Ciao Lucia,
ti scrivo – anche se un po’ in ritardo per vari motivi – perché ho intuito che le intenzioni del post che hai scritto su uomini e animali sono buone. Vuoi difendere l’humanum ed io sono con te in questa battaglia che sembra quasi un’assurdità. Come si fa a difendere la realtà del nostro essere al vertice della Creazione come uomini (e donne, caso mai passasse da qui la Presidenta della Camera?). Non dovrebbe essere scontato? Non per tutti, purtroppo. Bene, allora, ripeterlo in ogni occasione.
Eppure sento che questa sacrosanta battaglia ci porta, certe volte, fuori strada. Capisco che il recentissimo Trattato De Silvium Natura (se Giovanni mi passa il latino approssimativo) può costituire un grosso ostacolo nell’affrontare la questione con una certa serenità. Leggere perle come questa:
Ho pecore e agnelli, sono straordinari, mi seguono quando passeggio in giardino, poi insieme ci sono anche i cani che danno i baci alle caprette.
rischia di far diventare gli animali antipatici a chiunque, anche a me. Ma occorre non lasciarsi prendere dall’emotività. E riconoscere che innalzando l’uomo – a colpi di spallate che nemmeno un giocatore di rugby, tanta è la fatica contro le odierne derive antropofolli – rischiamo di far sprofondare scorrettamente gli animali. Di disprezzarli. Di trattarli verbalmente (se non fisicamente) come nemici. Fin quasi a vergognarci se condividono i nostri spazi. Me ne accorgo quando sui social – dove si esibisce allegramente di tutto – amici cattolici postano raramente e con grande imbarazzo le foto dei loro animali, e quando succede le introducono con prolisse autogiustificazioni. Anche quelli che hanno formato belle famiglie e che, dunque, non avrebbero alcun motivo per cui essere attaccati. Sai perché? Temono di finire sotto il fuoco amico. Che sostanzialmente ripete quello che tu hai scritto nel post e con toni più feroci di quelli utilizzati da te.
Comunione universale
Le creature non umane, però, non ci sono nemiche, né – in se stesse – sono contra Deum. Giovanni mi ricordava una bella frase di Pascoli:
Se un cane potesse conoscere Iddio… come lo amerebbe!
Più teologicamente fondata, però, è l’affermazione di Paolo che ci ricorda una verità:
La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti (Ef 6, 12)
È vero che lì non stava parlando di animali, ma certo non avrebbe ribaltato il suo discorso riferendosi a questi. Proprio a lui si deve quel noto passo sulla Creazione che attende di essere liberata (Cf. Rm 8, 19-22): l’Apostolo le riconosce una solidarietà con il genere umano nella sofferenza, ma anche nella speranza.
Comprendo bene il tuo sforzo: vuoi ricordare ai nostri simili di non sostituire gli uomini con gli animali. Non vuoi usare la parola “amore”: sono d’accordo. Troviamo un termine più adeguato, ma tralasciamo anche l’aggettivo “sterile” con cui definisci ciò che porta l’uomo a prendersi cura degli animali. Non siamo forse tenuti a comprendere e riscoprire ogni giorno, che se l’uomo è «cosa molto buona», la Creazione è «cosa buona»? Gli animali hanno le loro imperfezioni, come noi del resto, ma fanno parte di quel Creato che ci è stato dato in dono da custodire, anche a partire dalle parole che usiamo per tratteggiarlo, che devono esprimere benevolenza (caro scarabeo, entrato a tradimento nel mio orecchio, per te questo discorso non vale).
