La fine di N

La fine di Agosto, complice la lettura de I Miserabili di Hugo, mi ha condotto a meditare su un’altra fine. Il declinare del mese – la cui chiusura annuncia inevitabilmente il termine del periodo vacanziero per eccellenza – si accorda ad un altro declino, quello di Napoleone. Una fine è per tanti versi simile alle altre: poco importa che si tratti degli ultimi frangenti del mese più caldo o degli avvenimenti conclusivi riguardanti l’uomo che si impresse sulla Francia e, in parte, sull’Europa per diversi anni. Ogni fine, a viste umane, è ricoperta da una patina di saudade grigio-polvere ed è come una melodia che, iniziata con le briose note di un minuetto, proseguita con l’ariosità di una magnifica sinfonia, si spegne in un malinconico requiem. Si tratta sempre di fine, dopo tutto. Con la differenza che Agosto tornerà il prossimo anno.

La Mort de Napoleon, 1821, at St. Helena.
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To left of bed is standing Francesco Antommarchi (1789-1838) surgeon and anatomist, born in Corsica, studied medicine at Pisa, surgery under Mascagni. To right kneeling is Archibald Arnott (1771-1855), Surgeon to 20th Foot regiment. Both attended Napoleon in last years and post-mortem.
Aquatint
circa 1830 By: J.P.M. Jazetafter: Baron C. von SteubenPublished: –
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Victor Hugo dedica al Grande Corso alcune delle più belle pagine del suo capolavoro. Sebbene in parte viziate dal sentimento della grandeur francese, c’è in esse un tentativo di analisi della parabola bonapartista che trascende i ristretti confini delle valutazioni meramente storiche. L’avventura napoleonica e la sua conclusione dolente meritavano una lettura che chiamasse in causa il Cielo e Hugo non si è tirato indietro. Nel passaggio tra la gloria e l’esilio dell’uomo che più di tutti fino ad allora l’Europa aveva temuto, lo scrittore francese riesce ad individuare i contorni dell’effimero sogno di potere cullato da Napoleone e, in definitiva, da altri come lui, prima e dopo di lui. Quando il tempo della grandezza napoleonica è già archiviato, Hugo nota:

Intanto al Louvre si raschiavano le N

In questa rapida scrostatura delle tracce dello Stratega invincibile (infine vinto) è svelato l’affannarsi ingrato del mondo nel liberarsi impudicamente degli stessi idoli che ha esaltato fino al giorno prima. Il tempo della manzoniana terra «percossa, attonita» è più breve del previsto. Ma, più profondamente, vi è adombrato il senso recondito della fragilità di quella hybris (ὕβϱις, tracotanza) che i greci stigmatizzavano. Per quanto protervamente consideriamo noi stessi, prima o poi saremmo solo delle iniziali che altri raschieranno via.

Il Qoelet, accortamente, fotografa l’avventura umana, anche la più maestosa, senza fare sconti. Se immaginiamo le parole di questo libro sapienziale sulle labbra di Napoleone, la sua storia ci appare quella di uomo che tutto ha conquistato e tutto ha perso, tutto ha vinto e tutto ha scoperto fugace:

Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole. (Qt 2, 10-11)

L’attualità ci presenta altri nomi, altri progetti politici, altri “sogni imperiali”. La storia insegna poco o nulla a chi – sedotto dall’indiscusso fascino del potere – finisce per dimenticare di essere fallibile come gli altri che l’hanno preceduto. Che tu sia un dittatore o un presidente, un re o un primo ministro, che ti chiami Maduro o Kim Jong-un, Macron o Putin, Trump o Merkel, il tuo tempo è limitato, il tuo potere anche di più. Ma di Napoleone, infine, cosa è rimasto? «L’uomo grande non è più», scrive Byron. E chissà come gioverebbe ad ogni leader politico meditare spesso sulla fine di quell’uomo di cui molti – va detto – non posseggono nemmeno il genio.

Farei un torto al Bonaparte, però, se non ricordassi soprattutto che gli ultimi anni di gloria terrena perduta divennero occasione per meditare su un’altra Gloria, questa volta imperitura. Confinato a Sant’Elena in regime di ipocrisia punitiva (formalmente libero e trattato con riguardo, di fatto controllato e, per certi versi, vessato), Napoleone è riuscito ad andare oltre la costatazione del proprio fallimento e, più in generale, delle aspirazioni umane. Nei giorni di Sant’Elena egli ha (ri)meditato la fede cattolica. Nel bel libro edito alcuni anni fa dalle Edizioni Studio Domenicano, Conversazioni sul Cristianesimo. Ragionare nella fede, ci viene incontro un uomo riflessivo che, conversando con i suoi ultimi compagni, ricorda e al tempo stesso ravviva il suo rapporto con Gesù Cristo, con la Chiesa Cattolica, con la religione che professa. Un uomo intimamente e straordinariamente convinto, come disse, che

il cattolicesimo non è la religione del tale o del talaltro, ma la verità del dogma che risale ai concili, ai papi, fino a Gesù Cristo stesso; ha le caratteristiche di un fatto storico e di uno divino; si pone al di sopra delle passioni e dei vizi; è un sole che illumina misteriosamente e maestosamente la nostra anima; è infinitamente superiore al nostro spirito, e al contempo appropriato alle persone semplici; la sua virtù agisce nell’intimo de cuori, come la linfa all’interno degli alberi.

E se è vero che nel cattolicesimo sembra vedere uno strumento di ordine sociale, è anche onesto riconoscere che le sue meditazioni vanno oltre una considerazione puramente funzionale di esso.

L’uomo che nell’agonia degli ultimi giorni ricordava un altro grande sconfitto, Annibale, e che la pioggia ha tradito a Waterloo, ha vinto dunque la sua battaglia cruciale. Di quella grandezza che i libri di storia gli attribuiscono ha offerto la testimonianza più imponente. Ed è accaduto non quando giganteggiava nelle strategie delle campagne militari, ma quando ha saputo riconoscersi nient’altro che un “niente” di fronte al vero Dominatore della storia.

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