di Lucia Scozzoli
Gloriosa è andata in scena domenica l’epopea di Manchester: il concertone di beneficenza One Love ha raccolto 10.5 milioni di euro, era gremito.
Tanto love a microfoni al massimo: «Guardate verso il cielo e cantate forte» esorta Gary Barlow, «We’re strong…» canta la folla con Robbie Williams, commozione catalizzata con “Angels”, spensieratezza con “Happy” di Pharrel Williams: «Non vedo nessuna paura in questo luogo, solo amore».
Scooter Braun, il manager di Ariana Grande, entra in scena e ringrazia tutti, soprattutto i giovanissimi che sono ancora qui:
Avete fatto qualcosa di grande. Avete sfidato la paura. L’avete guardata in faccia per dirle: Noi siamo Manchester! E il mondo vi sta guardando.
Il manager legge lettere di ragazzine che hanno perso i loro amici. Poi l’ovazione per Ariana Grande, che canta “Let It Go” in felpa bianca su cui campeggia la scritta: “We love (simboleggiato da un cuore) Manchester”. Ariana per il momento non dice una parola. Mentre viene sommersa da una pioggia di festoni rosa, parte il videomessaggio da Stevie Wonder: “Love is the way…”
“Dite a tutti che vi amate!”, e via un tripudio di abbracci e di “I love you” tra il pubblico.
Alla fine “Over the rainbow”, gorgheggiata alla maniera moderna che sembra voler distruggere ogni traccia della canzone originale in cerca di personalità a tutti i costi.
Indicativo, il testo:
Un giorno esprimerò un desiderio su una stella cadente / mi sveglierò quando le nuvole saranno lontane dietro di me / dove i problemi si fondono come gocce di limone / lassù in alto, sulle cime dei camini, è proprio lì che mi troverai / da qualche parte sopra l’arcobaleno / ci sono i sogni che hai osato fare, oh perché, perché non posso io?
Questo concerto ha tutti i connotati di un funerale laico: dentro c’è una gran voglia di speranza, il desiderio di poter esprimere il dolore per le vittime che sono mancate a noi e di poter esorcizzare la paura che possa ricapitare dando concretezza plastica al desiderio di amore che ciascuno può trovare nel proprio cuore, soprattutto i più giovani. E’ un inno all’utopia dell’uomo buono, buono in sé, senza un motivo vero: sogni che aleggiano, e basta. Non ci sono ideali, non ci sono messaggi solidi da masticare duri tra i denti.
Pharrel Williaws canta:
Perché sono felice / Batti le mani se ti sembra di essere una stanza senza un tetto / Perché sono felice / Batti le mani se ti senti che la felicità sia la verità / Perché sono felice / Batti le mani se sai cosa è per te la felicità / Perché sono felice / Batti le mani se senti che è quello che vuoi fare.
Cioè? Io non l’ho mica capito perché sei felice, e mi pare che non l’abbia capito neppure tu, ma va bene così. La felicità è una voluta di fumo inconsistente e fragile: non soffiate, che si spezza.
O Ariana in “Be alright”:
Baby non sai / che tutte le lacrime vanno e vengono / Baby devi solo mettere in ordine i tuoi pensieri / perché ogni piccola cosa andrà bene /staremo bene.
E come no! Staremo bene, tutto si sistemerà, da solo, così, per magia, per inerzia, come se non valesse il secondo principio della termodinamica che ci dice inequivocabilmente che l’entropia vince sull’ordine e che le cose, lasciate scivolare, non finiscono a posto.
In fondo, qual è la scena di Mary Poppins più bella di sempre, quella che nessuno dimentica mai? Il riordino magico della stanza dei bambini: basta muovere un dito, basta volerlo, e tutto si sistema. È il sogno dell’umanità, e i giovani ci credono per davvero!
Più si è giovani, più si coltiva l’utopia che il bene capiti, che la fortuna ci caschi addosso, che le opportunità si trovino per strada, che gli uomini tendano al bene, che basti lasciarsi trascinare dalla corrente per arrivare ad una meta.
Poi crescendo l’esperienza insegna tutt’altro: gli uomini sono malvagi, alcuni sempre, altri solo a tratti, tutti qualche volta. Il bene, la pace, la concordia, tra amici, vicini di casa, concittadini, ed extracomunitari non capitano né capiteranno mai se qualcuno, anzi, se molti non ci metteranno tutto il loro impegno e la loro fatica in tal senso.
Non mi pare di aver captato questo messaggio di impegno nel concerto: nessuno ha chiesto ai ragazzi cosa sono disposti a sacrificare per questo love.
Le canzoni non sono tutte uguali: c’è un tempo per ridere, un tempo per piangere, un tempo per divertirsi e uno per riflettere.
Gli adolescenti amano la musica (anche gli adulti a dire il vero) perché con il canto si possono esprimere tutti i sentimenti che tengono in ostaggio il cuore umano, dai più laidi e biechi, ai più eterei e nobili. Si canta ai funerali come alle feste e quando ancora le parole non sanno descrivere con esattezza quello che ci agita, restiamo facilmente rapiti da una musica che si fa interprete estemporanea di un nostro stato emotivo. Per questo un concerto per le vittime di un attentato in sé non è un’idea sbagliata. Tutto dipende da cosa poi canti al concerto: se ci si sgola tutti insieme solo per dimenticare la gravità di un momento, il concerto si fa semplice evento di evasione, non di commemorazione, e perde ogni sua valenza di utile sociale, non aiuta a prendere coscienza né ad elaborare un dramma. Semplicemente rimanda ad altri momenti (probabilmente privati) l’incontro con se stessi nella tristezza.