La Laudato si’, enciclica purtroppo incompresa e da più parti, ci ricorda:
quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità (n. 92)
Le astrazioni per le creature non esistono
Vorrei suggerirti la lettura di “Io e Marley”. John Grogan, il suo autore, ha scritto un libro godibilissimo, ma il pregio più rilevante del testo è un altro. Il suo racconto biografico mostra che prendersi cura di un cane non ha tolto nulla alla bella famiglia che lo scrittore ha costruito, né al suo lavoro, né a nessun’altra attività della sua vita. Marley è e rimane solo un cane, per tutto il libro. Grogan, mentre narra la genesi dell’articolo che cambierà la sua vita, regalandogli una popolarità inattesa, considera:
Tanta gente fa rinascere i propri animali domestici dopo la morte, trasformandoli in bestie nobili e soprannaturali che nella vita hanno fatto di tutto per i loro padroni fuorché friggere uova per la prima colazione. Io volevo essere onesto. Marley era un divertente, immenso scocciatore che non aveva mai capito del tutto come funzionavano i comandi. Francamente, poteva essere stato il cane più maleducato del mondo. Ma aveva afferrato intuitivamente dapprincipio che cosa significava essere il migliore amico dell’uomo (p. 318)
C’è un altro aspetto della questione che vorrei farti notare. Il ritratto del tuo cane non è rappresentativo: le astrazioni non esistono riguardo agli uomini, come sai bene, ma nemmeno rispetto alle altre creature. Ci sono alcuni cani nevrotici, altri di una vivacità al limite della follia, altri talmente indipendenti che è già tanto se li incroci per caso in corridoio. Non tutti e non sempre sono dispensatori automatici di coccole (anche il Creato, in un modo differente dal nostro, reca i segni dell’ingresso del peccato nel mondo). Se non credi a me, credi a quel genio di Schultz, un grande osservatore della realtà che lo circondava, che più volte ha trattato nelle vignette questo tema:
Piccole grandi lezioni
Eppure tutti loro, proprio perché dono di Dio, hanno qualcosa da insegnarci. Io ti posso comunicare due lezioni che ho imparato. La prima è che la stabilità è importante. In una società che, come scriveva Emiliano, ci chiede di essere sradicati emotivamente e geograficamente, il cane ci mostra continuamente che ha bisogno di punti di riferimento certi. Anche il più indipendente. Se ne hanno bisogno queste creature, figuriamoci noi, nati con la vocazione ad una relazione stabile con il Dio Amore che ci ha creati. Una relazione che ricerchiamo incessantemente anche nei rapporti umani, nelle situazioni lavorative e di studio, nella vita di tutti i giorni.
La seconda lezione è che la scena di questo mondo passa (1 Cor 7, 31) e occorre dare peso a ciò che è fondamentale, mettendo da parte il superfluo. Loro ce lo insegnano in due modi: sia con una vita più breve della nostra, che ci ammonisce a spendere bene il nostro tempo, anch’esso limitato; sia perché puntano alle cose di cui necessitano davvero: un osso, un cuscino, una ciotola d’acqua, una passeggiata. Ora non vorrei fare la moralista (gli inviti alla sobrietà rigorosamente dopo il mio compleanno), ma penso di aver reso l’idea. Come scrive il già citato Grogan:
A volte occorre un cane con un alito cattivo, pessime maniere, e intenzioni pure per aiutarci a vedere (p. 322)
Non penso sia il tuo caso ma ho l’impressione poi che, spesso, quando si ragiona di animali, si proceda per luoghi comuni. Come succede, per esempio, quando alcune persone additano come stupide altre che parlano ai loro animali. «Hanno visto troppi film Disney», dicono perentori. Sai che una studiosa (e altri concordano) ha scritto che l’uomo, quando parla agli animali, si sta semplicemente comportando da uomo? A rigor di logica, infatti, cosa dovrebbe fare in loro presenza? Abbaiare? Miagolare? Gettarsi a terra col ventre e gambe all’aria in cerca di carezze? Comandarli con il corpo o lo sguardo? Ma anche questi ultimi gesti – raccomandati a volte dagli istruttori di cani per farsi comprendere dal proprio quadrupede – non sarebbero forse segnali di una nostra “animalizzazione”?
Ciao, Lucia: dopo anni in cui mi prendo cura dei cani, non sono ancora arrivata a salutare con un “bau”.
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