Reco ancora nitidissimo quel ricordo d’infanzia: quando in un’estate di ormai non pochi anni fa Enrico Ruggeri venne a cantare al mio paesello abruzzese tutta la collettività era presa da un fervore particolare. All’epoca Ruggeri era non solo il recente vincitore di due edizioni del Festival di Sanremo (non ricordo con precisione l’epoca dei fatti, ma certamente il tutto avvenne nei primi anni ’90), ma pure il musicista e/o il paroliere che in un modo o nell’altro stava dietro ai successi di altri: nel 1987 Ruggeri aveva stravinto a Sanremo cantando Si può dare di più, con Umberto Tozzi e Gianni Morandi, e al contempo aveva firmato Quello che le donne non dicono, per la quale Fiorella Mannoia veniva premiata dalla critica.
Insomma, erano anni d’oro per l’ex voce dei Decibel. Che proprio lui venisse in un piccolo borgo del Pescarese per una festa paesana era diventata una notizia: conservo il ricordo delle carovane di automobili che quella sera vennero dal capoluogo. Eravamo tutti “vestiti bene”: era un evento. Eppure la serata in sé mi lasciò un’impronta di tutt’altro segno: il palco fu allestito non nella piazza del paese, ma nel più ampio campo da calcio. Anche le strutture sportive del mio paese d’origine, come quelli di mezza Italia, non hanno mai avuto un vero prato: probabilmente il comitato feste fece questa scelta pensando all’affluenza, ma ricordo che la polvere del suolo mi diede un’impressione di inadeguatezza alla grandezza dell’evento di cui tutti parlavano da settimane. Insomma, per dirla con un linguaggio più specifico dello showbiz, mi parve ’na poracciata.
Ero un ragazzino e all’epoca la cosa finì lì: non mi pare di aver chiesto niente a nessuno, e tutto sommato quella sera mi annoiai parecchio (conoscevo una o due canzoni al massimo). In seguito però mi chiesi quanti soldi ci fossero voluti per convincere “uno della Tv vera” a venire in un paesino che neppure si vede sulle carte nazionali: non l’ho mai saputo e oggi non saprei nemmeno a chi chiederlo, ma l’idea che alle volte certi grandi cartelli possano nascondere realtà ben meschine non mi abbandonò più.
Non voglio dire che Ruggeri fosse così “sotto” da accontentarsi dei relativi soldoni di un comitato feste di paese (racimolati con chissà quale sforzo): alcuni cantanti prediligono il contatto umano col pubblico, è vero, ma negli anni a seguire avrei toccato con mano fin troppi esempî di musicisti che si concedono alle sagre di paese con malcelato disprezzo, e solo perché… bisogna pur vivere.
Come disse Krusty: «Carmina non dant panem»
Ora mi si viene a dire che tra un paio di giorni ci sarà “un evento” a Villafranca di Verona: l’“evento” sarebbe il concerto di Marilyn Manson. È stato un altro tuffo nei ricordi: il fenomeno Manson emerse sulla scena internazionale quando ero al liceo, quindi qualche anno dopo l’affaire Ruggeri al paese. Ancora fino a pochi giorni fa sapevo bene che era ancora vivo, sì, ma pensavo che fosse ormai una di quelle meteore di cui si parla soprattutto d’estate, quando i giornali serî non sanno che scrivere e i rotocalchi sono in alta stagione: insomma, la coeva Posh Spice è ancora discretamente chiacchierata, ma mi venga un colpo se mi aspetto di vedere la locandina di un suo concerto! Alle volte queste vecchie glorie della vanity fair USA danno l’impressione di restare nei paraggi della mangiatoia come per una specie di diritto d’anzianità, una sorta di medaglia al valore (o alla memoria). Marilyn Manson è ancora vivo, lo sapevo per certo: la notizia della sua morte l’avrei certo letta (abbiamo saputo perfino della dimenticata Erin Moran – per tutti “Sottiletta di Happy Days” – quando spirò nel suo squallido camper…); e poi in qualche recente passerella del carrozzone a stelle e strisce avevo notato le sue improbabili lenti a contatto, riconoscibili anche sotto il peso di quattro lustri trascorsi.
Di Manson s’era sentito parlare l’ultima volta, nel mainstream italiano, nel 2010: in quella primavera il vituperando share contest suggerì a Gianmarco Mazzi, all’epoca direttore artistico della kermesse sanremese, di chiamare “Dita Von Teese” (nata Heather Renée Sweet in un paesone del Michigan) a rovesciarsi addosso una bottiglia di champagne dentro a una coppa in plexiglas (dietro modico compenso di 80mila euro). All’epoca le credenziali della ragazza del Michigan, per il grande pubblico, erano due:
- Si spoglia nuda in tv per soldi (ma lo chiama “burlesque”: è francese, quindi è una cosa raffinata);
- È sposata con quello che si trucca da morto (Marilyn Manson, appunto).