Mi sarebbe piaciuto ascoltare una canzone come “Figlio di un re” di Cremonini, ad esempio
Puoi chiamarti dottore, puoi chiamarti scienziato, puoi cambiare il tuo cognome e usare un nome inventato, puoi persino morire: comunque l’amore è là dove sei pronto a soffrire.
Ma ce ne sono molti altri, di testi seri ed impegnati, che cercano di dire qualcosa di più del leggiadro “divertiamoci” e “non preoccupiamoci”, anche perché i giovani posso reggere l’urto di una verità più robusta di questa laida melassa. Gli adolescenti bruciano del sacro fuoco della passione per la verità, che vanno cercando in ogni dove, andando dietro a tutte le chimere volanti che incontrano per caso, soprattutto se in famiglia, a tempo debito, non è stata seminata in loro qualche coordinata, qualche dritta su dove si trova la “roba buona”, cioè quella vera.
L’amore non è solo un sentimento di commozione condivisa con le luci abbassate mentre si canta in coro over the rainbow: è la scelta del bene, per sé e per gli altri, in ogni occasione possibile. Ubriacarsi al sabato sera, sballarsi di canne, darsi via nella prima relazione che capita non significa “love”, ma autodistruzione. Anche questo non mi pare che si sia capito, al concerto.
Su Avvenire abbiamo letto le parole di Ognibene:
È bello, e pieno di senso allora, vedere e sentire nostre le lacrime dei quindicenni che a quella speranza forse non sanno dare un nome, ma la sentono pulsare inestinguibile ascoltando una vecchia canzone che li invita, proprio quando la paura morde, a cercare qualcosa che c’è di sicuro. Non è difficile trovarla: è là, da qualche parte, oltre l’arcobaleno…
A me non pare molto bello che gli adulti si sentano rappresentati dalle lacrime degli adolescenti, che non abbiano da dire loro nemmeno una parola in più, che ci si debba accontentare, tutti quanti, di un momento di commozione indistinto, indirizzato verso una vaga speranza in non si sa cosa, non si sa chi, come ubriachi che non riescono ad infilare il buco della serratura con la chiave, che non mettono a fuoco la strada, che non sanno dove sono né dove vanno. Ma si sentono benissimo, inebriati dal nulla, cullati dalla montata di endorfine risalita con la consumazione del rito condiviso del sentimentalismo. Se fossi una quindicenne come quelle di Manchester, credo che cercherei delle risposte molto più succose, vorrei dei perché non solo psicologici (come si può immolarsi in nome di Allah e ammazzare innocenti resta una voragine aperta sulla cattiveria folle di cui è capace l’uomo), ma anche politici e storici: da dove viene questa gente che ci ammazza? Come viveva là al suo paese? In cosa credeva? E cosa vuole ora da noi?
Il terrorismo di matrice islamica è un fenomeno nuovo, che questa generazione si trova ad affrontare per prima: noi sappiamo tutto del terrorismo politico, animato da ideali malsani di comunismo rosso o fascismo nero. I nostri figli si trovano immersi in un contesto completamente diverso e in buona parte se la dovranno cavare da soli, studiando un modo per sopravvivere e possibilmente risolvere il conflitto. Sono loro che in classe hanno i compagni che fanno il ramadan e per questo sono esonerati da ginnastica (con mugugnamenti offesi degli altri); sono loro che vengono guardati male se bevono o fumano; le nostre ragazze confrontano i propri shorts con i veli delle compagne; l’ora di religione si spopola, i crocifissi spariscono dalle pareti delle aule, sulla fede manca un luogo di confronto sereno, si vive nell’omertà, ciascuno tiene per sé le proprie convinzioni, per paura di essere incompreso o deriso.
Poi le storie familiari: figli senza genitori, famiglie sparpagliate, insieme a diseredati che vengono dall’altro capo del pianeta, tutti mescolati nello smarrimento comune di non sapere chi si è.
Come si fa ad amare senza sapere chi si è e chi è l’altro?
Non mi pare che la leggerezza vacua dei concerti possa essere di alcun aiuto: se volete un mondo pieno di love, bisogna calare le braccia fino al gomito ed oltre nella melma di queste problematiche educative e culturali, bisogna accendere il confronto cruento sugli stili di vita, indagare le motivazioni profonde del proprio agire, far risalire alla superficie i più nascosti perché, le aspirazioni interiori, i desideri, alla luce del sole, fino al raggiungimento di una radice comune da cui ripartire ad innestare una comunione.
Servono giovani che sappiano guardarsi dentro con spietata onestà, per guardare dentro anche al cuore dell’altro, superando le fandonie del politically correct anestetizzante. Che valore dai alla vita? Credi in un paradiso, in un inferno e in un’autorità morale superiore? Quali ideali ti animano? Cosa ti fa sentire in pace? Il bene o il male? L’altruismo o l’egoismo? La prepotenza o la difesa del debole?
Capite che davanti ad uno che si fa esplodere pensando di far cosa gradita a Dio, queste semplici domande sono più che mai importanti. O vogliamo amarci con tanto love escludendo quelli che ci odiano e che continueranno ad ammazzarci? Saremo prontissimi in tal caso, suppongo con un altro concerto.
Brava Lucia, come sempre, centri il punto: un punto che proprio in molti si stanno impegnando a cancellare…
…tra l’altro è insopportabile vedere il nastro che simboleggia il lutto con le orecchiette di Play Boy… non c’è limite all’indecenza!