Se penso ad Edith Stein, mi viene in mente inevitabilmente il suo legame con le radici ebraiche. Nella storia della santa morta ad Auschwitz è adombrato più di un motivo di riflessione a riguardo. Il suo sguardo vivo – che incrocia il nostro dalle fotografie d’epoca, ora spensierato, ora assorto – rivela un mondo interiore fecondo. Al tempo stesso, però, la Stein va oltre la sua stessa persona, per farsi figura del popolo da cui proviene. È lei stessa che ci spinge ad intraprendere percorsi di meditazione, gravidi di domande, che si intrecciano con la realtà della sua origine (era tedesca ma di famiglia ebrea).
Quelle domanda sul no di Israele
Cristo è venuto prima di tutto per Israele. I Vangeli lo scrivono a chiare lettere. Per il rifiuto ostinato di buona parte del popolo ebraico, la chiamata viene indirizzata ai pagani. Scriverà Paolo: «Per la loro caduta la salvezza è giunta ai Gentili» (Rm 11,11). La predilezione di Dio, per il singolo e per il popolo di Israele, è sempre in funzione della salvezza universale. Il no di Israele a Cristo, in questo disegno di salvezza di Dio, si configura come un’inquietudine già per i primi cristiani. La dialettica tra il sì e il no a Dio in Cristo si ripropone anche nella storia di Edith Stein. Per lei, che ha perso la fede di famiglia e del suo popolo quando era giovanissima, Cristo è il richiamo potente al quale si abbandona senza opporre difesa. Illuminata dalla luce che promana dal Logos incarnato, la donna scopre – al pari dei tanti intellettuali convertiti che l’hanno preceduta nel corso dei secoli – che la fede in Cristo non è irrazionale, non violenta la ragione, non è rifugio per menti che abdicano a pensare. Anche la sorella di Edith, Rosa, trova pace nella fede cattolica. La stessa chiamata, attraverso Edith, sembra indirizzata alla madre, con la quale la futura santa si confronta più volte. A differenza della figlia, la madre della Stein è una donna che ha mantenuto la fede ebraica. In Cristo vede solo un uomo: secondo lei ha osato varcare un limite invalicabile: «Non voglio dire nulla contro di Lui – dice alla figlia – Sarà anche stato un uomo buono. Ma perché s’è fatto Dio?». In queste parole si avverte l’eco dello sbigottimento e dell’indignazione che manifestano, nelle pagine evangeliche, il rifiuto di Gesù da parte di molti figli di Israele. La Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, nel documento Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili scrive:
la figura di Gesù è stata e rimane per gli ebrei una “pietra di scandalo”, il punto centrale e nevralgico del dialogo ebraico-cattolico.
Non possiamo però vedere un ostacolo nella identità o nella fede ebraica all’accettazione di Gesù. Molti pii israeliti riconobbero Gesù come Messia. Non soltanto quelli a lui contemporanei, come mostra anche la conversione del rabbino Zolli, pochi anni dopo la morte della Stein. Rimane allora l’enigimatico significato di quel rifiuto che continua ad interrogarci: perché questo indurimento? Perché la maggior parte di Israele ancora oggi non lo riconosce? Questi interrogativi, però, non devono trasmutarsi, a loro volta, in un rifiuto da parte nostra. Nostra Ætate ci ha ricordato:
Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno sotto uno stesso giogo » (Sof 3,9).
La croce di Gesù sulle spalle degli ebrei?
La stessa Edith Stein – per noi ora Santa Teresa Benedetta Della Croce – mette sulle tracce di un’altra domanda, che continua a legare Israele e Cristo. Nella passione che vive il suo popolo durante l’Olocausto, Edith intravede un forte legame con la Croce di Cristo. Proclamandola compatrona d’Europa nel 1999, insieme a Brigida di Svezia e a Santa Caterina da Siena, Giovanni Paolo II ci ricorda questa sua consapevolezza. Durante la persecuzione nazista, Edith Stein avvertì
che, nello sterminio sistematico degli ebrei – scrive il Papa polacco – la croce di Cristo veniva addossata al suo popolo e visse come personale partecipazione ad essa la sua deportazione ed esecuzione nel tristemente famoso campo di Auschwitz-Birkenau.
Sembra dunque esistere nel dolore – e in quel dolore kenotico, che è stato l’abisso toccato dalla sofferenza del popolo ebreo nell’ Olocausto – un filo rosso che unisce la Passione di Cristo alla passione degli ebrei. Anche qui ci troviamo nel campo di interrogativi che non possono essere risolti del tutto.
Nella sua visita al campo di Auschwitz, avvenuta nel maggio del 2006, Papa Benedetto XVI ha indicato una possibile risposta, abbracciando una linea di pensiero già nota:
I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra […] quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo.
Il passo verso Cristo è un attimo: Gesù Cristo stesso, il Rivelatore definitivo del Dio d’Abramo, è arrivato da quel popolo, si è formato all’interno della religiosità ebraica, ha consumato la sua parabola umana entro i confini della terra d’Israele. Pur trascendendolo, appartiene dunque al popolo ebraico. Sopprimendo il popolo eletto si vuol sopprimere Cristo. Edith Stein sente che non può rinnegare le sue radici, una volta abbracciata la fede cristiana. E fino all’ultimo soffre insieme e per il popolo da cui proviene.
Un’ebrea patrona d’Europa?
La terza riflessione lega l’Europa all’origine ebraica della Stein. San Giovanni Paolo II volle la santa come compatrona d’Europa perché fosse il vessillo di una Europa che si può scoprire fraterna solo nell’accettazione reciproca di ogni sua componente. Anche quella ebraica. Edith Stein conserva il richiamo alle radici del suo popolo pur nel suo essere profondamente e pienamente cittadina europea. Nella sua figura, l’Europa può riconoscersi aperta all’altro (a tutti gli altri) e, al tempo stesso, intimamente legata alle sue radici, che, non a caso, sono giudaico-cristiane (nonostante sia mancato il riferimento formale dal punto di vista politico). Di recente, i vescovi polacchi, ricordando il 75mo della morte della santa, hanno affidato l’Europa alla sua intercessione. Il motivo? Perché il continente europeo possa convertirsi e tornare alle sue radici. Un affidamento importante e niente affatto scontato, “figlio” dell’accorata lettura dei nostri tempi fatta da questi vescovi sapienti. Essi hanno visto l’abisso etico-valoriale in cui l’Europa sta sprofondando e la richiesta di intercessione della Stein è stata la risposta. In un modo significativo, la salvezza sembra ancora una volta non voler far a meno del popolo eletto. In un continuum che dall’Antica Alleanza arriva fino a noi.
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