Stavo ragionando con alcuni amici delle cose che nel pomeriggio di ieri ho scritto su Aleteia:
Così in breve tempo mi sono trovato a parlare con diverse persone di differenti estrazioni, età, sessi e culture, distribuite grossomodo su tutto il territorio nazionale. Mi capita quasi tutti i giorni, però oggi ci ho fatto caso da un altro punto di vista: notavo come anche grazie ai moderni mezzi di comunicazione e ai social network giungiamo a parlare di grandi testimoni, o comunque della gente che sta animando in questi nostri giorni la ribalta della Chiesa di Cristo… come di amici e di vicini di casa.
Avete presente la cosiddetta “teoria dei gradi di separazione”? Quella per cui ogni contatto comune tra due sconosciuti è un “grado di separazione”? Ecco, se ci penso un po’, credo di poter dire che con la maggior parte dei “personaggi di Chiesa” (scusate se vi chiamo con questa orrenda perifrasi, per il momento) – e intendo con ciò sia quelli noti perché in vista sia quelli ignoti ai più perché dediti a vita privata – io possa considerarmi collegato da tre gradi di separazione al massimo. I semiologi e i sociologi ne teorizzarono sei, ma era l’altro secolo, non c’era internet, non c’era Facebook: oggi probabilmente Zuckerberg potrebbe verificare tranquillamente, su un campione decisamente rappresentativo, la teoria di Frigyes Karinthy sistematizzata da Sola Pool e Manfred Kochen (ma da quando in qua i matematici vanno appresso alle fole degli scrittori?).
Resta l’incognita della qualità del legame: a parte che resta da dimostrare che l’aborigeno degli altipiani australiani sia connesso con il taglialegna delle Rocky Mountains tramite sei soli gradi di separazione, anche Facebook non potrebbe tener conto delle innumerevoli “amicizie” per le quali anche “virtuali” è un qualificativo troppo generoso. Che si fa? Si stabilisce che sotto un’interazione al mese non è vera amicizia e si riconteggiano i gradi di separazione?
Ma niente, è una fesseria da sociologi di bassa lega [disclaimer: la sociologia, come tutte le scienze degne di questo nome, è una cosa ottima e utilissima, se fatta seriamente], neppure l’uomo che ha rivoluzionato il mondo con un passatempo da nerd può renderla sensata. Quello che però mi sembrava meno irragionevole (anche dei miei presunti “tre gradi di separazione” – altri numeri buttati a casaccio) è quanto dicevo a uno degli amici con cui mi confrontavo:
Viviamo la grazia di poter chiamare “santi” i nostri amici, e di avere amici che in coscienza chiamiamo “santi”.
Oh, non è che qualcuno si scordi che c’è stato un Concilio di Trento, che c’è una Congregazione per le Cause dei Santi e che ormai le canonizzazioni “per acclamazione” sono pure eccezioni teoriche a una norma ben più standardizzata: ma non vogliamo neppure scordarci che il Nuovo Testamento – a cominciare dalle epistole di Paolo – chiama “santi” i semplici fedeli. Semplici ma genuini: non
quelli che dicono di essere giudei ma non lo sono, perché sono la sinagoga di Satana.
Apoc. 2,9
La prima Lettera a Timoteo, opera tritopaolina, raccomanda che una donna, per essere annoverata nel gruppo parrocchiale “delle vedove” (brave signore che davano una mano in chiesa e ne ricevevano qualche piccolo sussidio), sia
conosciuta per le sue opere buone: per aver allevato figli, esercitato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, soccorso gli afflitti, concorso a ogni buona opera.
1Tim 5,10
Le opere subapostoliche, inoltre, attestano ampiamente quest’uso. Riporto solo la Didaché per non dilungarmi:
Cercherai ogni giorno la presenza dei santi, per trovare riposo nelle loro parole.
D 4,2
Ecco, non mi pare che quell’antichissimo testo riporti “la presenza dei santi” per dire “lo scaffale delle agiografie nella tua bibliotechina”: parla proprio di cercare di stare tutti i giorni in compagnia dei “santi” – ἵνα ἐπαναπαῇς τοῖς λόγοις αὐτῶν.
«È proprio quello che ci è toccato in sorte!», dicevo nel pomeriggio a mia moglie e in serata a un amico. E proseguivo: «È una cosa che non capita mica in tutte le epoche!». E mi sono fermato: perché avevo detto così?
Pensavo a quella straordinaria primavera di santità che si ebbe a Roma nella seconda metà del XVI secolo, quando san Filippo Neri e sant’Ignazio di Loyola stavano là, insieme con san Camillo de’ Lellis, nell’Urbe di san Pio V.
