La Paoletti ritiene che l’inversione di tendenza sarebbe arrivata appunto con la diffusione popolare del clima di prima rivoluzione sessuale: insomma, già dagli anni ’50 le donne avrebbero cominciato apposta a vestire le bambine “da maschi” – cioè in rosa. Per qualche tempo le industrie restarono indecise sul da farsi – pare che per due anni, nella decade dei ’70, il Sears Roebuck & Co. Catalogue non promosse alcun indumento infantile rosa – e poi si ricordarono la regola fondamentale del “libero mercato”: follow the money.
Anzi, spiega la sociologa, non appena il mercato capì la nuova musica si mise a suonarla con un’enfasi tutta sua: così negli anni ’80 – quando il “gender-neutral clothing” fu programmaticamente ucciso nel mercato – i maschietti non potevano più essere vestiti con semplici tutine celesti (visto che le loro proprie, rosa, le avevano sequestrate le bambine – ovviamente per essere più virili e avere più possibilità di realizzarsi, nella vita!), ma con tutine celesti su cui campeggiavano orsetti, palloni, mazze da baseball, missili e tutto quanto si presumeva poter identificare con nettezza la mascolinità.
…e di filosofia
Insomma il mercato assecondava il capriccio estemporaneo delle femministe, permettendo loro di vestire le figlie in rosa (cioè “da maschio”), ma proprio per non perdere nessuna delle due metà del cielo ha rinforzato di puntelli identitari il “nuovo rosa”, destinato alle femmine, e il “nuovo celeste”, destinato ai maschietti. Così i maschietti avevano perduto il “loro colore” (stando alle definizioni della letteratura dedicata), le femministe avevano perso la loro partita (perché per assecondare il loro colpo di mano il “colore da maschio” era diventato “colore da femmina”) e il mercato aveva guadagnato nuove fette di pubblico. Se prima infatti un solo corredo neonatale, normalmente bianco o comunque neutro, poteva assolvere alle necessità di dieci figli, da quel momento in poi i corredi sarebbero stati almeno due, se i figli non fossero venuti tutti del medesimo sesso. E non sarebbero costati quanto quelli bianchi, né quanto dei generici corredi colorati, perché i nuovi sono proprio “da maschietto” e “da femminuccia”, come solidi test anatomici e sgargianti disegnini ricamati attestano all’unisono. E quindi bisogna pagare di più: mica vorrai confondere tuo figlio (o tua figlia) sulla propria identità sessuale?
Di sicuro resta che confusi lo siamo noi: bastano trent’anni di pubblicità perché consideriamo “patrimonio innato” una mera convenzione nata per un capriccio e strutturata per fini commerciali. E mi torna in mente una pagina di Una gioventù sessualmente liberata (…o quasi), di Thérèse Hargot, che a corollario di analoghe considerazioni aggiungeva:
E comunque è curioso: dopo mezzo secolo di femminismo che difende l’uguaglianza sopra ogni cosa in nome del fatto che uomini e donne non sarebbero in fondo differenti, la volontà di strombazzare con ogni pompa a che genere i bambini appartengono non è mai stata tanto importante! Da un lato, siamo una generazione che non sopporta nemmeno una parola che differenzi le femminucce dai maschietti, e dall’altro non abbiamo che una domanda sulla punta della lingua, davanti a una donna incinta: «Allora, cos’è?», domanda che in quel “cosa” sottintende che appartenere al genere umano non conferisca alcuna identità. Si dice: «È una femmina!», oppure: «È un maschio!» (p. 132).
Rosa e celeste: c’è (ancora) posto per i simboli sacri?
Ma… e le elevazioni religiose che avevo trovato all’inizio? Il blu del manto della Madonna? Il rosso delle vesti di Gesù? Ecco l’idea che mi sono fatto dando un’occhiata in giro alle testimonianze che ho trovato: non è impossibile che il rosa dei maschietti abbia davvero qualcosa a che fare con Gesù, né lo è che il celeste delle femminucce abbia a che fare con Maria. Si tratta, è vero, di codici iconografici sviluppati perlopiù nella modernità e consolidati nella (spesso cattiva) arte sacra dell’Ottocento; d’altro canto, proprio questo è il periodo che riguarda le nostre osservazioni. C’è un argomento che, meglio dell’arte sacra in sé, me ne persuade: la liturgia cattolica ha una dimensione popolare che è fonte, e non effetto, dell’ispirazione artistica; e nelle parrocchie, nelle confraternite, nei paramenti liturgici, nei gonfaloni per le feste religiose, effettivamente, tutti hanno sempre percepito (almeno fino a qualche decennio fa) che il celeste fosse un colore eminentemente mariano. Allo stesso modo le devozioni moderne al Sacro Cuore e al Sangue Preziosissimo di Cristo hanno sempre indicato nel rosso – già colore “virile” in quanto imperiale – un simbolo cristologico.
Per contro, bisogna ammettere che non si trovano in giro (o almeno io non ne ho trovate) fonti che attestino esplicitamente questi riferimenti religiosi: l’obiezione non squalifica in toto l’ipotesi, chiaramente, perché non tutti i fenomeni di costume vivono di tradizione scritta – anzi normalmente i loro simboli sono tanto autoevidenti che la memoria scritta è quasi l’eccezione. Di sicuro però sta il fatto che qualsiasi cosa sia intervenuta a invertire quella convenzione che nel 1918 appariva comune ed evidente – le guerre mondiali, il femminismo, il consumismo, la contestazione, lo star system, la pubblicità, il gender… – esse hanno potuto operare su di un panorama simbolico che si andava desertificando. Il mercato, di per sé, non aveva alcun interesse a cancellare Gesù e Maria (si vendono bene anche loro, anzi!), ma si è rassegnato a speculare sulle conseguenze di un’evacuazione simbolica già consumata.
Insomma, che fare?
Poi non è mancato chi si sia messo a compilare liste di fonti pro e contro questo o quell’abbinamento: non m’impressionano molto, data la necessaria incompletezza di ogni elenco (ogni raccolta di dati non è mai, di per sé, una tesi, ma quasi sempre viene prodotta sotto l’influenza di un’ipotesi già espressa). Niente, a girare e rigirare le informazioni che ho trovato non riesco a decidermi: il fiocco per mia figlia lo compro celeste o rosa? La controrivoluzione non è mai stata la mia matrice teoretica, e anche se volessi metterla sul piano di una semplice resistenza culturale non vorrei esporre la mia bambina alla dialettica distruttiva dei suoi coetanei, che certamente le chiederebbero ragione del suo essere vestita “da maschio”. No, non funziona e non se ne esce: quel Disney era un volpone, altroché, e nella battaglia delle due fate madrine aveva forse caricaturato il rimescolamento dei colori canonici, e magari intendeva porre la cosa in connessione con la presenza sovrabbondante di figure femminili. Temo che dovrò rassegnarmi a un banalissimo e comunissimo fiocco rosa. Ma sì, in fondo le abbiamo dato il nome di quella martire che sant’Ambrogio disse “matura per la testimonianza della fede” «in un tempo in cui la fede si faticava a trovarla tra gli uomini». Un virile rosso sangue ci sta, quantunque stemperato. E allora vada per il rosa!
Per approfondire si legga anche Michel Pastoureau, Blu. Storia di un colore
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