In questo assolato agosto, sarà forse per il caldo, la campana del mio paese ha suonato tante volte per annunciare la morte di anziani e mi sono trovata a partecipare ad un numero di funerali più alto della solita media, un po’ per conoscenza diretta del defunto o dei suoi parenti, un po’ per svolgere umilmente il servizio del canto.
Anche questa mattina l’assemblea ha accompagnato al cimitero una signora 85enne, e cercato di manifestare vicinanza alla sua ancor più anziana sorella, racchiusa in un bozzolo nero da capo a piedi e raggrumata attorno alla sua corona del rosario con un volto contrito e trasfigurato dalle lacrime, per questa dipartita non improvvisa ma comunque dolorosissima, per lei, che si è vista strappare la compagna coinquilina di una vita e che ora resta sola. Le due donne, domiciliate per lunghissimo tempo proprio di fianco alla chiesa, hanno speso l’esistenza intera al servizio della parrocchia, vivendo una riservata solitudine ricca di altruismo e devozione, prestandosi a fare ogni cosa di cui ci fosse bisogno. L’addetto delle pompe funebri ha raccolto la composizione floreale accanto alla bara, per portarla al cimitero, ma la sorella della defunta ha puntato il dito all’altare della Madonna, perché fosse deposta lì: fino all’ultimo gesto, pure dopo morta, al servizio della chiesa.
Due settimane fa era stata sepolta un’altra colonna portante della parrocchia col rosario, una signora che, dopo la morte del marito, era diventata la cuoca dei campi parrocchiali ed oltre, che sapeva organizzare con piglio militare il rancio di vaste ciurme, rancio comunque sempre di gran lusso ed elevatissimo gusto. Ogni ragazzo era un nipote (non me ne vogliano i nipoti veri, che hanno versato al funerale ben più di una lacrima per questa nonna di gran cuore).
Oggi alla fine della liturgia un’altra di queste signore del battaglione della fede mi ha domandato una canzone, da fare per il suo funerale: aveva il viso allegro, lieto, ultra sereno. Si è pure già fatta dare l’unzione degli infermi, che non fa mai male.
Ammetto che adoro i funerali degli anziani, e non certo per il gusto del macabro, ma, al contrario, perché davanti all’altare scarno per l’ultimo saluto non ci sono finzioni, vezzi, capricci che offuschino la fede; svaniscono le false speranze, le preghiere di comodo (Signore, fammi quello che voglio io), le ipocrisie della coscienza. Qui le lacrime sanno di buono, gli addii profumano di arrivederci e più si è vecchi, più si è consapevoli del fatto che ci si rivedrà presto. La vita assume il sapore un po’ decadente del mare a fine stagione, quando in tanti sono già partiti e tu ti appresti a fare le valige. Ti godi il panorama del mare spopolato, guardi le onde che mangiucchiano la spiaggia e il tuo saluto alla bella villeggiatura si anima già di buoni propositi per la ripresa delle attività del rientro. Ti prende una specie di fretta, di friccicorino, per partire anche tu e andare a fare cose nuove.
La nostalgia per il passato lascia il passo al desiderio di futuro, nella consapevolezza che esso avrà un aspetto meraviglioso, che darà compimento a tutto ciò che si è vissuto.
I vecchi non sono stanchi, anzi: sono intimamente entusiasti. Possono permettersi il lusso di mostrare il cuore a fior di pelle, di tenere ferme le giunture dolenti muovendo lo spirito. Certo non tutti i vecchi sono così, ma lo sono senz’altro le donne della brigata del rosario della mia parrocchia, quella manciata di beghine che fanno compagnia al prete nelle sparute liturgie feriali, che non si perdono mai una processione o un vespro in più. Sono sempre una ventina: le più vecchie dipartono, e da sotto se ne aggiungono delle nuove, poiché l’età regala il privilegio di riuscire a comprendere che grande grazia sia fare parte di un simile reggimento.
Quando ero una ragazzina e osservavo le vecchie delle prime panche, provavo una specie di pietà per loro, che ormai anziane non avevano altro da fare che presidiare liturgie e sgranare rosari. Svolgevo il mio servizio corale molto più volentieri per i matrimoni, dove proponevo sempre canti scoppiettanti felicità e ritmi travolgenti, mentre rifuggivo i funerali come roba estremamente noiosa. Poi la vita mi ha insegnato la dolcezza del dolore, il ristoro potente e succoso di una messa, la terapia fruttuosa dei salmi disciolti in canto, a tradurre emozioni più profonde della nostra consapevolezza. E ora amo i funerali, più dei matrimoni: ne traggo sempre un’enorme consolazione, una consolazione scarna, essenziale, vera, senza fronzoli, senza riso e confetti, senza auguri per il futuro radioso (ma sempre incerto), senza balze nelle gonne vaporose e tacchi su cui restare in bilico.
Un anticipo di questa consapevolezza della maturità l’avevo avuto anni e anni fa, al funerale di un sacerdote originario del paese ma abitante a Roma: il nostro parroco ci dispensò dal servizio del canto (e noi ragazzine sciocche esultammo oltremodo) perché direttamente da Roma sarebbero state presenti le suore del convento dove alloggiava il sacerdote negli ultimi anni della sua vita. Questo pugno di suore piccine rovesciò la chiesa con la voce: cantavano forte, in un unisono compatto e rodato, scandendo le parole con foga e passione. Sull’altare uno stuolo di preti parlava di Gerusalemme celeste con lo sguardo sognante, e il funerale parve la festa per la partenza di uno che ha vinto alla lotteria. Uscendo, una signora esclamò, in colorito dialetto romagnolo: «Ma ch bel funerel, ut fa vnì voja d’ murì», cioè: «Ma che bel funerale, ti fa venir voglia di morire».
Ed in effetti pure io, nello sfolgorare della mia adolescenza manesca, avevo avuto la stessa impressione.
La nostra società rifugge la morte, la schiva come bruttura orrenda oppure la abbraccia di botto come un mattone da cui farsi tirare giù, sul fondo di un lago, in fretta. Nessuno si sofferma a corteggiarla, sorella morte, a desiderarla come una sposa, ad attenderla come un regalo. I cimiteri sono deserti, spesso sono vandalizzati da sciocchi, che non sanno più cogliere la sacralità evocativa del luogo, nel tentativo estremo di esorcizzare la paura per una fine che resta in ogni caso inevitabile.
Anche la lentezza con cui a volte la malattia, a volte la demenza, sfilacciano i vecchi, pare un corteggiamento, un fidanzamento necessario a conoscersi e a piacersi prima di abbracciarsi. Quello scontro di bastoni, carrellini e stampelle, all’uscita dalla chiesa, nell’assembramento attorno alle acquasantiere, ha un’aria comica, allegra, come girelli di bambini scorazzanti. In effetti la differenza tra un vecchio ed un bambino in alcuni momenti si fa labile.
Il corpo si incurva e lo spirito si fa giovane, nell’attesa che volge al termine, nella smania di abbracciare l’aldilà e tutti quelli che contiene, di rivedere chi si è amato e molti altri.
E quando il sacerdote proclama:
Venite, santi di Dio, accorrete, angeli del Signore
pare quasi di sentire uno sbattere di ali, di veder gli spintoni di una folla invisibile che si accalca a fare festa.
E l’assemblea risponde
Accogliete la sua anima e presentatela al trono dell’Altissimo,
con voce forte e accorata, e una punta di invidia.
Di’ cosa ne pensi