Ma era proprio vero che queste situazioni siano delle felici eccezioni a una realtà molto meno effervescente e più spersonalizzante? Non sarà che in questo pregiudizio prevalga, se non la reminiscenza di State buoni se potete di Luigi Magni almeno la Vulgata storiografica di una “controriforma” organizzata militarmente dalla “Chiesa” che doveva difendersi per recuperare appeal di fronte ai protestanti?
Così ho rapidamente passato in rassegna la storia della Chiesa – almeno quei due o tre suoi sottilissimi strati che per via di studî e di esperienze ho potuto frequentare – e da Paolo agli ultimi papi trovo una sfilza foltissima di nomi e di volti. Barnaba, Tito, Timoteo, Silvano, Priscilla e Aquila sono solo alcuni dei nomi noti, e da lì in poi abbiamo avuto Origene col suo Ambrogio, i Cappadoci con la loro cerchia, Girolamo con le sue, soprattutto a Roma e a Betlemme, Agostino con le sue – una montagna di lettere ci testimonia tutte queste amicizie, e sappiamo per certo che se pure le avessimo tutte (molte sono perse) non staremmo parlando che di un’infima parte della vitalità ecclesiale di quei tempi.
Che poi era simile a quella di ogni tempo: il celebre Aelredo di Riveaux scrive sull’amicizia spirituale (libretto aureo tristemente impugnato da alcuni depravati in cerca di sponde), ma Abelardo e Pietro il Venerabile erano anche loro buoni e famosissimi amici; e Tommaso aveva i suoi, Bonaventura i suoi, Francesco e Chiara i loro, molti in comune e alcuni no… e via di seguito risalendo tramite Giovanni della Croce e Teresa d’Avila fino a secoli più vicini al nostro tempo. Un’amica mi ricordava dei circoli di santi che nell’Ottocento si frequentavano a Torino, animando opere di carità e godendo della reciproca compagnia – proprio come raccomandava la Didaché citata sopra. E che dire di Pier Giorgio Frassati, di Chiara Lubich, di Luigi Giussani, di Kiko Argüello, di Josemaría Escrivá, di Giovanni Paolo II? Per non citare che alcuni giganti e basta.
Ma la verità, che mi balza agli occhi come cosa che avevo sempre avuto sotto al naso senza prestarvi attenzione, è che l’amicizia è parte integrante della stessa struttura ecclesiale basica. In Italia la CEI ha giustamente dato il nome “Vi ho chiamati amici” a un volume del suo piano catechistico – e questo è cosa buona – ma chi ha operato una riflessione organica sulle implicazioni teologiche della presenza di quella frase non solo nella “preghiera sacerdotale”, ma nello stesso “comandamento nuovo”? Abramo e Mosè erano chiamati “amici di Dio”, ma si trattava di un titolo esclusivo, dato per sovreminenza: nel Nuovo Testamento Teofilo è il destinatario delle opere lucane – non vorrei azzardarmi stasera a dire che Luca abbia coniato il nome, ma tutti i Teofilo che mi vengono alla memoria sono effettivamente nati in era cristiana… Comunque l’idea che si possa essere tutti amici di Dio è certamente un dono del cristianesimo al mondo… ma quando Gesù per tre volte, mentre spiega il suo “nuovo comandamento”, dice la parola “amici”, non sta parlando solo del rapporto tra sé e ciascuno dei suoi interlocutori (ivi compresi anche noi).
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando.
Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone;
ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.
Gv 15, 13-16
Va bene, la novità era grandiosa e comprensibilmente quell’“amici” è diventato “amici di Gesù”, cioè di Dio – tutti Teofili, come suggerisce Luca –; però la storia del cristianesimo sta intera a mostrare che non c’è Chiesa senza amicizia, e in fondo Gesù aveva addirittura premesso il comando orizzontale alla rivelazione verticale. Abbiamo forse l’abitudine di leggere il versetto precedente come un precetto a sé, mentre costituisce la premessa e il quadro ermeneutico della dichiarazione “filo-logica” (stavolta sta per “che parla degli amici”, e non per “amica delle parole”):
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando.
Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone;
ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.