Non siamo ancora persuasi che chiamare “burlesque” una sozzeria non la renda perciò adatta alla diretta nazionale in prima serata (la fecero spogliare un paio di minuti dopo la fine della “fascia protetta”, tanto per coprirsi le spalle); ma contestualmente a quella cafonata i giornali riportarono pure che la relazione col “cantante” era finita nel 2006. I meglio informati, in Italia, lo avevano saputo qualche mese dopo da Repubblica, come dolcetto nella calza della Befana.
Come disse Gabbani: «Cantatemi una canzone di Manson»
Quindi niente, ma perché parlo della sua ex quando è lui quello che canterà a Villafranca tra un paio di giorni? Perché non vedo che altro vi sia da dire: Marilyn Manson satanista, Marilyn Manson poeta maledetto, Marilyn Manson malato di mente… ecco i temi che vedo svolgersi sui giornali e nella blogosfera, anche se al mio modo di vedere la cosa è molto più semplice (nonché meno epica), e parlo della sua ex moglie perché i due mi sembravano un’accoppiata perfetta. Entrambi sono espressione del peggior american dream, ovvero ciascuno dei due è – come ebbe a dire Mick Jagger commentando ineffabilmente Madonna (la sua persona e la sua carriera) – «una goccia di talento in un oceano di ambizione». Non serve andare a leggere chissà che tomi: basta Wikipedia (qui e qui) e si trovano ordinarie storie di speranze frustrate e sorprendenti risalite mediatiche. Ostinazione, qualche dote di fondo e un pizzico di fortuna hanno reso una ballerina con la passione della lingerie (come ce n’è a migliaia nel nostro pur piccolo mondo) la fatale regina del burlesque – e guai a sorridere sotto i baffi: è una cosa seria, capito? –; e di un ragazzo irrequieto traumatizzato in infanzia dal nonno pornomane “l’imperatore pallido”.
Tutte scene di cartapesta, tutto un gioco di scatole cinesi. Mi rendo conto: qualcuno avrà tra le mani qualche rivista da nerd in cui si afferma con sicumera che la “musica” di Manson è “arte di denuncia”, di contestazione e chissà di che altro. Rispondo dicendo che i nerd non riempiono gli stadî, mentre della tappa di Manson a Villafranca leggo titoli trionfanti: «Sold out per Manson a Villafranca». Dunque rilancerei la domanda con cui Francesco Gabbani (una meteora anche lui, vaticinò Pippo Baudo) rispose alle critiche di Manuel Agnelli: «Mi cantate una sua canzone?».
Non è per fare gli snob (personalmente non ascolto né Gabbani né gli Afterhours, mi tiro fuori): sta di fatto che, se di un fenomeno musicale diciamo che è “di popolo” (ed è “di popolo” un artista che fa il tutto esaurito dove va), dobbiamo poter dimostrare che è popolare. Se invece diciamo che è rilevante per la critica, bisogna che la critica si concentri su altro che sul gossip scandalistico e sulla polemicuccia da riempitivo di terza pagina.
Di Manson nessuno sa cantare una canzone, e anzi nell’immaginario collettivo sono rimasti due luoghi comuni sull’“imperatore pallido”:
- È quello che si trucca da morto e brucia le Bibbie nei concerti;
- È quello che si portava a letto quella che si fa la doccia nello champagne per soldi.
Il rovesciamento dei luoghi comuni della ex moglie: come si vede, malgrado il divorzio il popolo italiano li percepisce tuttora “un solo copione”.
Ma facciamo finta che Marilyn Manson sia davvero un cantante, e poniamo per assurdo che tutte le sue canzoni siano famose come The Dope Show, singolo di punta dell’album di punta: Mechanical Animals.
Ecco di seguito un florilegio (realizzato da un fan!) degli istanti migliori di diciassette (17!) anni di live di quel brano:
Che dire? Anche Madonna ha più voce – e almeno le coreografie sono studiate a fondo.
Chi è “nato cafone”?
Ammetto che, nella discografia di Manson, il disco del 2012, Born Villain, mi tenta molto – solo per il titolo – ad ascoltarlo. Me ne passa la voglia appena leggo certe dichiarazioni rilasciate alla CNN:
In qualsiasi storia, il cattivo è il catalizzatore. L’eroe non è una persona che piegherà le regole a suo piacimento o mostrerà le crepe nella sua armatura. È intenzionalmente a una sola dimensione, ma il cattivo è la persona che ammette la propria responsabilità per ciò che è e rappresenta. Farà cose che a volte sono moralmente discutibili, ma lo fa perché è insito nella sua natura farle e non barcolla. È la fiaba della rana e lo scorpione, tutte quelle storie dicono semplicemente, chiunque tu sarai, restaci fedele e abbi fiducia in te stesso. Non vacillare o la vita ti fotterà.
