeo?) a fare analisi con categorie articolate. A imitazione dei computer,
si direbbe, le nostre società sono diventate invece più binarie del più sfrenato manicheismo, dunque il complesso tema dello ius soli è diventato mero terreno di scontro tra forze politiche uguali e contrarie, tutte incapaci di indirizzare la cosa pubblica al bene comune integrale – perché prive di una propria visione dell’uomo. Sette anni fa, il 27 settembre 2010, Benedetto XVI produsse da par suo un sintetico testo per la 97ma giornata mondiale del migrante e del rifugiato. In un paragrafo, in particolare, riassumeva mirabilmente tutta la dottrina sociale della Chiesa dal Vaticano II in poi in ordine ai tre diritti in gioco quando si parla di migrazioni: quello degli uomini a non emigrare; quello dei migranti a emigrare; quello degli Stati a regolare i flussi migratorî.
Il Venerabile Giovanni Paolo II, in occasione di questa stessa Giornata celebrata nel 2001, sottolineò che “[il bene comune universale] abbraccia l’intera famiglia dei popoli, al di sopra di ogni egoismo nazionalista. È in questo contesto che va considerato il diritto ad emigrare. La Chiesa lo riconosce ad ogni uomo, nel duplice aspetto di possibilità di uscire dal proprio Paese e possibilità di entrare in un altro alla ricerca di migliori condizioni di vita” (Messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni 2001, 3; cfr Giovanni XXIII, Enc. Mater et Magistra, 30; Paolo VI, Enc. Octogesima adveniens, 17). Al tempo stesso, gli Stati hanno il diritto di regolare i flussi migratori e di difendere le proprie frontiere, sempre assicurando il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. Gli immigrati, inoltre, hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l’identità nazionale. “Si tratterà allora di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2001, 13).
Charles de Foucauld avrà forse minimizzato all’eccesso la portata della Grande Guerra e sarà forse stato sommario nelle valutazioni “razziali”, che vanno a loro volta lette fondamentalmente come corollario delle dottrine imperialiste; la profezia sulla fine del dominio coloniale e la descrizione dei meccanismi che sarebbero conseguiti al disgregamento di quell’agglomerato, però, hanno una sapida chiaroveggenza storica, al limite della profezia. Non dovremmo permetterci il lusso di minimizzarle.
La fede non è e non può essere instrumentum regni, il beato ne conviene; allo stesso modo, però, lo stesso beato invita al disincanto sulle intenzioni dei musulmani: è una fede nata strutturalmente asservita a una visione politica, che è il proselitismo globale realizzato a mezzo dell’espansione militare. Lo spiegavo meglio, tempo fa, su Aleteia:
Una tale secca diversificazione si spiega per noi moderni con altri ordini di considerazione: per esempio, il giudaismo e il cristianesimo hanno entrambi in comune il propagarsi a mezzo di una tradizione protratta nel tempo e caratterizzata dalla pazienza – e l’istinto soprannaturale della fede ci porta a riconoscere in questa mirabile concordia i segni dell’ispirazione divina; l’evento fondante dell’Islam, invece, si snoda nell’arco di una sola generazione ed è caratterizzato da una poderosa espansione militare (dunque “violenza” in luogo di “pazienza”) – ed è questa stessa folgorante ascensione che vale storicamente per l’Islam da prova teologica della propria verità. Questo fa sì che mentre si può sensatamente raggruppare l’islamismo con il giudaismo e col cristianesimo nell’insieme delle “religioni abramitiche” (ed è questa una connotazione storico-culturale), nessuno riconosce sensata sul livello teologico l’espressione “rivelazione giudeo-cristiano-islamica” – giacché quella islamica non può essere definita “rivelazione” se non in senso analogico (e molto debole!), da giudei e cristiani – e a nessun titolo può assimilarsi all’unica rivelazione giudaico-cristiana.
E sono stato felice di vedere che anche Papa Francesco è sembrato convenirne: si può dire che i musulmani, per qualche ragione, non riconoscono il principio di reciprocità, e che c’è da augurare loro di attraversare una crisi come quella che il cristianesimo ha attraversato nella modernità e nel secolo dei lumi. Non che fosse una mia idea, anzi io modestamente l’avevo imparata da Benedetto XVI; è stato però bello sentirlo ripetere da Papa Francesco:
Non accettano il principio di reciprocità. Alcuni Paesi del Golfo però sono aperti, ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno operai filippini, cattolici, degli Indiani… Il problema, in Arabia Saudita, è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo procede bene, perché – non so se lo sa – ma l’imam di Al-Azhar è venuto a trovarci. E ci sarà un incontro laggiù, e ci andrò. Penso che farà loro bene, studiare criticamente il Corano, come noi abbiamo fatto con le Scritture. Il metodo storico-critico li farà evolvere.
In ultimo, lo sguardo profetico di quest’uomo solo nel cuore dell’Africa, che 101 anni fa vaticinava limpidamente sulle primavere arabe, mi ha ricordato due cose:
- che davvero non sbagliava Manzoni a inserire l’altare tra gli identificativi di una civiltà, ancorché laica e non teocratica;
- che solo la Chiesa cattolica ha – perché l’ha sempre avuta e con la grazia di Dio la conserverà per sempre – la visione necessaria per osservare tutti e tre, e insieme, i diritti di cui sopra (e i relativi doveri).
Di’ cosa ne pensi