Gv 15, 12-16
Per gli antichi l’amicizia era una condizione necessaria alla felicità (perfino stando all’ascetico Epicuro!): all’amicizia si dedicavano trattati, un genere letterario a sé, carico di stupore per questa relazione simile all’amore ma così libera da sembrarvi quasi superiore. E Gesù stesso dice che per gli amici si può dare la vita, mentre nega che vi sia un amore più grande… Mi pare che i Padri della Chiesa abbiano conservato intatto, rispetto all’antichità, il gusto per l’amicizia, ma forse quasi come vestigio della paideia antica, per filosofare (Agostino lo dice benissimo, nel passo del De ordine che presenta questo sito): non mi sovviene di opere che elaborino un’ecclesiologia intrinsecamente amicale, mentre a guardare (sia pure a volo d’uccello) la storia della Chiesa mi pare che il summenzionato passo giovanneo possa quasi fondare una nuova nota della Chiesa. Anzi, mi pare infatti che la stessa “comunione” – che è più di una “nota” della Chiesa, ne è quasi un sinonimo – possa definirsi come amicizia. L’avere tutto in com-mune, ovvero il condividere un munus (che è dono e dovere al contempo), è la didascalia della Chiesa nascente (At 2,42-48). Più ci penso e più me ne convinco: se non si può essere felici senza amici – giacché la Chiesa può comandare la castità a tutti, il celibato e perfino la continenza ad altri, ma per nessuno può negare il passo “non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18) – allora davvero non c’è Chiesa senza amicizia.
Qualcuno, tra i pochi che saranno arrivati a questo punto del post, si starà chiedendo dove stia menando il can per l’aia, a che serva tanta facondia. Lo dico in breve: quando si raccontano le vite di santi si presentano, mi pare, le amicizie tra loro quasi come dei corollarî delle loro personalità, come a dire che essendo gioviali, o gravi, o dotti, legavano con questo o quell’altro tipo umano. Tutto questo resta troppo più superficiale di quanto stiamo dicendo: i santi non curano le amicizie perché sono (anche) persone molto umane… è tutto il contrario! I santi sono persone umanissime che crescono nella santità a cui Dio chiama tutti, e lo fanno servendosi anche – tra gli altri mezzi di salvezza – delle loro amicizie.
Ora gli zuavi abbassino gli chassepots: non sto dicendo che l’amicizia superi o sostituisca i Sacramenti o la Parola, naturalmente. Tutti noi però abbiamo l’esperienza di gente che entra in una Chiesa per accompagnare un amico; o chi è che non cerca un amico nell’ora del dolore e del dubbio spirituale?
Ci vorrebbe una riscrittura – se non della Storia della Chiesa – almeno della “storia della santità” (una felice intuizione del tanto ingiustamente vituperato Karl Bihlmeyer): bisognerebbe portare all’attenzione comune la rete di amicizie che ad ogni livello e dimensione costituisce la Chiesa.
“Cosa abbiamo da guadagnarci?”, mi chiedete? Mah, di sicuro non tutto, sia chiaro: siamo qui oggi in un contesto che non pone questa riflessione eppure è già ricchissimo, quasi da perdersi. Forse però la consapevolezza di essere entrato in quel dinamismo vivificante innescato da Gesù sarebbe più evidente, se leggessimo il versetto 12 del capitolo 15 di Giovanni alla luce dei quattro seguenti e non isolato. Chi può sentirsi parte della Chiesa pensando ad “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”?
Mentre è molto facile che ci invada lo stupore, di fronte alla constatazione: «Ma io conosco un sacco di santi!».
Sì, conosco un sacco di santi, ci parlo ogni giorno e per grazia di Dio cerchiamo continuamente di esortarci, di ammonirci e di incoraggiarci, «con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità» (Ef 4,1). Mi conforta il cuore non tanto pensare di essere a N. gradi di separazione da chicchessia – perché l’Unico che conta vive già in noi – quanto vedere con nuova chiarezza che la Chiesa pullula di combriccole e circoli amicali come uno stagno ribolle di girini. E anche se Agostino mi ricorda che l’amicizia non può essere, in senso stretto, una nota della Chiesa, trovo nella sua amicizia una conferma a codesta intuizione.
Pertanto quando avrai visto che molti, non solo compiono queste opere malvage, ma anche le giustificano ed invitano a farle, tu resta saldo nella legge di Dio e non seguire il modo di pensare di costoro: giacché sarai giudicato non secondo il loro sentire, ma secondo la verità di Dio.
Unisciti ai buoni, a coloro che tu vedi condividere con te l’amore per il tuo Re. Scoprirai infatti che ce ne sono molti, se anche tu comincerai ad esser tale. Poiché se tu agli spettacoli desideravi la compagnia e la vicinanza di coloro che con te avevano la passione per un auriga, un gladiatore o per un qualche attore, tanto più ti dovrà procurar piacere l’essere unito a coloro che con te amano Dio, di cui mai si vergognerà chi lo ama, perché non solo lui non può essere vinto, ma rende invincibili anche coloro che lo amano. Tuttavia non devi riporre la tua speranza neppure in coloro che sono buoni, che ti precedono o ti accompagnano nel cammino verso Dio, perché non devi riporla nemmeno in te stesso, per quanti progressi abbia fatto, ma devi riporla in colui 264 che loro e te rende quali siete, giustificandovi. Di Dio infatti puoi essere sicuro, poiché non muta 265. Dell’uomo, al contrario, nessuno saggiamente può dirsi sicuro 266. Ma se dobbiamo amare coloro che non sono ancora giusti perché lo siano, quanto più ardentemente dobbiamo amare coloro che già lo sono! Ma una cosa è amare l’uomo, altra è riporre nell’uomo la propria speranza. La differenza è così grande che Dio comanda l’una e proibisce l’altra 267.
