il rosa starebbe ai maschietti come stemperamento del più intenso rosso, che sarebbe colore eminentemente virile per una serie di ragioni – le quali vanno dalla porpora degli imperatori romani al manto di Cristo com’è codificato in una certa iconografia moderna; viceversa, il celeste starebbe alle femminucce come attenuazione del più forte blu, prezioso frutto del lapislazulo con cui nella modernità i pittori hanno onorato Maria, la più alta delle regine e delle donne.
«Dunque – mi dico incredulo – vestendo in rosa un maschietto lo staremmo indirizzando al più alto modello di virilità che la storia conosca, ossia, parola di Dostoevskij, Gesù Cristo?». Già, per quanto sembri assurdo. E in effetti questo spiega perché il principe Arthur, tra le braccia della madre, la regina Vittoria, sia vestito di raso rosa e pizzo bianco. Il quadro che li raffigura è dell’esatta metà del XIX secolo!
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«Ma è ridicolo! – riprende un’altra parte di me – Quale sarebbe dunque la ragione di questo repentino cambiamento?». Almeno, che so, quanto a Babbo Natale possiamo raccontarci che il vestito rosso gli sia stato affidato da quando, nel 1931, l’antico San Nicola divenne suo malgrado testimonial della Coca Cola (ed è falso anche questo: già Thomas Nast nel 1881 lo disegnava con gli abiti rossi, alternandoli ai verdi, destinati a minore fortuna). Ma perché addirittura invertire il rosa e il celeste nel momento in cui questi fossero già affermati? Fortuna che all’università del Maryland c’è Jo B. Paoletti, una docente di “American Studies”, che nel 2012 ha pubblicato un libro apposta per rispondere alla mia angosciosa domanda: il suo Pink and Blue: Telling the Boys from the Girls in America spiega tutto, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Come una parte di me segretamente temeva e un’altra segretamente sperava (cosa volete: siamo in molti qui dentro…), la realtà è molto più prosaica delle suggestive teorie per cui già si imbastivano fior di ragioni pro o contro. Pare infatti che – ed è la prima cosa che impariamo – fino al XIX secolo a nessuno sia mai venuto in mente di attribuire un colore peculiare ai bambini, tantomeno distinguendoli per sesso: i bambini venivano vestiti tutti di bianco, almeno nelle classi sociali che non disponevano di mezzi per differenziare il vestiario a seconda delle occasioni. La ragione risulterà evidente anche a chi avesse poca dimestichezza con la biancheria: essendo quella dei bambini particolarmente soggetta a ogni tipo di sporco, andava lavata ad alte temperature, con inevitabile perdita di brillantezza per qualsiasi colore si fosse scelto.
Comunque sembra che dalla metà del XIX secolo, e ispirandosi a diverse considerazioni, si cominciassero a differenziare per via cromatica i bambini dalle bambine: fino alla Grande Guerra, però, i due colori pastello erano ben lungi dal giocarsi l’esclusiva sul vestiario neonatale. Ora, voi non ci crederete (perché non ci credevo neanche io), ma nel giugno del 1918, ovvero quando il mondo sfrigolava ancora tra le follie dell’“inutile strage”, qualcuno trovava che la questione meritasse un contributo analitico in una rivista di commercio. Così sull’Earnshaw’s Infants’ Department si legge:
La regola generalmente accettata è rosa per i maschietti e blu per le femminucce. La ragione è che il rosa, essendo un colore più deciso e più forte [sic!], si conviene maggiormente al maschietto, mentre il blu, che è più delicato e fragile [!], sta meglio alla femminuccia.
Nel 1927 – quando il mondo era tornato grasso e mancavano ancora due anni al fulminante crack di Wall Street – sarebbe stata la rivista Time a spendere una parola autorevole nel cruciale dibattito: in un inserto venne pubblicata una tabella che illustrava le tendenze delle ditte più in voga per il vestiario infantile – e così a Boston Filene’s disse ai genitori di vestire in rosa i maschietti. Così fecero Best & Co. a New York City, Halle’s a Cleveland e Marshall Field a Chicago.
La faccenda è sempre meno chiara: tutti i documenti vanno «in direzione ostinata e contraria» al dato incontrovertibile della nostra esperienza diretta. Fino alla Seconda Guerra Mondiale nessuno avrebbe avuto dubbi: rosa ai maschietti, celeste per le femminucce.
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