Il solito mix di banalità e di nonsense per millantare grande profondità in luogo di una grande vacuità: non vale la pena di contestare dialetticamente simili affermazioni. È evidente che esse risultano del tutto estranee a una cultura umanista come quella italiana. Dunque come mai – perché anche questo è un fatto – l’Italia ospiterà domani e dopodomani due date di un tour internazionale di Marilyn Manson? Gli agenti sono persone pratiche, non amano filosofeggiare: se vengono a Roma è perché una data italiana di un tour internazionale si fa a Roma o a Milano; se vengono a Villafranca (che non a caso fa più notizia di Roma) è perché nella cittadina veneta qualche gruppo di provinciali assetati di visibilità ha trovato i soldi per chiamarlo. Nell’uno e nell’altro caso, debbono aver garantito un certo bacino di utenza tale da scongiurare il flop logistico degli eventi: a Roma, per la legge dei grandi numeri, questo è decisamente più facile; a Villafranca tutto ciò è tanto meno scontato quanto più assume valenza simbolica.
Manson arriva proprio perché “noi” siamo andati via
Per questo da un lato abbiamo i cafoni (oh, che peccato che “villain” quasi non conservi più questa connotazione di rozzezza e abbia declinato ormai tutto il suo semantema nello spettro della malvagità…) che costruiscono l’evento Marilyn Manson dove esso può davvero far notizia; dall’altro abbiamo la comunità cattolica che – essendo rimasta sola ad avere un’idea sull’uomo e sul suo destino – si sente simbolicamente ferita e reagisce con voci di fiera impotenza.
Non è un caso che il Vicariato di Roma non batta ciglio mentre la Curia scaligera stili documenti inquieti. Certo ha ragione monsignor Giuseppe Zenti, che comunica in un documento pubblico la sua riprovazione:
Detesto una iniziativa del genere destinata ad appoggiare e favorire un concerto di Marilyn Manson. Bruciare poi anche la Bibbia! Da noi si dà tutto per lecito, anche comportamenti inumani e anticivili. Di fronte ad un gesto che è demente ancor prima che sacrilego, dovrebbero insorgere almeno tutti coloro che fanno diretto o indiretto riferimento alla Bibbia: tutti i Cristiani, di qualsiasi denominazione. Un concerto di questo genere è un atto di barbarie.
Fermare questo scempio, emblema dello scatenamento di satana a livello mondiale, compete gravemente agli Amministratori della cosa pubblica, che hanno il dovere di fermare ogni tentativo di devastazione non solo delle case ma ancor prima degli animi delle persone: una generazione di giovani devastata da simili esperienze sarà solo un problema per l’intera cittadinanza. Villafranca ha alle spalle una tradizione ricca di valori civili e cristiani, in simbiosi.
Parole gravi e serie, quelle del Vescovo, ma che suonano incomprensibili per gli «Amministratori della cosa pubblica», da tempo incapaci di non ritenersi tronfiamente superiori a “discorsi su satana” e cose simili. Questo è il dramma: che i sopra ricordati cafoni si credano “porzione eletta del popolo” per l’indifferenza maturata di fronte ai destini della collettività; e ancora di più che “noi” Chiesa abbiamo lasciato scoperte tutte queste zone del Risiko per così tanto tempo.
Cosa resta da fare, al momento presente
Ma protestare in nome del “vilipendio alla religione” sarebbe svilente per noi; argomentare contro le provocazioni di Manson sarebbe irragionevolmente nobilitante per lui. Il tutto è “solo” un’operazione culturale posta come una prova di forza da parte di attori che si candidano a sostenere la parte dei sovversori del portato cristiano nella nostra società: strillare ora che ci picchiano significherebbe dare più soddisfazione ai picchiatori; tacere in completa inerzia come vorrebbero certi “disputatori felici” implicherebbe prolungare e ampliare le condizioni di possibilità per eventi anticristiani come questo (che comunque, resta vero, fanno male specialmente ai giovani). Probabilmente la cosa migliore da fare sarà incassare il colpo oggi e studiare a fondo le dinamiche che ci hanno portati a riceverlo, per correggere efficacemente i nostri errori logistici.
E per il resto, alla fine consoliamoci: pensate a quanto usciranno malconci quegli estimatori dell’“arte” che andranno a sentire il rumore di Manson…
PS: A proposito di consolazioni…
Se vogliamo sfogare positivamente il nostro provincialismo yankofilo, perché non chiamiamo invece a Villafranca Meghan Trainor, che fa musica bella, popolare e generalmente (pro)positiva?
Di’ cosa ne pensi