Aug., de cat. rud. 25.48-49
Caro Marcotullio, grazie per questo bel post. Solo non mi è del tutto chiaro il funzione del riferimento iniziale alla “teoria dei gradi di separazione” nel discorso complessivo su amicizia e santità. Io la metterei piuttosto così: ogni contatto presuppone un distacco. Non potrei cioè entrare in contatto con qualcuno senza distaccarmi da chi ero prima, e non possiamo quindi mantenere l’amicizia che tra noi si stabilisce senza un continuo rinnovarsi di quel distacco, che ne preserva la freschezza. Riassumo così, in queste due battute, tutta l’antropologia del dono, che ho appreso da Claude Lévi-Strauss: laddove donare significa essenzialmente il dare e rendere reciprocamente ciascuno qualcosa di suo – al limite, come insegna il vangelo, la propria vita. Posso perciò dire che l’universale esperienza
del contatto nel distacco propria del dono trova nella “croce” la sua più perfetta ed esemplare istanza. Bene hai quindi colto l’essenziale connessione tra amicizia e santità. Aggiungerei, agli esempi che hai riportato, quello del beato Antonio Rosmini, grande figura del cristianesimo moderno, purtroppo poco nota a causa delle incomprensioni che circondarono, e ancora circondano la sua opera (in sospetto di eterodossia per il tomismo conservatore, rischia proprio per questo di essere apprezzato oggi, mentre basta leggere i suoi libri per vedere quale campione della tradizione cristiana egli fosse). L’amicizia come momento di santità fu da lui non solo vissuta ma anche teorizzata. Nel fondare l’Istituto della Carità pensò ad esso come a una società di amici. E nella sua operetta su “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” egli rievoca l’amicizia che vigeva tra i vescovi dei primi secoli. Ben nota è inoltre la grande amicizia che lo legò al Manzoni. Come testimonianza del suo grande senso dell’amicizia può essere inoltre letta la vastissima corrispondenza che egli intrattenne.
Gentilissimo, grazie per il denso contributo, e chiedo anzi scusa se non ho (ancora) risposto allo scorso intervento, ugualmente stimolante.
Il riferimento alla teoria dei gradi di separazione era naturalmente una boutade, mi pareva anzi di averne sorriso abbastanza, nel corso del post, da non lasciare il sospetto che io la prendessi sul serio: è però vero che i social network accentuano l’impressione di conoscerci un po’ tutti. È vero che non siamo poi “il mondo”, ma anche le grandi agenzie culturali del nostro tempo (penso, che so, a Hollywood) si restringono nei loro vertici a poche centinaia di persone.
Grazie per il riferimento a Rosmini che, sì, come e più di altri potrebbe essere addotto: se volesse indicarmi via mail le pagine di cui parla andrei a rileggermele con gusto. Il punto però non è il semplice nesso tra amicizia e sant’Ignazio: che tutti i cristiani, e in particolare i santi, curassero numerose e feconde amicizie è cosa non contestabile (anche se scarsamente documentata); io mi chiedo se qualcuno abbia messo a tema in nervo amicale in una sana ecclesiologia. Forse devo tornare a precisare qualche dettaglio, magari l’altra notte non ero stato chiarissimo.
Caro Marcotullio, sono fuori casa e non ho con me i miei libri, ma se ricordo bene il riferimento all’amicizia tra i vescovi nell’epoca dei Padri della Chiesa è all’inizio del secondo capitolo de “Le cinque piaghe della santa Chiesa”. Ti suggerisco inoltre il “Grande dizionario antologico del pensiero di Antonio Rosmini” (quattro volumi) a cura di don Cirillo Bergamaschi, dove puoi non solo guardare alla voce “amicizia”, ma trovare di che orientarti nella vastissima produzione di questo ahimè trascurato gigante del pensiero e della spiritualità cristiana. Sulla centralità per Rosmini dell’amicizia, puoi trovare qualche indicazione anche nella sua biografia scritta recentemente da don Umberto Muratore: “Antonio Rosmini. Luce di verità, fuoco di carità”. Posso confermarti che egli rappresenta per me, in questi tempi calamitosi di confusione teologica e dottrinale, un faro paragonabile solo a quello di san Tommaso e di sant’Agostino.